UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

domenica 21 febbraio 2016

PER UMBERTO ECO
RAGIONARE ALLA POE
di Fabrizio Amadori

"Credo però di avere subito la mia esperienza aristotelica decisiva
leggendo la Philosophy of Composition di E. A. Poe",  

Umberto Eco (Da: Sulla letteratura, Bompiani, 2002, p. 256)

In onore di Umberto Eco, e per ricordarne la scomparsa avvenuta ieri a Milano, pubblichiamo questo lungo scritto di Fabrizio Amadori dal titolo “Ragionare alla Poe”. Eco considerava “Filosofia della composizione” di Poe un testo “straordinario”, lo scrive lui stesso in “Sei passeggiate nei boschi narrativi”, (Bompiani, 1994, p.57). Eco tornerà anche altrove su questo testo di Poe. Grave perdita per la cultura italiana ed internazionale, Eco aveva assunto il ruolo di coscienza critica soprattutto durante gli anni berlusconiani. Crediamo tuttavia poco al cordoglio espresso dai politici e dalle istituzioni italiane: basti pensare al ruolo marginale a cui la loro insipienza ha costretto la lingua italiana (la lingua usata dal narratore e intellettuale Umberto Eco), fra le più ricche e letterariamente più valide esistenti. Non l’hanno difesa in nessun consesso internazionale, tant’è che i documenti del Parlamento Europeo non vengono più neppure tradotti nella nostra lingua. Lo aveva denunciato a suo tempo la scrittrice Gina Lagorio sull’edizione cartacea di “Odissea”, e più volte ce ne siamo occupati.    

Umberto Eco

Scrive Poe in un suo famoso saggio, Filosofia della composizione, non molto conosciuto per la verità in Italia dal grande pubblico: “Preferisco iniziare con la considerazione di un effetto. Tenendo sempre presente l’originalità… io anzitutto mi chiedo: fra gli innumerevoli effetti, o impressioni, di cui il cuore, l’intelletto, o (più generalmente) l’anima è suscettibile, quale devo scegliere nel caso presente?”
Poi Poe si chiede come mai un articolo sui procedimenti che hanno portato un autore a terminare una composizione non sia mai stato scritto. Egli crede che ciò sia dovuto alla vanità.
“I più degli scrittori, infatti, preferiscono far credere che essi compongono con una specie di sottile frenesia… e certamente rabbrividirebbero di permettere al pubblico di vedere dietro la scena le elaborate e vacillanti crudezze del pensiero.”
Così Poe decide di scriverlo lui questo articolo. E sceglie Il Corvo per farlo, ossia una poesia.
“È mia intenzione dimostrare che nessuna parte di essa fu dovuta al caso o all’intuizione, che l’opera procedette, passo passo, al suo compimento con la precisione e la rigida conseguenza di un problema matematico”.
“Le prime considerazioni furono sull’estensione. Se un’opera letteraria è troppo lunga per essere letta in una sola seduta, noi dobbiamo rinunciare all’effetto, immensamente importante, che è dato dall’unità d’impressione, perché interferiscono nella lettura le faccende del mondo e, così, ogni cosa in quanto totalità è subito distrutta.”

