UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

martedì 31 gennaio 2017

Milano. Elio Veltri a ChiAmaMilano


Non la Nato, ma la sinistra è «obsoleta»
di Manlio Dinucci



Autorevoli voci della sinistra europea si sono unite alla protesta anti-Trump «No Ban No Wall», in corso negli Stati uniti, dimenticando il muro franco-britannico di Calais in funzione anti-migranti, tacendo sul fatto che all’origine dell’esodo di rifugiati ci sono le guerre a cui hanno partecipato i paesi europei della Nato.
Si ignora il fatto che negli Usa il bando blocca l’ingresso di persone provenienti da quei paesi – Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan, Yemen, Iran – contro cui gli Stati uniti hanno condotto per oltre 25 anni guerre aperte e coperte: persone alle quali sono stati finora concessi i visti d’ingresso fondamentalmente non per ragioni umanitarie, ma per formare negli Stati uniti comunità di immigrati (sul modello di quella dei fuoriusciti cubani anti-castristi) funzionali alle strategie Usa di destabilizzazione nei loro paesi di origine. I primi ad essere bloccati e a intentare una class action contro il bando sono un contractor e un interprete iracheni, che hanno collaborato a lungo con gli occupanti statunitensi del proprio paese.
Mentre l’attenzione politico-mediatica europea si focalizza su ciò che avviene oltreatlantico, si perde di vista ciò che avviene in Europa.
Il quadro è desolante. Il presidente Hollande, vedendo la Francia scavalcata dalla Gran Bretagna che riacquista il ruolo di più stretto alleato degli Usa, si scandalizza per l’appoggio di Trump alla Brexit chiedendo che l’Unione europea (ignorata dalla stessa Francia nella sua politica estera) faccia sentire la sua voce. Voce di fatto inesistente quella di una Unione europea di cui 22 dei 28 membri fanno parte della Nato, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva», sotto la guida del Comandante supremo alleato in Europa nominato dal presidente degli Stati uniti (quindi ora da Donald Trump).
La cancelliera Angela Merkel, mentre esprime il suo «rincrescimento» per la politica della Casa Bianca verso i rifugiati, nel colloquio telefonico con Trump lo invita al G-20 che si tiene in luglio ad Amburgo. «Il presidente e la cancelliera – informa la Casa Bianca – concordano sulla fondamentale importanza della Nato per assicurare la pace e stabilità». La Nato, dunque, non è «obsoleta» come aveva detto Trump. I due governanti  «riconoscono che la nostra comune difesa richiede appropriati investimenti militari».
Più esplicita la premier britannica Theresa May che, ricevuta da Trump, si impegna a «incoraggiare i leader europei miei colleghi ad attuare l’impegno di spendere il 2% del Pil per la difesa, così che il carico sia più equamente ripartito».
Secondo i dati ufficiali del 2016, solo cinque paesi Nato hanno un livello di spesa per la «difesa» pari o superiore al 2% del Pil: Stati uniti (3,6%), Grecia, Gran Bretagna, Estonia, Polonia. L’Italia spende per la «difesa», secondo la Nato, l’1,1% del Pil, ma sta facendo progressi: nel 2016 ha aumentato la spesa di oltre il 10% rispetto al 2015.
Secondo i dati ufficiali della Nato relativi al 2016, la spesa italiana per la «difesa» ammonta a 55 milioni di euro al giorno. La spesa militare effettiva è in realtà molto più alta, dato che il bilancio della «difesa» non comprende il costo delle missioni militari all’estero, né quello di importanti armamenti, tipo le navi da guerra finanziate con miliardi di euro dalla Legge di stabilità e dal Mini­stero dello sviluppo economico.
L’Italia si è comunque impegnata a portare la spesa per la «difesa» al 2% del Pil, ossia a circa 100 milioni di euro al giorno.
 Di questo non si occupa la sinistra istituzionale, mentre aspetta che Trump, in un momento libero, telefoni anche a Gentiloni.


    
USA. 4 milioni contro Trump
 di Emma Ruby-Sachs  
D. Trump


Già più di 3 milioni di persone hanno sottoscritto questa lettera aperta a Trump e tra queste anche tu! Dopo l’annuncio del “bando anti-musulmani” è ora di rendere questa lettera un simbolo mondiale di resistenza. Condividila ovunque, arriviamo a 4 milioni!
Copia/condividi il link su Twitter, WhatsApp, Facebook, ovunque: https://secure.avaaz.org/campaign/it/president_trump_letter_loc/?cbhvKTcb

Cari avaaziani,
Con il bando anti-musulmani, Trump sta dimostrando che le peggiori paure su di lui erano fondate.
Ed è solo l’inizio. Sta minacciando di fare a pezzi i trattati internazionali e di lanciare una corsa agli armamenti nucleari. Non ci volevi credere prima? Credici ora.
E la stessa cosa sta succedendo in tutti i nostri paesi. Dobbiamo costruire un movimento globale per fermare questa deriva. Già più di 3 milioni hanno firmato la lettera aperta qui sotto, dal mondo a Trump, facendola finire sui media internazionali. Oggi diventa un simbolo di resistenza. Aiutaci a renderla ancora più potente, inoltrala a tutti.

Caro sig. Trump,
Quello che sta facendo non ha nulla di “grande”.
Noi, da tutto il mondo, rifiutiamo la paura, l’odio, l’intolleranza e il fanatismo delle sue parole.
Rifiutiamo il suo sostegno alla tortura, i suoi appelli all’assassinio di civili, il suo continuo richiamo generico alla violenza. Rifiutiamo le offese a donne, musulmani, messicani, in pratica a tutti i miliardi di persone che non sono come lei, non parlano come lei, non pregano come lei. Di fronte alle sue paure, noi scegliamo l’ascolto. Lei fa perdere la speranza nel mondo, noi la coltiviamo. Vedendo la sua ignoranza scegliamo la voglia di capire.
Come cittadini di tutto il mondo, noi siamo uniti contro la sua propaganda di odio e divisione.
Mentre i cittadini americani stanno riempiendo strade e aeroporti in segno di protesta, noi possiamo dimostrare che l’intero pianeta è con loro. Non lasciamo che Trump ci divida, rendiamolo invece una forza che ci unisca ancora di più, per difendere tutto ciò che amiamo. Firmate l’appello in Rete.
Con speranza,
Emma, Alice, Christoph e tutto il team di Avaaz
VERGOGNE ITALIANE
di Michele Michelino


