UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

venerdì 12 maggio 2017

SOLŽENICYN E LA CENSURA SOVIETICA
di Giovanni Antonucci


Tutta la letteratura dell'Unione Sovietica è finita nella mannaia della censura fin dai tempi di Lenin. Con Stalin la situazione diventò ancora più pesante per ogni vero scrittore. Nessuno sfuggì a un potere totalitario che combatteva prima di tutto la cultura libera e degna di questo nome. La letteratura, dalla rivoluzione alla scomparsa di Stalin, è un campo di morte: torture, fucilazioni, gulag, suicidi. Sono rarissimi gli scrittori russi sfuggiti a questa condizione. Bulgakov, il più grande di tutti, si è salvato, nonostante la censura si sia accanita contro di lui, solo perché è morto di malattia a 49 anni. Zamjatin è sfuggito all'inevitabile condanna a morte solo perché nel 1932 ebbe la possibilità, grazie all'intervento di Gorkij, di trasferirsi a Parigi, dove poté finalmente pubblicare il suo capolavoro: Noi, che ha anticipato i romanzi di Huxley e di Orwell sul totalitarismo. Gli altri grandi scrittori dell'epoca ebbero un terribile destino. Isaak Babel fu fucilato nel 1937, Danil Charms morì in una clinica psichiatrica dopo essere stato arrestato e torturato, Marina Cvetaeva morì suicida dopo che le avevano fucilato il marito. Il raffinato poeta simbolista Nikolaj Gumilev fu giustiziato “per attività controrivoluzionaria” nel 1921, ai tempi di Lenin, Majakovskij, il cantore della rivoluzione sovietica, si suicidò nel 1930, il grande poeta Osip Mandelštam fu arrestato nel 1938 e morì in un gulag, Andrej Platonov  fu arrestato e confinato in un lager durante le purghe staliniane, Boris Pilnjak fu ucciso nel 1937, Varlam Šalamov, l'autore del massimo capolavoro insieme a Arcipelago Gulag sull'universo dei gulag: I racconti di Kolyma, fu imprigionato e inviato nei  gulag di Kolyma, dove i detenuti lavoravano a temperature di quaranta gradi sotto zero allo sfruttamento dei giacimenti auriferi. Michail Zoščenko, le cui opere furono condannate per calunnia del potere sovietico, venne espulso dall'Unione degli Scrittori e costretto al silenzio.
La generazione post-staliniana non ha avuto una sorte migliore, anche se gli scrittori, pur arrestati, confinati nei gulag e nelle cliniche psichiatriche, sono quasi tutti sfuggiti alla morte fisica. Solo a ricordare i nomi più significativi, Boris Pasternak fu espulso dall'Unione degli Scrittori e costretto a rinunciare al Premio Nobel per aver fatto pubblicare in Italia Il dottor Zivago. Lo storico e drammaturgo Andrej Amalrik fu arrestato “per parassitismo” e deportato in Siberia nel 1965.Arrestato un'altra volta, fu condannato a tre anni di gulag e a tre di esilio finché riuscì ad emigrare in Spagna. Josif Brodskij, il maggiore poeta della seconda metà del Novecento, Premio Nobel nel 198, pubblicò come tutti suoi colleghi dissidenti le sue opere in samizdat, ma fu arrestato per parassitismo e condannato a cinque anni di lavori forzati. Espulso dall'Unione degli Scrittori nel 1972, si stabilì in USA. Vla dimir Bukovskij, scrittore di talento, ha passato dodici anni fra gulag e cliniche psichiatriche, prima di potersi trasferire in Inghilterra. Yurij Daniel e Andrej Sinjavskij furono condannati nel 1966 a sette anni di lavori forzati, in un processo che ebbe grande eco internazionale. Yuri Galanskov, poeta e membro del movimento per i diritti civili, fu condannato nel 1968 a sette anni di lavori forzati e in un gulag è morto a soli 33 anni. Aleksandr Galič, poeta drammaturgo e cantautore, è stato costretto all'esilio nel 1974, Alexsandr Ginzburg fu arrestato per la seconda volta nel 1968 per aver compilato un libro bianco sul processo Daniel - Sinjavskij. Vasilij Grossman non ha mai potuto vedere pubblicato il suo capolavoro Vita e destino, confiscato dal KGB ed edito oltre vent'anni dopo la sua  morte. Vladimir Maksimov, l'autore de I sette giorni della creazione, è stato rinchiuso in un ospedale psichiatrico prima di poter emigrare a Parigi. Alexsandr Zinoviev, autore di un capolavoro come Cime abissali, oltre che di libri satirici come Katastrojka e Il gorbaciovismo, scrittore che ho avuto la fortuna di conoscere al Salone del libro di Torino, fu espulso dall'Unione Sovietica per aver pubblicato il suo capolavoro all'estero (1).

