UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

lunedì 30 novembre 2015

PARIGI
PROPOSTA PER LA MESOPOTAMIA 
di Carlo Rovelli

Un’analisi lucida e di buon senso questa di Carlo Rovelli, 
che andrebbe meditata a fondo e presa sul serio.

Carlo Rovelli
Lo Stato Islamico è in una situazione che sembra paradossale da molti punti di vista. È in guerra contro un’alleanza che comprende le due maggiori superpotenze planetarie, più la Francia, la Siria, l’Iraq, l’Iran, la Turchia, l’Arabia Saudita, i Curdi, gli Hezbollah, e diversi altri stati e gruppi… Non si vede come qualcuno potrebbe resistere militarmente a una simile coalizione. E invece lo Stato Islamico resiste e spesso vince. In secondo luogo, il Califfato appare formato da una banda di fanatici dalla mentalità medioevale, addestrati in qualche oscuro campo in Afghanistan, eppure attualmente controlla una vasta regione abitata da dieci milioni di abitanti, esporta petrolio, importa armi, evidentemente si serve degli strumenti finanziari internazionali. In terzo luogo, fa mostra di una brutalità disgustosa, eppure esercita un fascino che attira giovani da tutto il mondo, fino a spingerli ad andare a combattere in sua difesa. Secondo il Washington Post, solo le ragazze (femmine) scappate dall’Occidente per combattere per lo Stato Islamico sono più di 500 (l’ISIS ha una brigata femminile: la Brigata Al-Khansaa). Come è possibile tutto ciò? Per avere un po’ più di chiarezza su questa situazione e cercare soluzioni ragionevoli, credo sia necessario ricordare alcuni fatti.
Il primo fatto è che lo Stato Islamico è utile a molti degli attori che gli sono ufficialmente nemici. Vediamo solo alcuni casi, cominciando dalla Siria: se non ci fosse stato lo Stato Islamico, Assad molto probabilmente non sarebbe più al potere. Quando in Siria sono esplose le proteste popolari contro la dittatura, la risposta è stata violenta, con la giustificazione che i rivoltosi erano terroristi. Gli Stati Uniti e la Turchia hanno armato gruppi di ribelli antigovernativi che, con il supporto dell’Occidente e della popolazione, avrebbero avuto ragione di Assad. Ma è arrivato lo Stato Islamico, l’Occidente e la Russia si sono preoccupati che la Siria potesse cadere nelle mani degli islamisti, e Assad è stato graziato. È abbastanza noto il fatto che il governo siriano bombarda spesso le posizioni degli altri ribelli, raramente quelle dello Stato Islamico.
La Turchia considera il problema curdo il suo primo problema di sicurezza e di integrità territoriale. I Curdi iracheni sono gli unici che si sono opposti in maniera effettiva allo Stato Islamico non appena la sua espansione territoriale è arrivata nelle zone di loro influenza. I successi militari curdi e il rafforzarsi dell’evidenza dell’esistenza di fatto di uno stato curdo indipendente nel nord dell’Iraq impensieriscono la Turchia, e la riluttanza turca ad una strategia netta contro lo Stato Islamico è nota. Il petrolio dello Stato Islamico è esportato principalmente via terra in Turchia, senza che il governo intervenga, e la Turchia è stata accusata ripetutamente di essere più benevola verso gli sconfinamenti dei combattenti dello Stato Islamico che non di quelli curdi.