Morti per esposizione all’amianto alla Franco Tosi di Legnano. Tutti assolti anche in appello gli ex manager. Le parti civili costrette a pagare le spese processuali
Il 24 gennaio 2017 ancora una volta un’ingiustizia si è compiuta. Al danno dei morti si è aggiunta la beffa. La Quinta Sezione penale della Corte d’Appello del Tribunale di Milano ha assolto i manager della Franco Tosi di Legnano dall’accusa di omicidio colposo per la morte di 34 operai causata l’esposizione all’amianto, perché non hanno  "Nessuna responsabilità per la morte degli ex operai" .
I 33 ex lavoratori morti per mesotelioma pleurico e uno per carcinoma dei polmoni non avranno nessuna giustizia. Nell’aprile 2015 il giudice della quinta sezione penale del Tribunale di Milano Manuela Cannavale aveva scagionato gli otto imputati, con le formule "perché il fatto non sussiste" o "per non aver commesso il fatto". Per il tribunale i lavoratori, che secondo l'accusa, si erano ammalati di mesotelioma pleurico per aver lavorato negli anni '70 e '80 alla franco Tosi avrebbero si respirato polveri di amianto, ma per il giudice, come aveva scritto nelle motivazioni, questa "tragedia non può e non deve essere risolta sul piano penalistico".
Ora questa interpretazione è confermata dalla V sezione della Corte d’Appello che addirittura va oltre. Per e per la prima volta vengono ”punite” in modo esemplare le associazioni che hanno sostenuto l’accusa, rimaste nel processo, Medicina Democratica e l’Associazione Italiana Esposti Amianto condannati pure a pagare le spese processuali.
Ormai la decisione politica del tribunale di Milano è un segnale chiaro: questi processi non si devono più fare. Le associazioni che insistono per ottenere giustizia per le morti operaie devono seguire altre strade (solo cause civili) o saranno punite al pagamento delle spese processuali. Il nostro Comitato parte civile in vari processi al fianco di Medicina Democratica e AIEA esprime la sua solidarietà militante alle vittime e alle associazioni colpite perché la loro lotta per ottenere giustizia per le vittime dell’amianto è anche la nostra e non ci faremo intimorire da queste decisioni antioperaie.
Comitato per la Difesa della Salute
nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio
e-mail: cip.mi@tiscali.it                      
web:   http://comitatodifesasalutessg.jimdo.com
Milano. I seminari di Apice


Lucca per la Shoah




RACCONTO
Visto il contenuto abbiamo deciso di pubblicare in prima pagina
questo racconto di Vito Calabrese. 
I disegni illustrativi sono di Adamo Calabrese.

Passaggio a nord.                                                                                                     
Lui faceva il meccanico, sapeva aggiustare le cose rotte mentre lei, nera e selvaggia, sapeva infiammare gli animi e aggiustare i cuori, tranne il suo. Il suo era rotto per lei.




Il fatto è che Zema è sempre stata inquieta. Una volta giunta a Milano, accolta nella Casa della Carità, ha provato a seguire le regole, a fare l’immigrata utile e anche riconoscente, ma è durata poco. L’esperienza devastante dello stupro, subito in terra di Puglia, le aveva acuito la sensibilità. Era la paladina dei giovani immigrati, disorientati, che arrivavano in quel rifugio. Don Roberto la teneva d’occhio e le affidava compiti sempre più impegnativi e stimolanti. Ma a lei non bastava. L’aveva visto una sera di febbraio, una sera piena di pioggia, che entrava sbigottito nella Casa assieme a tre sbandati e chiedeva, più con lo sguardo che con le parole, di essere accolto. Omar dai riccioli neri, africano, scappato dal Sud Sudan, debole e sfatto dalle peripezie del viaggio, l’aveva amata come il sole. Omar aveva imparato a stare con lei, ad amarla come voleva lei, e non era facile. Lui faceva il meccanico, sapeva aggiustare le cose rotte mentre lei, nera e selvaggia, sapeva infiammare gli animi e aggiustare i cuori, tranne il suo. Il suo era rotto per lei. Poi avevano progettato di partire. Volevano andare in Francia, anzi lui voleva andare in UK. Zema era partita per Parigi, coi documenti in regola, e Omar era rimasto a Milano, in attesa. Ilaria, la sua amica di Milano, era insofferente. Mille pensieri le mulinavano nella testa, suscitati dalla telefonata di Zema. Le aveva risposto che ci avrebbe pensato ma non sapeva dove cercare aiuto. Il progetto di far passare Omar in Francia, aggirando i controlli, era troppo complicato. Forse doveva parlarne con Max, il suo amico del liceo. Quel viaggio è per lui, Omar lo sa. Gli amici di Ilaria si sono mobilitati per organizzare la sua partenza con l’intento di farlo passare dall’altra parte del confine. Poi dovrà arrangiarsi, ma saltare il primo ostacolo è fondamentale. Ilaria ha accettato la richiesta di Zema per aprire un passaggio verso nord, verso l’Inghilterra. Max ha messo insieme il gruppetto con Mathias, maggiorenne e autista della Qashqai, nonché suo compagno di squadra nella scuola giovanile dell’Inter. Doveva sembrare una gita per andare a Lanzerheide. Gigi, l’amico del nonno, che batteva da anni la zona, ricca di funghi porcini, l’aveva consigliata. Era il punto giusto per bucare il confine senza troppi problemi. Il passo dello Spluga era una porta aperta attraverso la Svizzera per salire fino a quella meta tanto sognata da Omar. E ce l’avevano fatta. Omar era poi arrivato a Parigi in treno. Zema aveva chiamato Ilaria, felice per essere insieme al suo ragazzo e felice di averla come amica. Lei aveva festeggiato con gli amici che avevano traghettato Omar di là dalla frontiera. Sembrava che tutto fosse filato via liscio, una storia col lieto fine. Dopo aver tentato invano di passare il Canale, i due giovani avevano ripiegato sulla Jungle, l’enorme tendopoli cresciuta disordinatamente a qualche chilometro da Calais. Vi erano parcheggiati forse diecimila migranti. Là c’era tutto il necessario per vivere, ristoranti, negozi, il teatro, la scuola, l’infermeria. Avevano ancora la speranza d’incontrare qualcuno capace di organizzare il passaggio del Canale. Il governo francese aveva promesso per l’ennesima volta di spazzar via le tende e trasferire tutti i migranti in altri centri controllati. E c’era di più. Gl’inglesi avrebbero finanziato la costruzione di un muro, ancora un muro! Proprio lì, al posto della Jungle, per scoraggiare i migranti. Quella sera il popolo della Jungle si era riunito nello spiazzo del teatro per preparare una grande manifestazione. 
Quel mattino di ottobre pioveva e tirava vento. L’alba diffondeva una luce grigia, fredda. Il popolo dei migranti usciva a fiotti dalla Jungle. Alla testa del corteo sfilava un grande striscione con la scritta rossa “NO BORDERS”. 