E. A. Poe

Così Poe decide di scrivere una poesia non più lunga di cento versi. In questo in realtà Poe segue Aristotele, che ne La poetica scrive: “(…) Come i corpi e gli esseri viventi debbono possedere una grandezza che si possa ben percepire, così le favole debbono avere un’estensione che possa venir tutta ben compresa nella memoria”.
“Mi preoccupai subito dopo della scelta dell’impressione, o effetto, che dovevo produrre; e qui posso osservare che, in tutta la costruzione, tenni fermamente presente il proposito di rendere l’opera universalmente apprezzabile…”
E poiché: “quando gli uomini parlano di Bellezza non intendono precisamente una qualità, come si suppone, ma un effetto” è evidente che tale effetto Poe doveva raggiungere.
Poe continua così:
“Considerando dunque come mio fine la Bellezza, mi proposi subito di determinare il tono della sua più alta manifestazione, e ogni esperienza ha dimostrato che questo tono è quello della tristezza. La Bellezza di ogni specie, nelle sue più alte manifestazioni, invariabilmente muove alle lacrime l’anima sensibile. La malinconia è dunque il più proprio di tutti i tono poetici. Avendo determinato la lunghezza, il fine ed il tono, ricorsi al comune metodo induttivo, allo scopo di trovare qualcosa di artisticamente piccante che potesse servirmi come nota fondamentale nella costruzione della poesia, qualche perno su cui potesse girare l’intera struttura. Pensando accuratamente a tutti gli usuali effetti artistici -o più semplicemente trovate, in senso teatrale- non mancai di scorgere immediatamente che nessuno era stato così universalmente usato come il refrain. Nel suo uso comune, il ritornello non solo è limitato alla poesia lirica, ma dipende anche per il suo effetto dalla forza della monotonia – sia riguardo al suono che al pensiero (grassetto d.A.). Il piacere è derivato soltanto dal senso di identità – di ripetizione. Io decisi di variare, e così accrescere, l’effetto, mantenendo, in generale, la monotonia del suono e variando continuamente il pensiero: vale a dire, decisi di produrre continuamente nuovi effetti variando l’applicazione del ritornello – il ritornello stesso restando, per lo più, invariato. Il ritornello stesso doveva essere breve, dato che qualsiasi frase lunga avrebbe presentato insormontabili difficoltà nelle frequenti variazioni di applicazione. La facilità della variazione sarebbe stata naturalmente proporzionata alla brevità della frase. Queste considerazioni mi indussero subito a prendere un’unica parola come il miglior ritornello.”
Adottando il ritornello la poesia, ovviamente, doveva essere divisa in stanze: il ritornello doveva chiudere ognuna di esse.
“Non c’era dubbio che una tale chiusa, per avere efficacia, doveva essere sonora e capace di una sonorità prolungata; furono queste considerazioni che mi indussero, inevitabilmente, ad adottare l’o lunga, come la vocale più sonora, in unione alla r, come la consonante più prolungabile.”
Quale parola conteneva entrambe? La prima che venne in mente a Poe fu nevermore (mai più).
“Il successivo desideratum fu un pretesto per il continuo uso della sola parola nevermore. Considerando la difficoltà che subito trovai nell’inventare una ragione sufficientemente plausibile per la sua continua ripetizione, non mancai di accorgermi ch’essa nasceva unicamente dal preconcetto che la parola dovesse essere così continuamente o monotonamente ripetuta da un essere umano, non mancai di accorgermi, in breve, che la difficoltà consisteva nel conciliare questa monotonia con l’uso della ragione da parte della creatura che ripeteva la parola. A questo punto, mi nacque immediatamente l’idea di una creatura non razionale e tuttavia capace di parlare; e dapprima, molto naturalmente, pensai ad un pappagallo; ma subito lo sostituii con un corvo, come ugualmente capace di parlare e infinitamente più adatto per mantenere il tono stabilito.”