E' impossibile parlare di Alexsandr Solženicyn senza fare riferimento alla condizione di tutti gli scrittori vissuti in un paese totalitario dove non c'era alcuna possibilità di esprimersi senza essere oggetto di una censura che conduceva alla pena di morte, al gulag e agli ospedali psichiatrici. Solženicyn, in tutta la sua opera, da Una giornata di Ivan Denisovič a Arcipelago Gulag, ha rappresentato il destino terribile non solo degli scrittori, ma di tutto un popolo, reso schiavo da un'ideologia che ha fatto nel mondo comunista oltre cento milioni di morti, come ha documentato inoppugnabilmente Il libro nero del comunismo.
L'autobiografia (2) di Solženicyn, scritta nel 1965 quando il regime aveva cominciato non solo a impedirgli di pubblicare, ma anche a requisire il suo archivio frutto di anni di lavoro, è un documento agghiacciante della condizione di tutti i cittadini sotto il regime comunista. Eroico combattente contro i tedeschi, decorato degli ordini della Guerra patriottica e della Stella Rossa, fu arrestato vicino a Könisberg nel febbraio del 1945 “in base  a brani censurati della corrispondenza” -racconta lo scrittore- “che tenevo con un mio compagno di scuola nel 1944-45, e soprattutto per una frase irriverente nei confronti di Stalin, sebbene noi lo ricordassimo sempre sotto pseudonimo. Ulteriore materiale d'accusa costituirono appunti per racconti e  riflessioni che furono trovati nel mio zaino”. La censura del regime comunista condusse il giovane insegnante di matematica, oltre che coraggioso combattente, alla pena (“a quell'epoca ritenuta lieve”, aggiunge Solženicyn senza alcuna ironia) di otto anni di gulag e di tre di confino. In quei terribili anni il docente di matematica e fisica scoprì la sua vera vocazione di scrittore, da cui sono nati Una giornata di Ivan Denisovič, Il primo cerchio, Padiglione Cancro, tutte opere scritte in segreto nei tre anni di confino e dopo la sua liberazione undici anni dopo. “Per tutti quegli anni, fino al 196, non solamente fui certo che da vivo non avrei mai visto stampata neppure una mia riga, ma non osai neppure dar da leggere qualcosa quasi a nessuno dei miei più cari amici, perché temevo che fosse divulgata. Ma infine, verso i quarantadue anni questa situazione di scrittore clandestino cominciò a pesarmi parecchio. E il disagio maggiore era costituito dall'impossibilità di confrontare il mio lavoro con un pubblico di livello letterario elevato. Nel 1961, dopo il XXII Congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietica e il discorso che Tvardovskij aveva pronunciato, decisi di scoprirmi: di proporre per la pubblicazione Una giornata di Ivan Denisovič. Questa autorivelazione mi parve allora, e non senza fondamento, assai arrischiata: avrebbe potuto comportare la distruzione di tutti i miei scritti e anche di me stesso. Ma invece si risolse felicemente: Tvardovskij riuscì, dopo lunghi sforzi, a pubblicare il mio racconto un anno dopo. Ma quasi subito la pubblicazione dei miei lavori venne bloccata, furono bloccati i miei testi teatrali (Una candela al vento, Il cervo e la puttana) e nel 1964 il romanzo Il primo cerchio, che nel 1965 mi fu requisito insieme con le carte che costituivano il mio archivio messo insieme in lunghi anni, e in quei mesi mi parve un errore imperdonabile aver rivelato il mio lavoro prima del momento giusto, sicché non sarei riuscito a portarlo a termine”.