Davanti a loro, la Police aveva preparato una barriera di militari schierati a file multiple con i loro enormi scudi di plastica. Gli altoparlanti della polizia intimavano ai manifestanti di tornare indietro. I migranti urlavano insulti in tutte le lingue ma su tutti dominava un grido selvaggio: Fuck off! Improvvisamente correva la voce che un reparto militare stesse entrando con le ruspe dall’altra parte della Jungle per spianare la tendopoli sguarnita. Prima lo stupore per essere stati fregati e poi l’ansia di non trovare più nulla, neanche il sacco a pelo, avevano smembrato il corpo della manifestazione. La Police avanzava, lo striscione dei “NO BORDERS era abbandonato a terra, calpestato, mentre le ruspe distruggevano le tende della Jungle. Zema era in testa al corteo e urlava per tenere insieme la prima fila, strattonando i suoi vicini. Le persone si sfilavano, scivolando via dalla stretta impotente delle sue mani. Omar era dietro e voleva risalire per raggiungerla ma stava per essere travolto dall’ondata di riflusso del corteo. Provò a tirarsi da parte, quando una massa enorme, scura, puzzolente di gasolio, lo investì. Un carro blindato della Police avanzava ruggendo, colpito da una bottiglia incendiaria. Un improvviso derapage lo aveva fatto slittare fino ad arenarsi in fiamme sul ciglio della strada, dove Omar era appena stato atterrato dalla folla urlante. L’urto era stato inevitabile. “Merda! Zema, amor mio, non ce la faccio. Ti amo” pensò Omar prima di finire stritolato dalle grosse ruote del carro. La folla dei refugees tornava sui suoi passi assiepandosi attorno al carro in fiamme, ormai abbandonato dai poliziotti. Zema si era messa a correre verso quel fuoco. Sentiva il cuore martellare ferocemente e un pensiero molesto le attraversava la mente. Arrivata alla prima fila, posato lo sguardo su quella figura abbattuta, aveva riconosciuto la sciarpa azzurra. Un urlo le era salito alla gola e con la voce rauca, stritolata dalle lacrime che le riempivano gli occhi e le impedivano di vedere il suo volto, ancora bello, si era gettata sul suo corpo e l’aveva abbracciato, come volesse trattenerlo: “amore, amore mio, no, no, non andartene. Lo baciava e lo accarezzava mentre gli altri si erano fermati e si erano tolti i berretti. Nel silenzio immobile di quella mattina si sentiva solo la pioggia cadere fitta e i singhiozzi di Zema che scuotevano la folla dei refugees più dei colpi della Police. Il carro bruciava sfrigolando, come fosse una lampada votiva. Ilaria attende l’arrivo del treno, sbirciando verso il marciapiede 17 dove è in frenata il convoglio TGV che viene da Parigi. Si sono aperte le portiere e un flusso compatto di gente scende lungo il marciapiede. Ilaria si sbraccia, si fa spintonare e chiama il nome dell’amica. Il cellulare trilla. Zema la sta cercando al piano di sotto. Si sono sfiorate senza vedersi. Ilaria corre giù per le scale col cuore in gola. Eccola, vicino al grande varco dell’entrata, che alza la mano e le fa segno. Ilaria allarga le braccia, buttandosi sulla ragazza nera, che ha fatto un passo d’incontro, e finalmente la stringe in un abbraccio affannato. Ora, Zema sa che non avrebbe mai potuto rinunciare alla lotta per mantenere vivo il sogno di Omar di sfondare i muri e dare ai migranti la possibilità di vivere come cittadini del mondo. Glielo doveva: no borders!

Vito Calabrese

lunedì 30 gennaio 2017

Dietro il Muro bipartisan
di Manlio Dinucci



È il 29 settembre 2006, al Senato degli Stati uniti si vota la legge «Secure Fence Act» presentata dall’amministrazione repubblicana di George W. Bush, che stabilisce la costruzione di 1100 km di «barriere fisiche», fortemente presidiate, al confine col Messico per impedire gli «ingressi illegali» di lavoratori messicani. Dei due senatori democratici dell’Illinois, uno,  Richard Durbin, vota «No»; l’altro invece vota «Sì»: il suo nome è Barack Obama, quello che due anni dopo sarà eletto presidente degli Stati uniti. Tra i 26 democratici che votano «Sì», facendo passare la legge, spicca il nome di Hillary Clinton, senatrice dello stato di New York, che due anni dopo diverrà segretaria di stato dell’amministrazione Obama.
Hillary Clinton, nel 2006, è già esperta della barriera anti-migranti, che ha promosso in veste di first lady. È stato infatti il presidente democratico Bill Clinton a iniziarne la costruzione nel 1994. Nel momento in cui entra in vigore il Nafta, l’Accordo di «libero» commercio nord-americano tra Stati uniti, Canada e Messico. Accordo che apre le porte alla libera circolazione di capitali e capitalisti, ma sbarra l’ingresso di lavoratori messicani negli Stati uniti e in Canada. Il Nafta ha un effetto dirompente in Messico: il suo mercato viene inondato da prodotti agricoli statunitensi e canadesi a basso prezzo (grazie alle sovvenzioni statali), provocando il crollo della produzione agricola con devastanti effetti sociali per la popolazione rurale. Si crea in tal modo un bacino di manodopera a basso prezzo, che viene reclutata nelle maquiladoras: migliaia di stabilimenti industriali lungo la linea di confine in territorio messicano, posseduti o controllati per lo più da società statunitensi che, grazie al regime di esenzione fiscale, vi esportano semilavorati o componenti da assemblare, reimportando negli Usa i prodotti finiti da cui ricavano profitti molto più alti grazie al costo molto più basso della manodopera messicana e ad altre agevolazioni.