Ricapitolando: abbiamo adesso un corvo, un uccello di cattivo presagio, che ripete una sola parola, nevermore, alla conclusione di ogni stanza di una poesia di tono malinconico e della lunghezza di circa cento versi. A tal punto Poe si chiese quale fosse l’argomento malinconico per definizione. La Morte. E quando tale argomento diventa massimamente poetico? Quando è legato alla Bellezza. Quindi la morte di una bella donna è l’argomento più poetico del mondo. Ma le labbra più adatte per trattare tale argomento sono quelle dell’amato (non quelle di un corvo, animale privo di ragione  e di cuore). Ricapitolando ancora una volta, adesso bisogna unire le due idee, di un amante che piange la sua donna morta e di un corvo che continuamente ripete la parola nevermore.
“E dovendo unirle senza mai dimenticare l’idea di variare, ogni volta, l’applicazione della parola ripetuta, pensai che l’unico modo intelligibile per una tale unione fosse quello di immaginare che il corvo usi la parola come risposta alle domande dell’amante (la forma guida la scelta dei contenuti insomma, n.d.A.). E fu qui che vidi subito l’opportunità che m’era offerta di ottenere l’effetto su cui avevo contato – cioè, l’effetto della variazione di applicazione (rimanendo uguale il ritornello, n.d.A.). Compresi che potevo far proporre la prima domanda all’amante – la prima domanda alla quale il corvo avrebbe risposto nevermore –, e che essa avrebbe potuto essere una domanda banale, la seconda meno, la terza ancora meno, e così via, finché alla fine l’amante, atterrito e scosso dalla sua primitiva nonchalance, dal carattere malinconico della parola stessa, dalla sua frequente ripetizione e dalla considerazione della sinistra fama dell’uccello che la dice, è preso da superstizione e fa tutto agitato domande assai diverse; domande la cui risposta gli sta profondamente a cuore e che fa parte per superstizione e parte per quella specie di disperazione in cui si gode a tormentare se stessi – non le fa cioè perché crede alla natura profetica o demoniaca dell’uccello (che, come la ragione lo rassicura, non fa che ripetere una lezione meccanicamente imparata), ma perché prova un piacere frenetico nel formulare le sue domande in modo da avere dall’atteso nevermore quel dolore che è il più delizioso perché il più intollerabile.Vedendo l’opportunità che così mi era offerta – o, più esattamente, che così mi si imponeva nello sviluppo della costruzione – stabilii innanzitutto nella mente il climax, o la domanda finale – quella domanda alla quale per l’ultima volta sarebbe stato risposto nevermore – quella domanda in risposta alla quale questa parola nevermore avrebbe comportato il massimo immaginabile di dolore e disperazione. Si può dire che la poesia abbia avuto il suo inizio a questo punto – cioè alla fine, dove ogni opera d’arte dovrebbe incominciare (così come, ripeto, furono considerazioni circa aspetti formali - cos’altro sono infatti quelle che riguardano l’effetto [il ritornello corto fu scelto per l’effetto, ma una parola ha anche un significato]? - a determinare i contenuti) – poiché fu a questo punto delle mie considerazioni preliminari che cominciai a scrivere componendo la stanza finale:
“Profeta,” dissi “creatura del male! Profeta tuttavia,
[sii tu uccello o demonio
Per il cielo che s’incurva su di noi, per il Dio che
[entrambi adoriamo
Di’ a quest’anima oppressa dal dolore se nel lontano
[Eden
Abbraccerà una santa fanciulla che gli angeli chiamano Leonora,
Abbraccerà una radiosa fanciulla che gli angeli chiamano Leonora.”
Disse il corvo: “Mai più”.