Questo racconto autobiografico, rigorosamente sincero, ci permette di cogliere le condizioni di vita di ogni vero scrittore nell'Unione Sovietica. La censura delle sue lettere a un amico lo condannò a undici anni fra lager e confino, la paura di essere un'altra volta condannato lo costrinse a scrivere in segreto fino a quando  mandò il dattiloscritto di Una giornata di Ivan Denisovič a Tvardovskij, consapevole che quel gesto poteva rovinare la sua vita e le sue opere.
Dopo tanti anni di prigionia e di lavoro oscuro come docente di matematica  nelle scuole medie superiori di Rjazan nell'Unione Sovietica centrale, Solženicyn ebbe la fortuna di trovare in Tvardovskij, coraggioso direttore della rivista “ Novyj Mir”, e in Kruscev, fautore del disgelo dopo la denuncia al XX Congresso del PCUS dei crimini di Stalin, due ammiratori di Una giornata di Ivan Denisovič. Se l'appoggio di Tvardovskij era più letterario che politico, quello di Kruscev era interessato, perché il romanzo di Solženicyn, con la sua rivelazione dell'universo concentrazionario, veniva incontro al desiderio del segretario del PCUS di liberalizzare moderatamente il regime, come dimostravano anche le riabilitazioni dei condannati. Lo stesso Solženicyn era stato riabilitato nel 1957 con la motivazione che dal 1942 al suo arresto “si era battuto coraggiosamente per la patria e aveva dato più volte prova di autentico eroismo”.
Il successo di Una giornata di Ivan Denisovič esplose letteralmente e la rivista andò a ruba, tanto che Tvardovskij, l'anno dopo, lo pubblicò in volume con una tiratura  di ben 800.000 copie, che andarono subito esaurite e che fecero del suo autore lo scrittore più popolare e più amato dell'Unione Sovietica. Giornali e riviste furono invasi dalle lettere di centinaia di migliaia di lettori. Uno di essi scrisse (3): “In Russia gli scrittori hanno sempre occupato un posto particolare. Per male che andassero le cose, la vita ci è sempre apparsa più sopportabile quando avevamo un Turgenev, un Tolstoj, un Cechov. Non ci bastava che lo scrittore fosse di buon livello, persino un grande. Avevamo bisogno che lo si potesse amare. Lei è così: le abbiamo subito voluto bene. Le siamo riconoscenti per questo sentimento, perché senza amore è ben triste la vita dell'uomo... Siamo molto fieri di lei, compagno Solženicyn. La sua gloria è la nostra. Se lei tradisse le grandi verità arrecherebbe dolore a noi tutti. In altri tempi c'era in Russia Jasnaja Poljana, c'era Melichovo ed ecco ora la Rjazan di Solženicyn. Abbia cura di sé, Aleksandr Solženicyn, perché dopo che ha scritto Ivan Denisovič la sua vita non è più solo sua. Probabilmente neppure lei comprende del tutto che cosa lei significhi ormai per tutti noi”. 