Nelle maquiladoras lavorano soprattutto ragazze e giovani donne. I turni sono massacranti, il nocivo altissimo, i salari molto bassi, i diritti sindacali praticamente inesistenti. La diffusa povertà, il traffico di droga, la prostituzione, la dilagante criminalità rendono estremamente degradata la vita in queste zone. Basti ricordare Ciudad Juárez, alla frontiera con il Texas, divenuta tristemente famosa per gli innumerevoli omicidi di giovani donne, per lo più operaie delle maquiladoras.
Questa è la realtà al di là del muro: quello iniziato dal democratico Clinton, proseguito dal repubblicano Bush, rafforzato dal democratico Obama, lo stesso che il repubblicano Trump vuole completare su tutti i 3000 km di confine.
Ciò spiega perché tanti messicani rischiano la vita (sono migliaia i morti) per entrare negli Stati uniti, dove possono guadagnare di più, lavorando al nero a beneficio di altri sfruttatori. Attraversare il confine è come andare in guerra, per sfuggire agli elicotteri e ai droni, alle barriere di filo spinato, alle pattuglie armate (molte formate da veterani delle guerre in Iraq e Afghanistan), che vengono addestrate dai militari con le tecniche usate nei teatri bellici.
Emblematico il fatto che, per costruire alcuni tratti della barriera col Messico, l’amministrazione democratica Clinton usò negli anni Novanta le piattaforme metalliche delle piste da cui erano decollati gli aerei per bombardare l’Iraq nella prima guerra del Golfo, fatta dall’amministrazione repubblicana di George H.W. Bush. Utilizzando i materiali delle guerre successive, si può sicuramente completare la barriera bipartisan.


Livorno. Rete Civica



Milano. Casa delle Donne


Genova per Luzzati
A GENOVA NASCE IL LUZZATI LAB

Una mostra e un nuovo spazio in memoria del maestro
Emanuele Luzzati (1921-2007)

Scenografia de "Il Nistero dei tarocchi" (part.) "Il Castello di carte"
foto: Donato Aquaro

Dieci anni fa moriva Emanuele Luzzati, scenografo, illustratore, animatore, eclettica e geniale figura di spicco della scena artistica e culturale nazionale e uno dei padri del Teatro della Tosse di Genova. Per ricordare il suo originale, importante e intenso lavoro (nel corso della sua carriera ha realizzato più di cinquecento scenografie per prosa, lirica e danza nei principali teatri italiani e stranieri), il 26 gennaio ha inaugurato il Luzzati Lab, pensato e voluto da Emanuele Conte, regista e presidente della Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse. Un nuovo spazio che avrà sede nel capannone ex industriale in Vico Amandorla, nel cuore di Genova. Un centro polifunzionale dedicato al maestro, che è al contempo sala espositiva, laboratorio di idee, centro di formazione per nuovi talenti e di aggregazione per bambini e ragazzi. Lo spazio inaugura con la mostra A quattro mani – I costumi teatrali di Emanuele Luzzati interpretati e realizzati da Bruno Cereseto, a cura dello stesso Emanuele Conte. La mostra ripercorre trent’anni di spettacoli attraverso bozzetti, foto di scena e costumi disegnati da Emanuele Luzzati e realizzati in un percorso a quattro mani da Bruno Cereseto, attore, costumista, scenografo e regista recentemente scomparso, anch’egli anima e cuore pulsante del Teatro della Tosse.
Ingresso libero, fino al 5 febbraio 2017, presso Luzzati Lab (Vico Amandorla 3 cancello, Genova).
Da martedì a sabato 16.30-19.30, domenica 14.00-19.00; lunedì chiuso.
Per info: tel. 0102487011, ufficiostampa@teatrodellatosse.it
[Chiara Pasetti]

venerdì 27 gennaio 2017

PIAZZETTA LIBERTY
di Jacopo Gardella

Questo intervento dell’architetto e urbanista Gardella denuncia tutta la disinvolta ignoranza di un ceto amministrativo che, non confrontandosi mai con i suoi cittadini, in fatto di uso dello spazio pubblico e del suo patrimonio, lascia che ogni sorta di soluzione sia possibile, anche la più urbanisticamente spregiudicata e culturalmente aberrante. Da anni da questo giornale pratichiamo una vigorosa opera di resistenza, ma vorremmo sapere cosa fa l’opposizione a Palazzo Marino, che razza di dignità hanno i consiglieri che vi siedono e se non sentano un minimo di vergogna gli assessori, molti dei quali sono persone mediamente colti e avvertiti. “Odissea” e la città di Milano si aspettano da tutti loro un sussulto di dignità, oppure che se ne vadano a casa, visto che non sono capaci di svolgere il loro ruolo di custodi del bene pubblico a cui sono chiamati.



La Piazzetta come si presenta oggi, guardando verso est:
sullo sfondo l'alto edificio in vetro con pilastri abbinati;
a sinistra la facciata ricomposta del Palazzo Liberty

Le piazzette all'interno del Centro Storico della nostra città non sono molte; quelle poche vanno protette e difese anche se le architetture che le circondano, soprattutto quando sono moderne, sono tutt'altro che eccellenti. È il caso della Piazzetta Liberty; così chiamata per la facciata di un autorevole edificio costruito in stile Liberty ed affacciato sulla piazzetta di cui occupa buona parte del lato nord-est. Lungo quel lato la facciata Liberty è stata ricomposta con scarso scrupolo filologico, dopo la demolizione del poco lontano edificio originario a cui essa apparteneva.
Oltre alla facciata parzialmente ricomposta fa capolino sulla Piazzetta il lato posteriore del neoclassico Palazzo Tarsis; e poco più lontano un edificio per uffici progettato dall'architetto Gio Ponti. Il lato est della Piazzetta è chiuso da un buon esempio di International Style: un edificio a torre progettato dagli architetti Soncini e scandito da slanciate nervature verticali.
La Piazzetta si presenta come un insieme di edifici non di qualità eccelsa ma di aspetto decoroso e gradevole. Collocata in posizione centralissima essa è diventata un punto di sosta, di ritrovo, di incontro, favorito dalla presenza di un bar-pizzeria, che nei mesi estivi colloca i suoi tavolini all'aperto; ed è resa più vivace dalla folla pomeridiana e serale attratta dal Cinema Apollo in cui si proiettano pellicole sempre di qualità.

La Piazzetta come si presenterà a progetto ultimato, guardando verso est: 
le pareti del cubo di cristallo, che recingono la scalinata in discesa, 
fungono da parapetto. 
Nel fotomontaggio viene usato un trucco 
per presentare il volume di cristallo
 meno ingombrante di quanto in realtà si prevede che debba diventare. 