Poe aggiunge:
“Se nel comporre il resto fossi riuscito a costruire stanze di maggiore efficacia, le avrei, senza scrupoli, indebolite di proposito, così da non perdere l’effetto della stanza culminante.
E ora posso parlare brevemente della versificazione… L’originalità (in questo campo, n.d.A.) non è per nulla una questione d’istinto o di intuizione, come alcuni credono. In genere, per raggiungerla bisogna laboriosamente cercarla, e, benché valore positivo della più alta specie, a conseguirla si richiede meno l’invenzione che la sua negazione.”
Ora, ciascuno dei versi de Il corvo singolarmente preso è già stato usato, e tutta l’originalità della poesia “consiste nella loro combinazione nella stanza”. Altro punto da esaminare era l’ambiente. Dice Poe: “Mi è sempre sembrato che una precisa circoscrizione dello spazio sia assolutamente necessaria all’effetto di un avvenimento isolato: essa ha l’efficacia di una cornice per un quadro. Essa possiede un indiscutibile potere morale nel mantenere concentrata l’attenzione… Decisi quindi di porre l’amante nella sua stanza.”
Una stanza riccamente arredata per dare il senso di quella Bellezza di cui si parlava prima. Poe termina così: “Dovevo quindi introdurre l’uccello – e il pensiero di farlo entrare dalla finestra era inevitabile. L’idea di far sì che in un primo momento l’amante supponga che lo sbattere delle ali dell’uccello contro l’imposta sia un bussare alla porta, nacque dal desiderio di accrescere la curiosità del lettore col prolungarla e dal desiderio di sfruttare l’effetto incidentale che si ha quando l’amante spalanca la porta, trova tutto buio e allora fantastica che sia stato lo spirito dell’amata a battere la porta. Feci la notte tempestosa, anzitutto per giustificare il fatto che il corvo cerca di entrare, e, in secondo luogo, per ottenere un effetto di contrasto con la serenità (materiale) che c’è dentro la stanza. Feci che il corvo si posasse sul busto di Pallade, pure per l’effetto di contrasto fra il marmo (bianco, n.d.A.) e le penne (nere, n.d.A.). Essendo sottinteso che l’idea del busto fu assolutamente suggerita dall’uccello, basterà aggiungere che fu scelto il busto di Pallade anzitutto come il più adatto all’erudizione dell’amante, e, in secondo luogo, per la sonorità del nome Pallade.”