La stampa, d'altra parte, esaltava il libro, ma in mezzo agli elogi la critica più legata al regime cominciava a fare qualche distinguo. Fu, però, la caduta di Kruscev nell'ottobre del 1964 a cambiare completamente l'atmosfera di disgelo nel paese e una delle prime vittime fu proprio Solženicyn. Il processo a Sinjavskij e Daniel del 1965 confermò che il disgelo era definitivamente tramontato. Solženicyn cominciò ad essere guardato con sospetto. Lo stesso anno del processo ai due scrittori dissidenti “la polizia irruppe nell'abitazione di un amico di Solženicyn e ne confiscò parte degli archivi fra cui il dramma rinnegato Il banchetto dei vincitori e il manoscritto del romanzo Il primo cerchio. Era iniziata la manovra delle autorità volta ad annullare la popolarità dello scrittore e a dimostrarne la sostanziale natura antisovietica” (4). La pubblicazione su “Novyj Mir”, nel 1966, del racconto Zachar Kalita diventò l'ultimo scritto pubblicato ufficialmente, anche se tutti i libri successivi verranno letti, con tutti i rischi del caso, in samizdat. Ormai Solženicyn era diventato un nemico del popolo da abbattere non solo impedendogli di pubblicare, ma anche con l'arma della diffamazione. Divisione cancro segnò la rottura definitiva con il regime, nonostante l'Unione degli Scrittori ne avesse approvato la pubblicazione, ma il libro fu bloccato. Solženicyn non arretrò di un passo. In un'intervista (5) allo scrittore slovacco Pavel Ličko, pubblicata il 31 marzo 1967 su “Kulturny Život”, parlò del ruolo fondamentale dell'individuo nella società: “Bisogna guardare ai compiti dello scrittore non solo dal punto di vista del suo dovere verso la società, ma anche del suo dovere verso ciascun uomo, ciò che costituisce il suo obbligo più importa. La vita dell'individuo non è sempre identica a quella della società (...). Ogni uomo ha tanti problemi che il collettivo non può risolvere; l'uomo è un'individualità fisiologica e spirituale prima che un membro della società”. Intanto tutte le sue opere, da Divisione cancro a Il primo cerchio, da Il cervo e la puttana a Una candela al vento, testi teatrali mai andati in scena perché  fermati dalla censura, dalla sceneggiatura cinematografica I carri armati conoscono la verità  ai Racconti minimi, erano bloccati con ragioni pretestuose. Di fronte a questa situazione, Solženicyn scrisse il 16 maggio 1967 una lettera aperta (6) al IV Congresso dell'Unione degli scrittori dell'URSS. E' una testimonianza fondamentale per cogliere il coraggio dello scrittore, la sua carica morale, la sua denuncia  delle calunnie di cui era oggetto. La prima parte riguarda proprio la censura sovietica:

Stalin

“L'asservimento intollerabile che la nostra letteratura patisce da decenni ad opera della censura e che l'Unione degli Scrittori non può più tollerare per il futuro. La censura non è prevista dalla Costituzione e perciò è illegale, non viene mai nominata pubblicamente ma, mascherandosi dietro la denominazione equivoca di Glavnit, pesa sulla nostra letteratura e realizza l'arbitrio di gente letterariamente analfabeta sugli scrittori (..). A noi scrittori non è riconosciuto il diritto di esprimere giudizi anticipati sulla vita morale dell'uomo e della società, di spiegare in modo autonomo i problemi sociali o l'esperienza storica che il nostro paese ha sofferto in modo così profondo (..). Ci fu un tempo quando da noi non si stampava nemmeno Dostoevskij, vanto della letteratura mondiale (e nemmeno oggi si stampa per intero) veniva escluso dai programmi scolastici, reso inaccessibile ai lettori, calunniato in ogni modo. Per quanti anni Esenin fu trattato da ‘controrivoluzionario’ e chi ne possedeva i libri finiva addirittura in carcere? E Majakovskij non è stato forse definito ‘un teppista politico anarcoide’? Per decenni i versi immortali dell'Achmatova furono considerati ‘antisovietici’. Dieci anni fa il primo timido tentativo di pubblicare la sfolgorante Cvetaeva fu definito ‘un grossolano errore politico’ (...). La letteratura non può svilupparsi secondo le categorie ‘l'accetteranno - non lo accetteranno’, ‘di questo si può scrivere- di quello no’. Una letteratura che non è l'aria della società a lei contemporanea, che non osa trasmettere alla società il proprio dolore e la propria ansia, che non è capace di preavvertire a tempo debito dei pericoli morali e sociali incombenti, non merita neanche il nome di letteratura”. 