La prossima chiusura del Cinema Apollo preannuncia una imminente sciagura a danno della Piazzetta. Le sale di proiezione che occupano il sottosuolo della Piazzetta verranno infatti trasformate in sale di esposizione e di vendita dei molti e vari prodotti firmati dalla ditta Apple. Per attirare il pubblico dei compratori ed invitarli a scendere nei locali sotterranei si è avuta la inaudita idea di aprire una voragine nel centro della Piazzetta e di riempire la cavità con una grandiosa scalinata in diretta discesa ai negozi interrati. Il parapetto della scalinata sarà formato da un’alta parete di lastre in cristallo lambite da cascate di acqua corrente e potentemente illuminate da violenti riflettori colorati. Siamo di fronte ad un esempio del più dozzinale gusto hollywoodiano; ad un plateale spettacolo da Luna Park; ad una scenografia adatta a soddisfare il pubblico di facili gusti che frequenta le sale da gioco di Las Vegas. Quale collegamento con tale mondo grossolano possono mai avere le sobrie e discrete architetture della Piazzetta? Quale relazione con le abitudini serie e laboriose dei cittadini milanesi?

La Piazzetta come si presenta oggi, guardando verso ovest: 
sullo sfondo a sinistra il palazzo Tarsis in stile neoclassico;
 e più arretrati gli uffici dell'arch. Gio Ponti; 
a destra la facciata ricomposta del Palazzo Liberty. 

Il devastante intervento progettato per la piazzetta non consiste soltanto in un danno architettonico ma si traduce anche in una offesa civica, in un insulto ai diritti dei cittadini. È mai plausibile e tollerabile che lo spazio civico della Piazzetta, frequentato quotidianamente da chi attraversa o sosta nel centro città, venga sottratto all'uso ormai consolidato dei cittadini ed al legittimo godimento degli abitanti milanesi? È mai ammissibile acconsentire che un bene di proprietà pubblica venga ceduto ad esclusivo vantaggio di un operatore privato? Gli oneri di urbanizzazione richiesti alla ditta Apple, gestore del nuovo emporio, non giustificano il guasto ingente inferto alla Piazzetta. Tanto più che il ricavato degli oneri non si sa come verrà speso, in quale modo, per quali scopi. Nella Amministrazione Comunale è ormai invalsa l'abitudine di cedere in affitto ad imprenditori privati pezzi strategici di suolo urbano: brutto indice della progressiva decadenza dimostrata dalla nostra classe politica, pessimo indizio di un continuo insulto a danno dei cittadini.

La Piazzetta come si presenterà a progetto ultimato, 
guardando verso ovest:
 il cubo di cristallo lambito da un velo d'acque  
nasconde quasi completamente il neoclassico 
Palazzo Tarsis e gli uffici dell'arch. Gio Ponti. 

Alcuni anni fa si è verificato, poco lontano dalla Piazzetta Liberty, un analogo ed altrettanto grave episodio: la discutibile cessione di un ampio e frequentato suolo municipale ad uso esclusivo di gestori privati. Il pubblico passaggio a cielo aperto che unisce Corso Vittorio Emanuele alla retrostante Piazzetta di San Vito in Pasquirolo è stato chiuso da pareti a tutta altezza, ceduto ad un magazzino di vendita, sottratto all'uso e al godimento dei milanesi. La bella scala a due rampe incrociate ben visibile nel centro del passaggio è stata inglobata nel magazzino, soffocata da scaffali, nascosta ai passanti in transito lungo il Corso. Un vero peccato perché l’ elegante scala è dovuta al progetto di un noto studio milanese di architettura.
Al di là dei guasti estetici inferti al luogo ed oltre alle offese civiche subite dai cittadini esistono anche ragioni di competenza, di storia, di cultura urbanistica che condannano l’operazione di Piazzetta Liberty e la fanno apparire insensata.

La Piazzetta come si presenterà a progetto ultimato, 
guardando verso ovest: 
il montaggio fotografico mostra il reale ingombro
 delle lastre di cristallo che come si vede è molto maggiore
 di quello indicato nella FOTO 4.

Si sa che nella tradizione urbanistica la Piazza urbana, da sempre, è un luogo di ritrovo, un punto di raccolta, uno spazio di incontro e di comunicazione. Chi frequenta la piazza deve poterla percorrere liberamente in tutti i sensi; trasferirsi da un lato al lato opposto; andare da un angolo all'angolo di fronte, muoversi liberamente in qualsiasi direzione. Quando viene creato un ostacolo nel centro della Piazza inevitabilmente se ne limita il libero uso, se ne impedisce il pieno godimento. Quando poi l'ostacolo consiste in un ampio cratere scavato nella zona centrale è inevitabile che l'utilità e la funzione della Piazza vengano interamente vanificate.
Che cosa rimarrà della piccola e raccolta Piazzetta Liberty una volta che sia stata aperta la larga scalinata di discesa ai negozi sotterranei? Rimarrà soltanto una sottile striscia perimetrale, un angusto percorso pedonale, uno stretto e poco agevole anello compresso fra le case da un lato ed il parapetto della scalinata dall'altro. Ai bar-pizzerie verrà tolto lo spazio per disporre sedie e tavolini; ai pedoni verrà impedita la possibilità di camminare in gruppi numerosi; ai passanti sarà imposto di muoversi l'uno dietro l'altro allineati disciplinatamente in fila. Quella che era una Piazzetta gradevole ed accogliente, comoda e raccolta, verrà trasformata in un periplo angusto e disagevole, in un camminamento stretto e soffocato.

  La Piazzetta come si presenterà a progetto ultimato, guardando verso est: 
sul lastricato della Piazza è segnato il perimetro della voragine 
occupata dallo scalone di discesa ai negozi;
 ed è indicato, al posto delle altissime lastre in cristallo, 
il profilo di un falso parapetto in ferro. 
L'ingombro dello scalone, così come è indicato sul lastricato,
 è rappresentato di dimensioni molto più piccole 
di quelle che saranno le reali. 