Poe fa ancora alcune considerazioni, ma secondo me queste bastano a rendere bene l’idea di cosa significhi badare all’effetto, ossia alle reazioni del lettore, e cioè, in ultima analisi, alla psicologia.
Si tenga comunque presente che ci vollero tre anni a Poe per portare a termine il suo capolavoro poetico, ed è molto probabile che abbia tratto ispirazione da un altro poema di quel periodo per il famoso ritornello nevermore. Ecco un tentativo semplice di come adottare il metodo di Poe per la prosa.
1) Ho intenzione di creare un giallo.
Qual è il linguaggio più comprensibile? Quello televisivo. Esso infatti è costituito di battute brevi e secche.
2) Voglio creare un rapporto di confidenza e di simpatia tra il mio lettore ed il poliziotto. Desidero infatti che il lettore stia dalla sua parte.
Capisco subito, però, che il lettore sta sempre dalla parte dell’investigatore. Ma per renderlo più simpatico decido di usare una tecnica collaudata, quella che determina appunto il tono della confidenza: la prima persona. Essa crea un filo diretto tra protagonista e lettore e così ogni occasione è buona per evidenziare il carattere di chi parla. Il lettore infatti, trattandosi di un giallo, a maggior ragione non si perderà una parola del protagonista: decido perciò di fargli dire delle cose simpatiche e gentili. Il mio protagonista, insomma, non deve sembrare un poliziotto.
3) Non avendo letto molta narrativa del genere decido di rivolgermi ai film.
4) Comprendo subito che il film del genere più amato e che meglio si presta ad una versione letteraria è la serie televisiva Colombo.
La bellezza di tale serie risiede innanzitutto nella capacità di indagine del protagonista, una capacità che definirei logica (quella di Derrick è invece piuttosto intuitiva, e sfrutta molto le caratteristiche psicologiche degli indagati).
Decido di togliere la prima parte, quella in cui nel film si vede agire l’assassino: questo per allontanarmi dal mio modello ed impedire un troppo facile e pericoloso (1) accostamento con esso.
Il modello non deve essere evidente ma devo seguirlo per avere successo: decido così di non fare parlare il mio poliziotto col tono di Colombo, ma di conservarne solo il metodo.
5) Levare la prima parte, dicevo: in tal modo però impoverisco doppiamente il mio lavoro. Innanzitutto perché lo privo della prima parte; e poi perché lo privo di un effetto che la presenza della prima parte (quella, ripeto, in cui si vede agire l’assassino) determina: la sottile guerra psicologica, espressa mirabilmente nel dialogo, tra il tenente e l’indiziato (2).
In verità il lettore del racconto, concentrandomi io su uno o due personaggi al massimo (oltre all’investigatore), capisce comunque che uno di loro è il colpevole: la guerra psicologica non è quindi scomparsa del tutto. Si è indebolita semplicemente, essendosi indebolito uno dei fronti. Il botta e risposta tra investigatore e colpevole, infatti, è più efficace di quello tra investigatore e uno che è solo un indiziato. Le sue risposte ci coinvolgeranno meno di quelle di uno che sappiamo con certezza essere l’assassino. Il lettore distribuirà l’attenzione che sarebbe stata meglio concentrare su un unico personaggio su due. Quello che si perde in forza da una parte dei due fronti in guerra, lo devo riacquistare dall’altra. Le battute dei due indiziati dovranno recuperare quell’attenzione del lettore che hanno perso in parte per la ragione suddetta: dovranno cioè essere particolarmente efficaci.
6) Il metodo di Colombo non rappresenta ai miei occhi un elemento sufficiente a far individuare con certezza il modello: l’efficacia e la popolarità del suo metodo consiste infatti nel procurare nello spettatore una reazione la cui natura è troppo generale e universale perché un prodotto cinematografico o letterario possa pretenderne l’esclusiva.
7) Pensando ai vari episodi della serie televisiva Colombo intuisco che lo scopo di indicare subito l’assassino non può essere ovviamente quello di togliere allo spettatore il piacere di scoprire lui il colpevole; ma nemmeno soltanto quello di permettere di far nascere, come dicevo prima, una guerra psicologica tra Colombo e l’assassino, perché l’effetto positivo di tale fenomeno riequilibrerebbe appena il dispiacere di non aspettarsi alcuna sorpresa finale sull’identità del colpevole.
Lo scopo, secondo me, è quello di dimostrare che ogni ragionamento del tenente volto a mostrare una contraddizione nella tesi dell’avversario è doppiamente efficace perché non solo segue una logica che capiamo e condividiamo (“Sì”, pensiamo ogni volta, “è giusto. Sì, il punto è proprio questo”) ma che è vera, perché noi vediamo che ha di mira il vero colpevole.