Israele, da parte sua, vede l’Iran sciita come principale pericolo, e gli Hezbollah nel sud del Libano, armati dall’Iran, come i suoi più fastidiosi vicini. L’Iran non ha fatto nulla per scoraggiare questi timori israeliani, e il precedente presidente, Ahmadinejad, non esitava a dichiarare pubblicamente che voleva buttare in mare Israele. In passato, la presenza di un Iraq sunnita fieramente anti iraniano rappresentava per Israele una barriera opportuna fra sé e l’Iran, e fra gli Hezbollah e l’Iran. Alla caduta di Saddam Hussein, l’Iraq, invece di evolvere in una serena democrazia filo-occidentale come sperava l’Occidente, è scivolato nelle mani di un governo sciita e via via più filo iraniano, con il risultato che Israele è terrorizzata di avere il mondo sciita filo-iraniano alle porte. Niente di più conveniente per Israele che la frantumazione dell’Iraq in tre stati: uno curdo a Nord (che di fatto esiste già), uno sciita a Est, e uno sunnita a Ovest, che tenga l’Iran separato da sé e dagli Hezbollah. Non a caso lo Stato Islamico minaccia tutti, ma curiosamente non Israele, nonostante Israele non goda certo di buona immagine nel mondo arabo radicale. Questa apparente stranezza è spesso messa in luce dai commentatori dei paesi arabi.
Grazie allo Stato Islamico, la Russia è ritornata nel grande gioco, da grande potenza: ha messo militari in Siria, e ha una scusa per bombardare (invece dell’Isis, come aveva annunciato) i ribelli siriani supportati dagli americani. Suscitando in questo modo lo sdegno degli americani e dei turchi, che hanno accusato la Russia di bombardare il loro amici invece che lo Stato Islamico, fino al punto di abbattere un aereo russo. 


Quatar e Arabia Saudita hanno finanziato a lungo lo Stato Islamico, che propaganda esattamente l’ideologia dell'Islam Wahhabita (o Salafita) di questi stati. Ci scandalizziamo molto del fatto che lo Stato Islamico voglia instaurare la Sharia, ma la Sharia è già instaurata in questi stati. La presenza dello stato Islamico ha bloccato il progetto dell' oleodotto che Assad aveva concordato con l’Iran, che avrebbe pesantemente nuociuto agli stati arabi del Golfo, produttori di petrolio e gas. La monarchia Saudita ha fatto poi un netto dietrofront quando lo Stato Islamico ha proclamato il Califfato e messo in dubbio la legittimità della sovranità della casa di Saud, ma l’Arabia Saudita è una realtà complessa, e l’élite Saudita appare divisa: l’ISIS è in fondo il risultato del grande sforzo di “soft power” che l’Arabia esercita da anni per diffondere l'Islam Wahhabita con le scuole coraniche.
Infine c’è l’America, in fondo ancora la superpotenza mondiale. A me ha colpito il fatto che lo Stato Islamico si è espanso nel silenzio americano fino a che non è arrivato a lambire territori curdi. Solo a questo punto gli americani hanno cominciato a bombardare, e i bombardamenti si concentrano nella zona di attrito fra curdi e Stato Islamico. Sembra quasi che il messaggio americano sia “qui va bene, lì no”. L’Iraq, che gli americani hanno liberato da Saddam Hussein, sta scivolando nelle mani dell’Iran. Il motivo è semplice: gli americani hanno imposto libere elezioni. La maggioranza degli Iracheni è la parte povera della società, sciita e istintivamente vicina all’Iran sciita, religioso e anti-occidentale. Da sempre risente la dominazione della minoranza formata dalla borghesia sunnita, tradizionalmente laica e filo-occidentale. Con il governo ufficiale dell’Iraq che gli scappa di mano (è stato il governo iracheno a chiedere all’esercito americano di andarsene), gli americani vedevano tutti i loro sforzi in Iraq concludersi con una vittoria politica del loro più esplicito nemico nel mondo, l'Iran. Ha dato veramente tanto fastidio agli Stati Uniti una insurrezione interna, che forza il governo a richiamare indietro i militari americani, e a dire “scusateci, abbiamo bisogno di voi…”? Non so lo. Certo è che se davvero volesse battere militarmente lo Stato Islamico, l’America ne avrebbe largamente i mezzi, come ha avuto i mezzi per abbattere l’esercito di Saddam Hussein, di gran lunga più potente. Ma non lo fa. Come ha ragionevolmente detto Obama una settimana fa, una nuova invasione porterebbe a una deleteria occupazione infinita, oppure ad un nuovo ritiro americano e poi ancora una volta il problema attuale: chi comanda in Mesopotamia?