La seconda parte della lettera era una circostanziata denuncia di ciò che subivano le sue opere, la confisca da parte della polizia del dattiloscritto de Il primo cerchio, di tutto il suo archivio letterario con testi non destinati alla pubblicazione come il rifiutato Il banchetto dei vincitori, opera contro Stalin scritta in un campo di concentramento “dove, condannati a morire di stenti, eravamo dimenticati dalla società e nessuno fuori da essi si pronunciava pubblicamente contro le repressioni”, il blocco di Divisione cancro, la mancata messinscena dei testi teatrali, l'impossibilità di leggere in pubblico o alla radio brani delle sue opere. Ma contemporaneamente denunciava le continue diffamazioni: “Contro di me, che ho fatto tutta la guerra come comandante di batteria e sono stato decorato al valore militare, si conduce da tre anni una campagna irresistibile di calunnie: io sarei stato condannato al lager per delitti comuni, mi sarei dato prigioniero (non lo sono mai stato), avrei ‘tradito la patria’ e ‘servito i tedeschi’. Così si interpretano i miei undici anni di campo di concentramento e di deportazione subiti per aver criticato Stalin”.
Il clamore che fece questa lettera , rimasta senza risposta, fu tale che il 22 settembre fu indetta una riunione del Segretariato dell'Unione degli scrittori, teoricamente per discutere della pubblicazione di Divisione cancro, in realtà per processare Solženicyn. Con  qualche eccezione come Tvardovskij e Simonov, tutti gli altri si scagliarono contro Solženicyn e le sue opere. Lo scrittore  Aleksej Surkov disse (7):
“Se sarà pubblicato, Divisione cancro potrà essere rivolto contro di noi e sarà più forte delle memorie di Svetlana (…) Le opere di Solženicyn sono per noi più pericolose di quelle di Pasternak. Pasternak era un uomo staccato dalla vita, mentre Solženicyn ha un temperamento vivo, battagliero, ideologicamente determinato. E' un uomo che ha idee”. Surkov, cantore patriottico dell'Unione Sovietica , aveva colto perfettamente la natura di un romanzo che rappresentava il cancro come malattia del corpo, ma anche e soprattutto della società sovietica.
Solženicyn scrisse il 18 aprile 1968 una nuova lettera (8) al Segretario dell'Unione degli scrittori  dopo che il dattiloscritto di Divisione cancro, che continuava a circolare clandestinamente nel paese, era arrivato, grazie a un certo Victor Louis, in Europa, pronto per essere pubblicato, come infatti poi avvenne, da parte di editori  italiani, tedeschi, inglesi, francesi. In essa chiedeva: “Chi è questo Victor Louis, cosa fa, di che nazionalità è. E' vero che ha portato fuori dall'Unione Sovietica un esemplare di Divisione cancro, a chi l'ha trasmessa e in quale altro luogo ancora c'è la  minaccia di una pubblicazione del romanzo?” per concludere significativamente:


“E che rapporti ha con tutto ciò il Comitato per la Sicurezza dello Stato?”. Solženicyn aveva capito perfettamente che tutta l'operazione era stata gestita dal KGB per accusarlo di avere spedito di nascosto all'estero i dattiloscritti non solo di Divisione cancro, ma anche de Il primo cerchio, del racconto La mano destra e del dramma Una candela al  vento, tutti pubblicati nel 1968 dagli editori europei (Il primo cerchio anche da un editore americano importante).Ciò che contava era rappresentare Solženicyn come uno scrittore nemico del suo paese e esponente della propaganda dei paesi capitalisti. Il 4 novembre, prima a Rjazan e due giorni dopo a Mosca, senza neppure essere invitato, veniva radiato “per comportamento antisociale”. Solženicyn rispose con una dura lettera che ebbe grande eco sulla stampa  francese e inglese, ma assai minore in Italia. Il conferimento del Premio Nobel l'8 ottobre del 1970 fu un vero e proprio schiaffo per il regime sovietico che non aveva il coraggio di processare Solženicyn, come aveva fatto con tanti altri scrittori del dissenso. La sua popolarità in tutto il mondo era tale che una condanna ai lavori forzati sarebbe stata un boomerang per il governo. Il Nobel, paradossalmente, poteva risolvere il problema. Nel caso che lo scrittore fosse andato a ritirarlo a Stoccolma, gli sarebbe stato impedito di ritornare in patria. Egli intuì subito il disegno e rinunciò a presenziare alla cerimonia. Il discorso che scrisse per il Nobel, ma che non poté allora pronunciare e che fu reso noto solo due anni dopo, è uno dei documenti più alti non solo di Solženicyn, ma di  tutta la cultura occidentale degna di questo nome. Qui ne voglio citare due brani (9): “Guai alla nazione la cui letteratura viene minacciata dall'intervento del potere. Perché  ciò non rappresenta solo una violazione contro ‘la libertà di stampa’, ma la chiusura stessa del cuore di una nazione, l'estirpazione della memoria nazionale. La nazione cessa di essere consapevole di se stessa, viene privata della sua unità spirituale, e nonostante un linguaggio apparentemente comune, gli stessi concittadini cessano improvvisamente di comprendersi. Generazioni silenziose invecchiano e muoiono senza rivolgersi una parola. Quando scrittori come Achmatova e Zamjatin -sepolti vivi per tutta la loro vita- sono condannati a creare in silenzio fino alla morte, senza mai udire l'eco delle parole che hanno scritto, allora non è più soltanto una loro tragedia personale, ma un martirio di una nazione, un pericolo per tutta la nazione. Di più, in certi casi -allorché un tale silenzio fa sì che la storia cessi di essere compresa nella sua complessità- è un pericolo per tutta l'umanità”. Solženicyn chiuse il discorso con una dichiarazione che dovrebbe valere per qualsiasi autore che crede nella necessità della letteratura e dell'arte in generale: “Che cosa può la letteratura contro l'irruzione spietata della violenza? Non dimentichiamo che la violenza non vive da sola, né è in grado di vivere da sola: essa è intimamente legata alla menzogna. Tra esse  c'è il più intimo dei legami naturali (...) Ogni uomo che ha scelto la violenza come suo metodo ha inesorabilmente scelto la menzogna come suo principio”. Di fronte all'alleanza di violenza e di menzogna non è vero che non ci sia nulla da fare: gli scrittori e gli artisti possono fare di più: “essi possono vincere la menzogna! Nella lotta contro la menzogna l'arte ha sempre vinto e vincerà sempre! (...) I russi amano i proverbi sulla ‘verità’. Essi esprimono in modo costante e talvolta in modo stupendo la dura esperienza del popolo: Una parola di verità pesa più del mondo intero. E' su una tale immaginaria fantasia, su una tale breccia del principio di conservazione di massa, che si fonda anche la mia personale attività  e il mio personale appello agli scrittori di tutto il mondo”.


Dopo il conferimento del Premio Nobel, la vita di Solženicyn divenne ogni giorno impossibile. Il 13 agosto del 1971 scrisse al capo del KGB una lettera (10) che imputava  allo stesso KGB tutta una serie di vessazioni di ogni genere, rivolte anche ai suoi amici: “Da anni sopporto in silenzio le azioni illegali dei vostri subalterni: il controllo di tutta la mia corrispondenza, la confisca di metà di essa, le perquisizioni in casa dei miei amici e la loro persecuzione ufficiale e amministrativa, la sorveglianza costante della mia casa, il controllo dei miei visitatori, la registrazione delle conversazioni telefoniche, l'installazione di microfoni nella mia casa”. Oltre a tutto questo, fu imposto a Solženicyn il divieto di consultare biblioteche e archivi proprio mentre stava scrivendo il  romanzo Agosto 1914, che peraltro non trattava per evidenti ragioni cronologiche l'Unione Sovietica.