Da questo punto di vista non è neppure corretto, ripensandoci, quanto ho detto prima: una sorpresa finale sul personaggio non c’è, in effetti, ma di sorpresa finale si può comunque continuare a parlare. Non riguarda più l’identità del personaggio, ma di un ragionamento: quale sarà, cioè, il ragionamento finale che incastrerà il colpevole? La suspence, come si vede, non è stata affatto eliminata.
8) Pensando ai vari episodi della serie televisiva, mi rendo conto che sebbene io veda agire l’assassino non capisco tutto ciò che egli fa. L’ammirazione per Colombo da parte mia è dovuta alla sua capacità di comprendere ciò che ha fatto l’omicida, nonostante che egli, a differenza di me, non l’ha visto agire. E di spiegare le cose a me, a me che pure ho visto, ma non ho capito.
Capita spesso che non basta vedere agire una persona per comprendere cosa stia facendo, è vero: a maggior ragione, però, è difficile capire cosa stia facendo, o cosa abbia fatto, se non la si vede o non la si sia vista. Lo sceneggiatore (in realtà gli sceneggiatori) della serie, comunque, cerca sempre di rendere difficoltosa la comprensione dei gesti iniziali dell’assassino perché certo non è conveniente che noi capiamo le cose prima che le risolva Colombo.
È indubbio che Colombo come investigatore sia molto più in gamba di me: questo è il risultato a cui si vuole arrivare, e questa è in effetti la sensazione che tutti noi proviamo vedendo le puntate del telefilm. Ma il rischio che tale constatazione susciti la nostra antipatia è eliminato dal fatto che egli è estremamente modesto, impacciato, simpatico. Non è un intellettuale: egli si avvale solo della logica.
Ma, a parte questo, ho deciso di togliere la prima parte, quella cioè dove appunto osservo l’assassino mentre agisce. In tal modo, però, i ragionamenti del mio investigatore risveglieranno un’impressione inferiore rispetto ai ragionamenti sviluppati da Colombo proprio perché elimino il contrasto di cui parlavo prima: il contrasto, cioè, tra la capacità di Colombo, che pur non avendo visto alla fine capisce, e la mia (la mia di telespettatore).
Ma tale è il prezzo da pagare per non rivelare il mio modello.
9) Così, anche i ragionamenti del mio investigatore dovevano essere particolarmente efficaci, come quelli dei suoi avversari.
10) E poiché per valutare un ragionamento, come qualsiasi altra cosa nella narrativa, devo partire dall’effetto, escludo tutti quei ragionamenti magari intelligenti e complessi che però per la loro difficoltà non ne avrebbero uno buono. In questo caso io, nel mio piccolo, come Poe parto dalla fine: egli è partito dalla fine della poesia, io di volta in volta dovrò partire dalla fine del ragionamento, cioè dal suo effetto, per decidere quale scegliere di due o tre che mi vengono ad un certo punto in mente.
Più in generale.
Incomincio a pensare all’effetto. Ma non nel senso di Poe che ve ne sono innumerevoli di cui lo spirito è suscettibile e il problema è di capire quale debba scegliere in una certa circostanza, bensì nel senso che, per quanto riguarda la costruzione della trama poliziesca, misuro la bontà di un passaggio con un metro psicologico e non logico. Se, ad esempio, mi trovo a dover scegliere tra due passaggi che a me paiono egualmente logici, scelgo di sicuro quello che mi pare maggiormente verosimile, o quello che mi ispira di più per il proseguo del racconto. Infatti ognuno di noi è stuzzicato da un particolare tipo di logica piuttosto che da un'altra, ma questo non ha nulla a che vedere con la bontà delle rispettive logiche. Spesso ho notato che ne esistono alcune preferite ad altre non per la loro forza intrinseca – che anzi, a ben guardare, non ne hanno molta – ma per la capacità che posseggono di affascinare il lettore, e di convincerlo della propria validità. Che tale validità, però, sia discutibilissima è suggerito dagli esperti, i quali giurano su tutti i santi che la logica dei delitti reali è molto lontana da quella descritta in parecchi buoni racconti polizieschi. Lo scrittore però sa che il lettore è portato a proiettare in un mondo immaginario gli eventi descritti, in un mondo che è simile a quello reale solo nell’aspetto esteriore, nella forma, ma completamente diverso nella sostanza. Le leggi che regnano in tale mondo non sono quelle reali neanche nel caso di quelle semplici della fisica, per cui noi possiamo addirittura violare quest’ultima senza pregiudicare alcunché, se tale violazione è stata fatta rispettando le leggi psicologiche che sono dentro di noi, e che reggono tale mondo immaginario. È come se, trattandosi di un mondo immaginario, ossia di un mondo inventato dalla nostra mente, di un mondo dentro di noi, noi ci potessimo prendere tutte le libertà nei confronti di quello esterno, di cui però non ci possiamo completamente sbarazzare per i limiti della nostra mente di ricreare un mondo immaginario da zero, e una simile odiosa difficoltà rappresenterebbe appunto la ragione del volerci noi prendere tante libertà nei suoi confronti.