In breve, il problema dello Stato Islamico è che a parole tutti gli sono contro, ma di fatto fa comodo a un sacco di gente. Se non fosse così, sarebbe sparito da tempo. Questo forse non spiega del tutto, ma certo aiuta a capire perché esiste, nonostante abbia tutti nominalmente contro.
La seconda considerazione riguarda un altro paradosso: come è possibile che una banda di fanatici faccia tutto questo? La risposta è nella storia, e nella natura dello Stato Islamico. Lo Stato Islamico è il prodotto di una alleanza improbabile.Una di quelle alleanze fra gente diversissima, basata sul “il nemico del mio nemico è il mio amico”, che caratterizzano la politica medio-orientale. L’alleanza è ben nota e conosciamo perfino i luoghi, le persone e le date della sua formazione. Le due componenti dell’alleanza sono i gruppi fondamentalisti estremisti islamici da un lato, e la vecchia vasta struttura di potere di Saddam Hussein: la borghesia sunnita dominate nell’Iraq del partito Baaht. L’alleanza è improbabile perché i primi vengono dal fondamentalismo religioso eversivo, i secondi dal nazionalismo socialista arabo laico al potere. Ma non si tratta neanche di vera sorpresa, e tutto sommato a lanciare l’idea stessa di questa alleanza possibile è stato lo stesso Saddam Hussein, che negli ultimi proclami prima di essere abbattuto dall’invasione americana ha chiamato la religione a difesa del suo mondo. Ricordate gli ultimi proclami di Saddam Hussein? C’era esattamente l’idea che per difendersi dall’Occidente la sua gente dovesse assumere la faccia dell’Islam radicale e trascinare le masse. Curioso per il dittatore più laico e filo-occidentale del medio oriente, ma così va il mondo. Oggi gli analisti americani riconoscono apertamente che l’errore principale che hanno commesso, o meglio, hanno permesso fosse commesso, dopo la caduta di Hussein, è stata la “de-ba’athizzazione” completa dell’Iraq. Concretamente, questo ha significato che i quadri dell’amministrazione statale, e soprattutto dell’esercito, cioè tutta la borghesia irachena che costitutiva la struttura portante dello stato, è stata buttata sulla strada, senza stipendio, senza difesa e soprattutto, come ha sottolineato recentemente il consigliere politico americano in Iraq, senza alcuna dignità, in una cultura, quella araba, dove la dignità conta molto.
Per il segmento più povero, sciita, della popolazione irachena, che ha vinto le elezioni, è stato certo un piacere sottile vedere tutti i sunniti ridotti a cittadini di serie B. I tentativi americani di evitare questa “settarizzazione” drammatica dello stato iracheno sono falliti. Un esempio fra molti è quello di Tariq al-Hashimi, vice presidente sunnita dell'Iraq per cinque anni, accusato di sovversione e condannato a morte nel 2012 (in contumacia, nel frattempo è scappato), dal governo sciita. Quello che è successo in Iraq fin da subito dopo l’invasione americana è stata la crescita di una strisciante insurrezione sunnita contro il nuovo stato. A lungo non è stato chiaro se un governo di unità fra il mondo sciita e quello sunnita fosse possibile, ma con il passare del tempo lo scontro si è radicalizzato. Le zone più radicali del mondo sunnita, come Fallujah, hanno prima combattuto a fondo l’invasione americana, poi sono diventate il cuore dell’insurrezione sunnita contro il governo Iracheno, sempre più controllato dagli sciiti, e indirettamente dall’Iran. Che in Iraq ci sia una guerra civile in atto fra le due componenti della popolazione non c’è dubbio, e di per sé questo non c’entra niente con il radicalismo islamico. Anzi, all’inizio sembrava che fossero gli sciiti più vicini al radicalismo, quando il giovane governo iracheno pullulava di leader religiosi sciiti. Poi c’è stata la svolta.