Lo stesso errore è stato commesso in un altro luogo milanese nato per favorire incontri e ritrovi: la Piazzetta intitolata a Gae Aulenti posta di fronte alla Stazione di Porta Garibaldi. Anche qui il centro della Piazzetta è occupato dall'ingombrante ed invadente ostacolo creato da un ampio specchio d'acqua. Ogni movimento trasversale vi resta ostacolato; ogni attraversamento radiale completamente impedito. La residua zona calpestabile della Piazzetta è ridotta ad uno stretto anello perimetrale, chiuso fra le vertiginose pareti in cristallo dei grattacieli circostanti ed il perimetro della grande ed ingombrante distesa liquida. Non vi può essere sistemazione urbana più inadatta alla funzione civica di raccolta, di assembramento, di riunione come è comprensibile che venga richiesta dalle molte persone desiderose di incontrarsi e di comunicare.
Queste sono le malinconiche conclusioni che si è costretti a trarre esaminando i recenti progetti attuati nella nostra città.
LETTERA APERTA AL SINDACO DI MILANO
sull’inopportunità di dedicare una via a Bettino Craxi

Il sindaco Giuseppe Sala

Gentile signor Sindaco,
sette anni fa ebbi occasione di scrivere una lettera aperta al Sindaco di allora, la signora Moratti, che aveva avanzato per la prima volta l’ipotesi di arricchire la toponomastica cittadina con il nome di Bettino Craxi. Oggi apprendo dai giornali che quell’idea ha ripreso vita. Nel frattempo l’espressione della mia contrarietà di allora ha cambiato destinatario. Quello di adesso è Lei e, sostenuto dalla Sua maggioranza, agirà come meglio crede. In ogni caso, quale che sia la Sua decisione, La prego, nell’assumerla, di tener conto di questi modesti argomenti.
Per sgomberare il campo da ogni equivoco Le dirò, signor Sindaco, che nonostante il mio dissenso politico da lui, sono riconoscente a Craxi per un gesto che ha gratificato la mia identità, il mio orgoglio di italiano, ahimè troppo spesso feriti allora come oggi: intendo riferirmi all’episodio di Sigonella, nel quale l’allora Presidente del Consiglio mostrò dignità e levatura di vero statista. L’ho profondamente ammirato, in quell’occasione. Non è dunque frutto di acredine la mia contrarietà all’eventuale progetto che ricordavo. È d’ispirazione civile.
È infatti civile, prima ancora che politico, il disagio per lo stato miserevole in cui versa l’idea di legalità nel nostro paese. Ebbene, le parole con cui Craxi intervenne in Parlamento a proposito dei reati per i quali fu poi condannato furono: «Se io sono colpevole, in quest’aula nessuno è innocente, e alzi la mano colui che non si è reso responsabile dei miei stessi atti o che non sia consapevole che qualcun altro lo è».
Vi è, in quell’intervento, una singolare deformazione di un concetto nobile del diritto: che la legge debba essere uguale per tutti. La lettura fatta allora di quel concetto, e condivisa dalle mani che non si alzarono, fu invece che la legge debba essere uguale per tutti coloro che siedono in quell’aula, accomunati dal diritto di sottrarsi alla legge, non dal dovere di sottoporvisi.
Oggi, al di là forse dei limiti previsti dall’esposizione craxiana, quel diritto si è esteso a un vasto alone parapolitico di furbi maneggioni, cinici speculatori, sfacciati profittatori e camaleontici faccendieri che circonda il mondo politico propriamente tale e che infesta la vita pubblica del nostro paese, uno tra i più corrotti al mondo. Che sottrae risorse enormi a importanti scopi civili e sociali per deviarle verso tasche improprie. Che rende di paglia la coda di chi si appresta a richiedere, in sede europea, deroghe ad accordi finanziari che non sarebbero necessarie senza quella sottrazione.
C’è però qualcos’altro che riguarda quella teoria e sul quale vorrei richiamare la Sua attenzione. Se un comportamento politico tanto diffuso da essere praticamente universale avesse il diritto di sottrarsi alla valutazione morale renderebbe, se non proprio leciti,  quanto meno accettabili comportamenti illegali qualora fossero orientati al vantaggio di una formazione politica. A questo si riferiva quel discorso parlamentare: a cos’altro, se no? Un’attenuante, dunque, rispetto a una corruzione volta solo al tornaconto personale. Ma se ci riflettiamo un momento, signor Sindaco, dovremo convenire che essi costituiscono piuttosto un’aggravante. La maggior disponibilità finanziaria di un partito, oppure l’aiuto ottenuto elargendo favori a persone o forze potenti, o ancora profitti d’altra natura di cui possa lucrare, ne aumentano infatti le possibilità di procurarsi consenso. Con mezzi diversi dalla forza delle idee e della prassi. Una specie di concorrenza sleale, cioè. Ne consegue che se infrangere la legge per il proprio vantaggio produce soltanto una vittima, il danneggiato, infrangerla per un partito ne produce due: il danneggiato e la democrazia. Alle altre forze politiche, per difendersi da questa slealtà, non resta che fare altrettanto. Tutto questo, beninteso, senza pregiudizio di benefici anche personali.

Bettino Craxi

Ecco allora, signor Sindaco, le ragioni della mia contrarietà all’ipotesi in questione. Non per gli atti eventualmente compiuti da Bettino Craxi, dei quali non ho conoscenza e che lascio là dove sono: nei documenti giudiziari. Ma per la devastante idea che se tutti sono colpevoli, allora nessuno lo è. Davanti alle spoglie dell’uomo, mi inchino sinceramente rispettoso. Esse, tuttavia, sono già onorate dal ricordo affettuoso e dal compianto di chi lo ha amato in vita: una strada cittadina intitolata al suo nome, invece, rischierebbe di celebrare, accanto ad altre cose certamente degne di essere ricordate, una teoria del comportamento politico che non può essere condivisa. Chi oggi perpetra lo sfacelo morale ed economico del nostro paese adduce infatti, a sua giustificazione, proprio quella teoria.
La ringrazio per l’attenzione, gentile signor Sindaco, e La prego di gradire i miei migliori saluti.
Francesco Piscitello, cittadino milanese.
[Milano, 27 gennaio 2017]
LA PAURA DEL “POPOLO”
di Fulvio Papi



L’incoronazione di Trump alla Casa Bianca è avvenuta con la solita coreografia un poco kitsch per il nostro gusto, anche se bisognerebbe integrare bene i segni materiali della cerimonia. Se poi passiamo a quelli verbali il discorso del presidente è stato il riassunto delle volgari e pericolose banalità della sua campagna elettorale, un lessico dei locali frequentati da anziani bulli che con le parole al vento trovano la loro restante identità. Quanto all’ambiente sociale elevato Francesco Ciafaloni su “Una Città” interpreta molto bene la situazione dicendo che “Trump sembra essere un leader di un ambiente culturale, militare, economico che tiene insieme le correnti razziste più pericolose, suprematiste bianche, integraliste del partito repubblicano”. Con una considerazione del femminile -aggiungo- che lo associa alla coorte degli imbecilli che sono noti anche da noi, solo che Trump, se pure in modo non appropriato, è il presidente degli Stati Uniti. È un isolazionista, spregiatore, ricambiato al doppio, dell’Europa, e vistosamente ignorante della tradizione che, per molti versi, è emigrata in America dove ha messo radici profonde e originali da cui c’è non poco da imparare, specie dalle donne. Dal punto di vista economico se fosse lasciato fare (ma non sarà così) mi pare potrebbe persino portare il paese a una crisi di sovrapproduzione. In ogni caso, lasciando perdere ogni scenario, è evidente che diminuirà le tasse ai ricchi che suppongo, considerata la modalità della ricchezza negli Stati Uniti, ora potranno, come del resto è già accaduto, cominciare a lottizzare Marte. 