Ma parliamo di nuovo della logica da me preferita. Essa si sviluppa nella discussione.
Se l’osservazione di un indagato sembra poco convincente potremmo pensare (noi che scriviamo) di non permettere all’investigatore di prendersi alcun merito particolare allorché la critica con efficacia, e di rinunciare così a creare nel lettore l’ammirazione che è una condizione necessaria perché il protagonista di un giallo abbia successo. Ma poiché sono io a scriverlo, il giallo, sono avvantaggiato sul lettore che appunto lo può solo leggere (e nulla sa dell’opinione dell’autore circa tale osservazione), ed essendo ben disposto nei confronti di un libro che ha preso per distrarsi, considererà addirittura necessaria la seconda considerazione (quella dell’investigatore). Con questo avremo momentaneamente conquistato la sua stima per il protagonista.
Ciò che si considera necessario, in realtà, non lo è su un piano assoluto: infatti di lì il racconto avrebbe potuto prendere un’altra direzione, e l’osservazione rivelarsi a posteriori un errore, magari l’unico, dell’investigatore, magari quello attorno a cui ruota tutto l’ingranaggio del giallo.
Non c’è dubbio che l’osservazione appare necessaria in prospettiva, alla luce di ciò che deve ancora venire: infatti l’investigatore è destinato a vincere, e chi vince ha sempre ragione. Per tale motivo le sue considerazioni sono “per definizione” quelle giuste, e anche quando noi ne avanziamo un’altra altrettanto convincente ma contrapposta ad essa, e lo facciamo per bocca di un personaggio diverso, essa viene messa da parte a favore di quella proposta dall’eroe, osservazione che ha il potere di farci sentire particolarmente stupidi se essa è completamente diversa da quella che avevamo immaginato.
Ma, a ben guardare, si tratta di un circolo vizioso in quanto l’osservazione appare ottima perché è destinata al successo – il successo dell’investigatore (= risoluzione del caso) – ma si tratta di un successo fondato su cause psicologiche, non logiche, sul fatto cioè che un successo sia già stato preparato e che quindi le considerazioni che portano a esso appaiono più logiche e necessarie di quanto non siano in realtà, e poco importa se la componente logica sia meno forte di quanto quella psicologica riesca a far credere. Poco importa cioè se quella che si suppone addirittura la necessità logica dell'osservazione non sia dovuta a ragioni logiche, bensì psicologiche: quello che conta è che tale osservazione appaia la più logica al lettore. Detto questo, è evidente che di logica per i ragionamenti scelti arbitrariamente da noi si debba comunque parlare, ma si tratta di ragionamenti che non devono avere alcun merito particolare se non quello di soddisfare le aspettative del lettore. E poiché le aspettative del lettore non sono mediamente molto alte noi non dobbiamo dare più di quanto non venga richiesto: a parte in qualche caso, che con un po’ di fortuna possiamo ottenere a soddisfazione di un pubblico più esigente (= critica).
Il mio primo pensiero è quello di trovare un modo per rendere accattivante la logica che sento di poter esprimere in un poliziesco, e suppongo che potrei renderla tale appunto nella discussione, facendo competere continuamente tra loro i protagonisti. Ovviamente a prevalere, per la ragione suddetta, deve essere l’investigatore, e anche quando non sembra del tutto convincente, né convinto lui stesso di ciò che dice, non permetto che l’altro lo superi contrapponendo un ragionamento migliore del suo (cosa vi ricorda ciò? Vedi Poe e climax, le stanze precedenti non devono essere migliore dell’ultima).