Curiosamente, una causa occasionale indiretta della svolta è stata l’indignazione mondiale sollevata dagli orrori della prigione di Abu Ghraib, nel 2003. La campagna di stampa mondiale contro il trattamento dei detenuti in questa prigione ha messo in forte imbarazzo il governo americano, che ha reagito aprendo un campo di detenzione modello in Iraq: il Camp Bucca. Camp Bucca ha avuto un ruolo centrale per la nascita del Stato Islamico. Camp Bucca è arrivato ad avere fino a 24 mila prigionieri: praticamente una cittadina chiusa in prigione. I prigionieri avevano notevole spazio di manovra e interazione fra loro. Organizzavano essi stessi, e insegnavano in classi, su argomenti come letteratura e religione. Organizzavano campionati di calcio interni e potevano ascoltare radio e televisione insieme. Ricevevano visite esterne di familiari con relativa facilità. Diversi dei responsabili del campo hanno lanciato l’allarme che il risultato di tutto questo era una radicalizzazione politica dei prigionieri su vasta scala. Oggi è ampiamente documentato il fatto che Camp Bucca ha rappresentato il capitolo iniziale dello Stato Islamico. Molti dei leader dello Stato Islamico, compreso il leader, Abu Bakr al-Baghdadi, il numero due, Abu Muslim al-Turkmani, e il principale comandate militare, Haji Bakr, erano prigionieri e si sono incontrati e organizzati durante la prigionia. Ma soprattutto, Camp Bucca è stata l’occasione per la fusione di due anime diversissime dell’insurrezione in Iraq: il radicalismo islamico estremista e la vecchia struttura Baaht dello stato di Saddam Hussein, emarginata dal potere. È all’interno di Camp Bucca che questi due mondi si sono frequentati, conosciuti e alleati. Gli jihadisti hanno fornito la forza ideologica, gli ex-Baathisti le capacità militari, organizzative, burocratiche e soprattutto il sostegno della popolazione sunnita. La storia insegna che non esiste insurrezione senza supporto popolare.
Qualche esempio: Fadhil Ahmad al-Hayali, secondo in linea di comando nell'esercito ISIS era ufficiale dell'esercito di Hussein. Izzat Ibrahim al-Douri, generale dell’esercito di Saddam Hussein, vice presidente del consiglio di comando dell’Iraq di Hussein è indicato come il responsabile per la presa di Mosul nel giugno 2014. Azhar al-Obeidi e Ahmed Abdul Rashid, generali del partito Ba’ath, sono indicati come governatori di Mosul and Tikrit. Una delle prime rivendicazioni dell’ISIS sui social networks è stata la cattura e l’esecuzione (messa in dubbio) di Raouf Abdul Rahman, il giudice che ha condannato a morte Saddam Hussein. La presenza della classe dirigente irachena nello Stato Islamico rende comprensibile come questo possa funzionare. La propaganda è dominata dal radicalismo, ma la struttura ossea dello stato è la rete di relazioni tribali che domina la politica della Mesopotamia: il mondo sunnita che rivendica potere. Mi sembra che solo tenendo presente questo aspetto dello Stato Islamico si possa pensare a una soluzione.