I poveri, una larga parte, vedranno il mondo ancora peggiore, tuttavia potranno pensare, considerati i “valori” in campo, che è colpa loro la loro incapacità operativa, anche se non si è mai sentito parlare di inferiorità biologica, anche perché, se così fosse stato, probabilmente alcuni dei loro voti gli sarebbero mancati. Dal punto di vista dell’operare governativo è probabile che il suo patrimonio intellettuale non superi la possibilità attuativa di ben poche cose, ma l’équipe che sarà con lui avrà di certo le competenze che molti temiamo; ma che ci vorrà poco, per esempio, in politica estera, ad essere più acuti dei predecessori repubblicani. Condivido però il parere di quelli che pensano sia sbagliato ritenere che l’equilibrio del mondo, nel suo complicato intreccio, è quello che è, e quindi ogni “manovra” trova i suoi limiti nello stato delle cose. Prima di tutto non è vero che dal punto di vista mondiale, ci sia una grande stabilità come ai tempi della guerra fredda. Si potrebbero citare decine di casi “in movimento”, e in ciascuna di queste congiunture, anche da un punto di vista isolazionista il presidente americano dovrà fare le sue mosse secondo i consigli della sua équipe. E qui le incognite, anche pericolose, potrebbero non essere poche. Da noi, per esempio, le politiche della destra ideologica, arcaica e aggressiva, potrebbero essere molto incoraggiate, assenti come sono da una cultura economica che le rende consapevoli degli effetti devastanti che, nella loro prospettiva, avrebbero tutti i fenomeni della inarrestabile globalizzazione. 


Ma, in verità, è su un altro tema molto rilevante che vorrei fermare l’attenzione. Nell’editoriale dell’ultimo numero di “Vita e Pensiero”, l’ottima rivista dell’Università Cattolica, si può leggere: “La democrazia”, disse Abramo Lincoln in uno dei suoi più celebri discorsi è il “governo del popolo, dal popolo, per il popolo. Verso quel “popolo” che Lincoln celebrava solennemente come il detentore del potere sovrano, i padri costituenti americani erano stati in realtà molto più diffidenti. Memori della pessima fama che la forma di governo democratico aveva lasciato, vollero impedire che la nascente repubblica fosse lacerata dalle lotte di fazioni. E proprio per evitare che l’elezione del presidente degli Stati Uniti potesse scatenare lo scontro, le passioni politiche e mettere a rischio la pace, consegnarono a un collegio di grandi elettori il compito di scegliere chi dovesse essere il capo dell’esecutivo. Come tutti sanno, già pochi anni dopo il sistema congegnato dai costituenti si rivelò inefficiente (perché? Sarebbe interessante capire), e l’elezione si trasformò di fatto in una elezione diretta”. E così andò avanti per 200 anni di storia. “Ma duecentoventinove anni dopo le elezioni presidenziali del 2016 hanno invece palesato proprio ciò che i padri fondatori avevano temuto. Se ne 2008 la marcia travolgente di Barack Obamna verso la Casa Bianca aveva mostrato al mondo -e gli operatori della comunicazione- la potenza dello storytelling,  le elezioni del 2016 ci hanno invece fatto entrare nell’era della post-verità”. Ora entrare nell’epoca della “post-verità” significa sapere che, anche senza troppe analisi, viene a cadere uno dei pilastri fondamentali sui quali (a sua volta per verità o per accettabile simulazione delle tecniche della verità) si formano i requisiti di un esercizio politico democratico, la libertà di giudizio.


Una analisi dei “valori” della nostra storia politica della celebre Atene di Pericle agli illuministi (dove fiorì il mito della democrazia nelle piccole repubbliche), e sino a noi, mostra che il voto è un atto consapevole di quella libertà che nasce dalla cultura. (La libertà originaria di Rousseau che diviene virtù fu una catastrofe per Robespierre). Condorcet che seguì tutto il lungo e tormentato tragitto della Rivoluzione, di fronte al fatto che vi era una contraddizione tra la linea politica repubblicana e l’animo popolare ed elettorale ancora in maggioranza realista e chiesastico (la religione è un fenomeno molto più complesso) osservava che il vero problema era quello del rapporto tra ignoranza e conoscenza, quindi pensava a un compito educativo della Rivoluzione. È un modello intellettuale che funzionerà in Italia sino alla rinascita della democrazia, dopo che le elezioni del 1924 avevano mostrato il contrario. Ora, per molte ragioni, che qui è superfluo ricordare, poiché sono ben note, quel modello, secondo cui la libertà che nasce da una cultura è il fondamento della democrazia politica, è ormai obsoleto. Possiamo dispiacerci, specie se, a suo tempo, puntammo la vita stessa in questa direzione, ma le cose stanno così. Si può contraddire il reale, ma non in maniera fattuale. 


L’editorialista che ho citato, così conclude: “per difendersi dall’avanzata del “popolo della paura” serve poco tornare a sventolare l’antico, polveroso vessillo della paura del popolo”. Si può sempre restaurare il famoso “vivi nascosto”, ma è l’addio alla propria figura politica, è un’invenzione privata del mondo. La paura del popolo era un “topos” platonico per cui il “demos” era il luogo delle passioni sconsiderate. E anche Spinoza riteneva che al popolo (come si dimostrò proprio nella vittoria dei fanatici calvinisti) poteva essere considerato da immediate (prive della dimensione della temporalità) furie emotive e aggressive prive di qualsiasi fondamento culturale, contro le quali si poteva agire solo tramite tecniche razionali del potere sulle quali Spinoza aveva meditato filosoficamente. Può darsi che qualcuno, tra platonico e robespierriano, sogni di sventolare “il vessillo della paura del popolo”. Ma fin che può procedere l’identità pubblica con il consumo (che è un tema complesso da studiare), non servono vessilli. Poi chissà. E pure se c’è una post-verità (ma non dimentichiamo la polisemia, per cui il “popolo della paura” parla di verità) c’è anche la non meno famosa post-democrazia. Può essere persino che possa risorgere la fantasia del “demiurgo”, ma non ci credo, perché l’esercizio della libertà privata (quello che resta) è una pratica che ha pure il suo valore e i suoi effetti politici. 