Il secondo motivo della mia scelta del dialogo come mezzo per esprimere la logica, oltre al fatto che nella competizione tra avversari coinvolgo maggiormente il lettore, è appunto la familiarità dello strumento, il dialogo appunto: anche se potrei dire pure il contrario, ossia che non è vero tanto che metto a disposizione della logica il dialogo, ma che appunto perché io ho familiarità con esso, e con il tipo di logica che lì vi si esprime, e che io stesso solitamente vi esprimo, sono costretto a sceglierlo come mezzo per creare il mio poliziesco.
Quindi, per ricapitolare, io ho sempre saputo quale logica è alla mia portata per creare un poliziesco, che non è tanto quella che si esprime sulla lunga distanza nell’intreccio, bensì quella espressa nei discorsi diretti dai protagonisti, quella espressa da me stesso più o meno quotidianamente nel dialogo con le persone, e mi sembra valido per il giallo ciò che Poe ha detto in sostanza per un altro genere, ossia che esso altro non è che una successione di “scoperte” più modeste, e cioè le osservazioni efficaci dell’investigatore, prima della scoperta finale.
È evidente che tale scoperta finale deve essere la più importante, essendo quella definitiva; e per fare più impressione deve arrivare da più lontano. Per un simile motivo almeno una scoperta dell’investigatore non deve stuzzicare (solo) le esigenze psicologiche del lettore (abbiamo detto che egli deve dirsi spesso “sì, è così”), ma deve impressionarlo su un piano più profondo, deve essere veramente efficace sul piano logico.
È perciò chiaro che se uno manca della capacità di riuscire in questo non potrà mai aspirare a diventare un buon autore di gialli – almeno del tipo da me descritto, che pur essendo per lo più semplice da comporre richiede però un’intuizione logica che compensi tanta facilità, come non avviene in lavori dove sin dall’inizio la logica espressa è ragionevolmente solida, essendo maggiormente collegata con l’intreccio -.
Messa in calce la scelta della logica da adottare, nel mio caso quella che si sviluppa nel dialogo tra i protagonisti, senza mai perdere di vista la necessità di un’intuizione più profonda che lì per lì so di non poter avere, mi domando quale stile adottare per il mio poliziesco.
Anche la sua scelta non è dovuta al caso: trattandosi, nelle intenzioni, di un giallo molto logico, ho bisogno di uno stile che non esalti l'azione, ma appunto la riflessione. Scartato per forza di cose il facile behaviourismo letterario, adotto uno stile che frena l’azione ma non al punto da ostacolarla – si tratta pur sempre di un poliziesco – e quindi decido di adottare uno stile dalle frasi ampie senza però risultare barocco.
Una volta scelto il tipo di logica, desidero far fare al mio investigatore bella figura mettendogli in bocca le osservazioni migliori. Esse non devono essere complesse ma facili da capire per il lettore, in conformità con la semplice logica da me adottata.
Chiarito ciò penso che sia importante dare profondità ai miei personaggi. Infatti capisco che se non lo facessi essi sembrerebbero dei semplici strumenti a fiato per i miei ragionamenti, senza alcuna carica di umanità. La scelta dell’uso della prima persona, che crea in genere il senso di intimità, ha proprio questo scopo, quello di farci sentire più vicini all’investigatore, la voce narrante. Così il risultato principale è stato raggiunto perché è indubbio che lo scopo primario di tale umanizzazione sia il protagonista.
Ora il problema è di conferire umanità agli altri personaggi. Ovviamente non posso far fare loro lunghi discorsi volti a delineare aspetti importanti del proprio carattere, ma intuisco subito che non è necessario, perché la vitalità ad un personaggio viene data nel dialogo non da un particolare tipo di contenuti, ma dalla espressione da parte sua di frasi sensate ed argomentate con lucidità, la qual cosa non può non avvenire in un poliziesco. La vitalità deriva semplicemente dalla sensatezza e dal rigore (il personaggio è come una macchina: se essa dà risposte meccaniche e prevedibili nulla di strano, non è un uomo reale – però, al contrario della macchina, il suo scopo è quello di sembrarlo, la macchina ha invece altri scopi -, non riuscendovi ci delude e non leggiamo più la sua storia. Se sembra “intelligente”, invece, ci piacerà). Penso che questo non significhi dare profondità alla loro personalità: un conto infatti è rendere vivo un personaggio, un conto è esprimere il suo io profondo. Ma in un poliziesco non è assolutamente il caso di rendere i personaggi più complessi di quanto non venga richiesto dal genere letterario, che privilegia il ragionamento e l’azione rispetto all’annotazione psicologica.
Nonostante ciò, desidero aggiungere qua e là una nota psicologica legata ai protagonisti. Poiché nel dialogo non posso, preso come sono a esprimere il ragionamento, e nell’azione nemmeno, trattandosi di un giallo piuttosto statico, penso di riuscirvi nel gesto quotidiano.
Ad esempio, dopo aver fatto parlare la seconda indiziata potrei scrivere:
“(…) E concluse con una nota di soddisfazione nella voce. Che fosse soddisfatta era chiaro anche dal modo in cui, dopo aver parlato, accavallò le gambe”.

Il saluto di Umberto Eco
Note
1. Nel senso che un confronto non si potrebbe concludere che a mio sfavore, all’inizio è sempre meglio fare professione di umiltà.
2. Infatti soltanto quando si conosce sin dall’inizio con certezza il colpevole si pongono le basi per un confronto serio - una guerra appunto - con l’investigatore, la cui posta in gioco è la difesa della giustizia.


Privacy Policy