Il 17 Settembre 2009 Camp Bucca è stato chiuso. La maggior parte dei prigionieri sono stati semplicemente liberati. Un gruppo di questi si sono uniti per iniziare quello che sarà il nucleo storico dello Stato Islamico. La presenza della vecchia classe dirigente irachena nello Stato Islamico rende comprensibile come questo possa esistere e funzionare. Si tratta di larga parte della struttura portante dell’esercito e dell’amministrazione di Saddam Hussein. Gente che sa come organizzare un esercito di molte decine di migliaia di combattenti, come fare fronte a una guerra su più fronti. Sa dove il vecchio esercito di Saddam Hussein aveva nascosto le armi quando diventava ovvio che non si sarebbe potuto resistere all’armata americana. E più ancora, sa come organizzare e gestire uno Stato di 10 milioni di abitanti: raccogliere le tasse, fare funzionare le centrali petrolifere, interagire con le banche internazionali, organizzare la posta, le scuole, i trasporti, le assicurazioni, la salute pubblica, la ricostruzione delle strade, degli ospedali eccetera: tutte cose di cui lo Stato Islamico attualmente sembra occuparsi molto meglio delle precedenti forze in campo nelle regioni della guerra civile irachena e siriana. Sa come combattere la corruzione e organizzare la polizia. Senza questo apporto di conoscenza e di saper fare, lo Stato Islamico sarebbe incomprensibile. Soprattutto, lo Stato Islamico è incomprensibile senza l’evidente appoggio popolare che lo sorregge in regioni di maggioranza sunnita come Fallujah, dove il risentimento per l’emarginazione sociale operata dal settarismo del governo iracheno sciita ha dato origine alla guerra civile irachena. Mentre la propaganda e il linguaggio “ufficiale” dello Stato Islamico sono chiaramente dominati dalla componente radicale islamista, la struttura ossea dell’insurrezione e dello stato è, molto più semplicemente, la rete di relazioni tribali che da sempre domina la politica della Mesopotamia: tradizionalmente al potere in Iraq, tradizionalmente soggiogati dalla minoranza alawita in Siria, il mondo sunnita, potente in Medio Oriente, si trova ora schiacciato da una nuova dominanza sciita e si ribella, rivendicando potere.


Il terzo elemento per comprendere lo Stato Islamico è considerare l’uso che fa 
dell’orrore. Diverse decine di video di alta qualità e stile hollywoodiano sono stati diffusi dallo Stato Islamico per mostrare macabre e repellenti immagini di orrore. I proclami dell’Isis sono spesso roboanti e belligeranti al limite del ridicolo. Per capire, credo un’osservazione sia cruciale: c’è una sconcertante somiglianza fra i termini usati in Occidente per descrivere lo Stato Islamico, e quelli usati dallo Stato Islamico per descrive l’Occidente: “abominio, perversione, delirante, demoniaco, degenerato, scellerato, barbarico, inumano...”. L’Occidente ha le sue pecche, ma certo non è così abominevole. La domanda da porsi è se l’immagine dello Stato Islamico in Occidente non sia altrettanto irrealistica. Basarla su video, proclami e numero di morti è come giudicare l’Occidente unicamente dai droni che uccidono civili: l’Occidente è ben altro. La combinazione di video di qualità, Internet e orrore è nuova, ma l’uso dell’orrore non è certo appannaggio dello Stato Islamico. Le guerre civili producono questi orrori, e alzare il tono per spaventare il nemico è una tattica brutale ma purtroppo comune. Bruciare villaggi al Napalm in Vietnam non era meno orripilante, e aveva lo stesso scopo: terrorizzare il nemico per affermare la propria superiorità in termini di forza. A casa nostra molti ricordano le file di impiccati che oscillavano al vento e marcivano appesi agli alberi, lungo la strada per Bassano, durante la guerra civile italiana nel 1944-’45. La differenza è che non c’era Internet. Lo scontro in atto ha gettato tutti noi nella usuale allucinazione che purtroppo nasce in tutti i conflitti: il nemico diventa d’un tratto una manifestazione del diavolo, dell’orrore, dell’abominio, e continuiamo a ripeterci l’un l’altro e fare crescere nella nostra immaginazione tutti i dettagli più orripilanti che ci confermano questo percorso di diabolizzazione. Per i giovani mussulmani che si fanno affascinare dalla propaganda dello Stato Islamico, succede la stessa cosa, simmetrica: l’Occidente diventa diabolico, diventa l’espressione stessa del male. Questo è solo il percorso psicologico simmetrico, usuale di ogni conflitto, sia fra individui sia fra popoli. Se vogliamo cercare di mantenere la testa fredda e capire, non dobbiamo cadere in questa trappola.