Si può dire che c’è una libertà post-politica? Per il resto vedo solo una possibile terapia che derivi da un sentimento di fiducia su chi, intorno a programmi sensati (e ce ne sono molti), abbia il potere politico. È solo un sentimento, ma è il solo che può togliere la malattia dell’autoreferenzialità. Una buona teoria è solo nel modo buono di lavorare politicamente rendendo pubblici gli scopi, i mezzi, i tempi. E l’educazione di Condillac rovesciata, è la “paura del demos” diviene timore di non essere un potere adeguato. Ma questa scuola un ceto politico la fa su se stesso, e qui ci vuole una cultura e uno stile come fu nel nostro dopoguerra che va molto al di là delle dispute interessate sui sistemi elettorali. Sembrerà strano ma in America basterebbe proprio cambiare una legge elettorale sbagliata. Da noi è più difficile, perché crediamo di vivere di rendita, invece navighiamo sui debiti, non per colpa di tutti, s'intende.   
Codice intelligenza
di Laura Margherita Volante


Chi si accontenta fa godere qualcun altro…
Il sogno americano come un tappeto viene arrotolato
e depositato nel solaio dei sogni mancati. 
Fomentare polemiche durante eventi tragici è mancanza
di rispetto verso chi lotta per sopravvivere ed è una perdita
di tempo utile per salvare vite umane.
Gli adulti devono farsi fanciulli, mai mettersi al loro livello.
I capi scelgono come collaboratori i viscidi
perché hanno bisogno di cortigiani per esistere…
Ponti o muri? I primi si attraversano…
Contro i muri si sbatte solo la testa.
Identità e ruoli. Ieri distinti e uniti. Oggi dipendenti e disuniti.
Qualsiasi tipo di dipendenza insegue l’odore dei soldi.
Il chiodo nel copertone sgonfia la ruota.
Il chiodo fisso gonfia l’ossessione.
Finché c’è campanilismo l’unità è un miraggio. 
Indice di gradimento sociale è l’ipocrisia espressa con sincerità.
Vuoto cosmico. L’immagine sostituisce l’essere…
Face-book: la vetrina dei figuranti.
La finanza è complice occulta della criminalità.
La semplicità è come il coraggio: si ha o non si ha.
Il grado di maturità di una persona si misura dal livello di saccenza…
Il valore non viene dato, appartiene solo a chi possiede
principi morali irrinunciabili.
Non si può competere con un poeta…
L’intelligenza è godibile ed incompresa.




mercoledì 25 gennaio 2017

IL SECOLO DELL’ESILIO
di Angelo Gaccione

Eric Hobsbawm

Non conosco definizione più falsa e fuorviante di quella dello storico Eric Hobsbawm, fra quelle con cui viene designato il Novecento: “secolo breve”. Di breve questo secolo non ha avuto nulla. Non lo è stato per le guerre: due interminabili guerre mondiali e centinaia di conflitti e colpi di stato in ogni parte dello scacchiere mondiale, dall’Africa al Sudest asiatico, dall’America Latina al Medioriente, con un bilancio di morti, feriti, profughi e distruzioni inenarrabili, che non trovano eguali in altre epoche storiche. Per nessuno dei trucidati nei campi di sterminio, dei violati del Vietnam, dei separati del Sudafrica, dei desaparecidos dell’America Latina, il tempo della tragedia è stato breve. Non lo è stato per le persecuzioni razziali, il neocolonialismo, la guerra fredda, le ideologie totalitarie, così come non lo è stato per le lotte di liberazione, i diritti civili, quelli delle donne.
Al contrario, la definizione più pertinente, più precisa, più veritiera e che lo rivela nella sua profondità più acuta, è quella di Jean-Claude Carrière che ha magistralmente definito il XX secolo come “secolo dell’esilio”. E come giustamente afferma in un libro conversazione del 1994 con il Dalai Lama: La force du bouddhisme, pubblicato l’anno successivo in Italia con il titolo: La compassione e la purezza, “nessun secolo mai strappò tante radici”.

Jean-Claude Carrière

Non c’è alcun dubbio che il Novecento è stato il secolo dell’esilio. Non possediamo le cifre complessive e forse una stima globale non sarà mai possibile, ma fra esilio “volontario” ed esilio forzato (emigrazione economica, politica, razziale, religiosa, ambientale, di guerra), hanno varcato oceani, terre, confini, milioni, milioni e milioni di persone di ogni età. Da quel grande esilio che è stata l’emigrazione europea verso le Americhe e l’Australia; all’esilio interno ai vari Paesi con la fuga dalle aree industrialmente depresse e rurali, verso quelle dello sviluppo e del boom economico, che ha desertificato popoli e regioni. Così all’ingrosso, e senza rispetto per la cronologia della storia e il mappamondo, possiamo metterci dentro luoghi del mondo fra i più diversi: Tibet, India, Pakistan, ex Persia dello scià Reza Palhevi, Palestina, Corno d’Africa e di gran parte di questo immenso continente, Magreb, Repubbliche sovietiche, ex Jugoslavia e altro ancora. Dai Pieds-noirs fino ai boat people, ai deportati, ai figli senza più patria delle guerre interminabili di ogni dove. Un esodo biblico dalle proporzioni incalcolabili.

Profughi


Se confrontiamo la carta geografica del mondo degli ultimi cento anni, rimaniamo storditi nel rilevare quanti confini sono stati spostati, quanti stati hanno cambiato nome, quanti regimi si sono succeduti. Se gli storici e i commentatori assumessero questa definizione di Carrière, forse comprenderemmo meglio un secolo che per conto mio non si è ancora concluso, perché tutte le ferite che il Novecento ha lasciato aperte, le ha trasferite intatte o più virulente nel primo quindicennio del nuovo secolo. E perdurano, conferendo allo sradicamento e all’esilio di interi popoli o di parti di essi, proporzioni che non avremmo neppure immaginato.
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