Questo ovviamente non significa mettere l’Occidente e lo Stato Islamico sullo stesso piano. Ovviamente non lo sono rispetto al nostro giudizio, per ovvi motivi. Ma fra il dissentire anche molto a fondo, e la diabolizzazione e la guerra, passa una distinzione che è tutt’altro che marginale: io dissento profondamente dalle idee che guidano l’Arabia Saudita, dove le persone vengono messe a morte, prese a frustate per comportamenti che in occidente sono leciti, dove le donne non possono neppure guidare l’automobile, il potere è nelle mani di un monarca perché è discendente di Maometto, la legge ufficiale è la Sharia, e l’ateismo è punito con la morte. Dissento profondamente da tutto ciò, e approvo chi combatte queste cose con la parola lo scritto, l’esempio e la politica, ma non per questo penso che dovremmo bombardare l’Arabia Saudita e ammazzare tutti i Sauditi. Una cosa è il dissenso ideologico, una cosa molto diversa è la guerra. Per capire cosa succede in Mesopotamia, e cercare soluzioni, la questione non è il giudizio politico: è capire cosa sta succedendo senza farsi accecare dai meccanismi fuori controllo della diabolizzazione. O dal terrore sciocco. Resta infinitamente più facile in Occidente morire di incidente stradale che per attentato terroristico. Lo Stato Islamico è un problema perché produce terrorismo e destabilizza la regione, non certo per la sua pericolosità militare: non è riuscito a tenere Kobane davanti ai Curdi, figuriamoci se impensierisce militarmente la NATO! Sono pochissime le testimonianze dirette sul vasto territorio controllato dall’ISIS. Gli straordinari reportage di Francesca Borri ci danno qualche elemento per capire, poco altro. La realtà di dieci milioni di persone potrebbe essere molto meno diabolica dell‘immagine mediatica. Nelle zone dove si combatte e per le minoranze opposte ai Sunniti, la situazione deve essere durissima, ma nelle vaste zone sunnite che hanno appoggiato lo Stato Islamico, siamo sicuri che ci sia l’orrore dipinto, senza saperne niente, dai nostri media? Credo sia facile invece immaginare quello che la gente vuole, perché è la stessa cosa che tutti vogliono: pace. La fine della guerra. La pace che Saddam Hussein, sunnita, garantiva.
Se questo quadro che ho delineato è anche solo in piccola parte ragionevole, a me sembra che esista una possibile direzione per risolvere il problema dello Stato Islamico: normalizzarlo.
Cercare di toglierlo dalle mani più estremiste e fanatiche e favorire la normale evoluzione dei movimenti insurrezionali. I movimenti insurrezionali più diversi, dal risorgimento italiano al sionismo, dall’insurrezione araba contro i turchi a quella vietnamita contro Francia e poi America, sono tutti nati mettendo bombe, e sono stati inizialmente considerati terroristici. A insorgere sono gli scalmanati, i Garibaldi e i Lawrence d’Arabia. Poi arrivano le teste fredde e la situazione si normalizza: Garibaldi a Caprera, Lawrence in Inghilterra, arrivano Cavour o re Hussein, i vecchi, che lasciano da parte i sogni di insurrezione globale, e riportano tutto a una relativa ragionevolezza. La guerra del Vietnam era combattuta dall’America perché se il Vietnam fosse caduto in mani comuniste l’intero Occidente sarebbe stato certo annientato. All’interno dello Stato Islamico esiste una essenziale componente ex-Ba’ath che è quella che ha il supporto della popolazione sunnita. Il punto di arrivo del doloroso processo in corso in Mesopotamia mi sembra non possa che essere uno stato Sunnita che erediti l’attuale Stato Islamico. Affiancato da uno stato Curdo filo occidentale al Nord, che di fatto già esiste anche se nessuno lo dice esplicitamente, uno Stato Sciita all’Est che già esiste, e una Siria ridotta, difesa dalla Russia, che già esiste. Ciascuno dei contendenti in gioco rinuncia a qualcosa, ma la gente vive in pace. La soluzione della frantumazione dell’Iraq in tre stati, d’altra parte, è una soluzione che da anni molti preconizzano, considerano come l’unica possibile, e auspicano. I confini attuali sono artificiali e non rispettano il sentimento popolare. Esiste un ottimo motivo generale per non modificare i confini presenti: evitare guerre e conflitti; ma quando si è in guerra da anni, questo motivo perde ogni senso. L’unità dell’Iraq non ha alcuna ragione di esistere, visto che la larga maggioranza dei suoi abitanti non la vuole. Molti pensano che comunque si arriverà a questo. Perché arrivarci dopo molti altri anni di guerra?

Parlare con i nemici è sempre la cosa più difficile. Ma è la cosa giusta. Lo Stato Islamico è più debole di come lo si dipinge, la sua forza è solo la poca voglia degli altri di andarlo ad abbattere. Nonostante la retorica, non è fatto di cretini: non si tiene una regione di dieci milioni di abitanti senza intelligenza. Dipingerli come mostri irrazionali è solo miope. Se si sono proclamati “Stato” è perché la loro aspirazione è uno stato. Nel momento in cui intravedessero la possibilità di realizzarlo la carica eversiva si affievolirebbe e i deliri millenaristici perderebbero peso. Anche la rivolta araba contro l’impero turco ambiva a ricostruire un Califfato che unisse tutti gli arabi, e i Vietnamiti volevano un pianeta comunista libero dall’Occidente. L’ISIS non può espandersi ulteriormente: a Nordest ci sono i Curdi, a Est gli Sciiti, a Sud la Giordania e l’Arabia Saudita, a Nordovest la Siria, difesa militarmente dalla Russia. Lo Stato Islamico è condannato ad accettare gli attuali confini. Più che mettere qualche bomba non può fare, ma le bombe non portano a nulla. L’Occidente può continuare a bombardare, ma i bombardamenti, come ripetono i vertici militari, non portano a nulla. Nessuno ha voglia di invadere di nuovo la Mesopotamia, per riaprire il problema. Penso sia necessario parlare con lo Stato Islamico. L’alternativa è la guerra senza fine. Dolore e destabilizzazione, nessuna visione per il futuro. 
Certo, non sono partner simpatici per una discussione. Anzi, sono disgustosi.  Ma i nemici sono sempre disgustosi. O li ammazziamo tutti, e poi ci troviamo di nuovo con il problema dell’insurrezione sunnita, oppure parliamo con loro. Ci sono due comportamenti da evitare in un conflitto. La sterile discussione sulle colpe, perché la realtà è complessa e le accuse non forniscono soluzioni. E la spirale psicologica che porta alla diabolizzazione del nemico, compromette la lucidità e ci spinge a urlare “guerra! guerra!”. L’attuale situazione di conflitto con lo Stato Islamico sta generando una reazione emotiva collettiva che mi sembra rischi di offuscare lucidità e razionalità, e rischia di portare disastri. In questa situazione, come è già successo nel passato, mi sembra un dovere per gli intellettuali di provare a fare sentire una voce di razionalità e di ragionevolezza, per cercare di limitare i danni della isteria collettiva. La prima cosa da fare in un conflitto, è sempre la stessa: deporre le armi e parlare. Vale per tutti. Per fermare la violenza bisogna cominciare con smettere di praticarla.
La mia proposta per la Mesopotamia è normalizzare lo Stato Islamico. Parlare con i Sunniti, fare emerge la componente ex Ba’ath, quella che pensava di potersi servire degli islamisti radicali come strumento per tornare al potere, e spingere lo Stato Islamico alla normalizzazione. Il suo fascino sui fanatici di tutto il mondo svanirebbe rapidamente. Avremmo molte meno bombe in Occidente. Qualcuno vede una strada migliore?



*(Una versione molto condensata di questo testo è apparso sull’Internazionale)

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