Il successo dei suoi libri all'estero e il prestigio  di cui godeva contrastavano con la sua condizione di scrittore impossibilitato ad esistere nel suo paese, a cui era profondamente legato. Solženicyn, però, non smise di combattere contro il regime e la sua ideologia, che continuava a devastare l'URSS. Il 5 settembre 1973 scrisse la  Lettera ai dirigenti dell'Unione Sovietica (11), dove il marxismo veniva contestato dalle  fondamenta insieme alla politica che ne era derivata: “L'ideologia che abbiamo ricevuto in eredità -sottolineava lo scrittore- non solo è irrimediabilmente antiquata, ma anche nei suoi migliori decenni ha sbagliato tutte le previsioni, e non è mai stata una scienza (...) Il marxismo stupisce per la sua rozzezza economico-meccanicistica proprio quando cerca di spiegare e interpretare ciò che c'è di più complesso nel mondo, ossia l'essere umano, e quella combinazione ancora più complessa fatta da milioni di uomini, ossia la società. Solo la brama di alcuni, la cecità di altri, e la creduloneria di altri possono spiegare questo macabro scherzo del Ventesimo secolo: come una dottrina così screditata e a tal punto sballata possa ancora trovare tanti seguaci in Occidente! Dove ne ha meno è ormai proprio fra di noi!”. E approfondendo il discorso, continuava rivolto ai dirigenti sovietici: L'ideologia oggi non fa che indebolirvi e legarvi le mani. Riempie tutta la vita della società, i cervelli, i discorsi, la radio, la stampa di menzogne, ancora menzogne, e sempre menzogne. Come può un morto far finta d'essere ancora vivo se non sorreggendosi alla menzogna? Tutto sprofonda nella menzogna, e tutti lo sanno e ne parlano apertamente in privato, ne ridono e ne piangono, ma nelle manifestazioni ufficiali ripetono ipocritamente quello che si ‘deve’ dire e con altrettanta ipocrisia, e tedio, leggono e ascoltano i discorsi degli altri. Quanta energia della società va sprecata in questo modo! (…) Questa menzogna generale, forzata, obbligatoria è diventata l'aspetto più tormentato dell'esistenza del nostro paese, ben peggiore della mancanza di qualunque libertà civile”. Questo smascheramento, lucido e appassionato, di un regime fondato sulla menzogna era, d'altra parte, accompagnato da un'analisi di tutti i mali della Russia sovietica come, ad esempio, la cattiva qualità della scuola, le spese enormi per gli armamenti, l'alcoolismo di giovani e meno giovani, fonte d'introito per lo stato produttore. Sull'agricoltura la denuncia era altrettanto forte: “Non vogliamo riconoscere l'errore dei kolchoz. Per secoli la Russia ha esportato grano, dieci, dodici milioni di tonnellate l'anno poco prima della Prima guerra mondiale, ed ecco che, dopo cinquantacinque anni del nuovo regime, e quaranta del celebrato sistema dei kolchoz, siamo costretti a importarne venti milioni all'anno. La campagna, che per secoli è stata il pilastro della Russia, è divenuta oggi la sua principale  debolezza!”.


Questa lucidissima lettera sulla natura del regime sovietico apparve, nonostante tutto,  meno preoccupante dell'uscita a Parigi il 30 dicembre1973 di Arcipelago Gulag, pubblicato in russo e poi tradotto in tutte le lingue, tanto da diventare non solo un capolavoro della letteratura, ma un successo mondiale da milioni di copie vendute. Solženicyn vi aveva lavorato in segreto per nove anni, ma l'onnipresente KGB era riuscito a mettere le mani sul libro. Aveva messo sotto interrogatorio una dattilografa che aveva battuto a macchina alcune copie e, attraverso lei, minacciata e torturata , era riuscito a scoprire il nascondiglio dove si trovava. La donna, sconvolta, si era suicidata. Solženicyn informò i giornalisti occidentali di ciò che era successo e a questo punto autorizzò la pubblicazione alla Ymca-Press di Parigi. Fece precedere il libro(12) da questa notizia: “A cuore stretto mi ero astenuto per anni dal pubblicare questo libro già pronto: il dovere verso chi era ancora vivo prendeva il sopravvento su quello verso i morti. Ma oggi che la Sicurezza dello Stato ha comunque in mano l'opera, non mi rimane altro che pubblicarla immediatamente”. Il regime rispose con durezza. La Procura della Repubblica lo convocò più volte per interrogarlo, ma lo scrittore si rifiutò con questa motivazione: “Mi rifiuto di riconoscere la legalità delle vostre convocazioni e non mi presenterò per un interrogatorio davanti ad alcuna istituzione statale” (13).
Alcuni giorni dopo, il 12 febbraio 1974, fu arrestato, privato della cittadinanza del suo paese ed espulso in Germania. Poche ore prima aveva finito di scrivere l'appello ai russi Vivere senza menzogna (14), che si concludeva con i versi di Puškin: A che servono alle mandrie i doni della libertà/ Il loro retaggio, di generazione in generazione/ sono il giogo con i bubboli e la frusta/.
Il regime credeva di aver vinto una lunga e difficile battaglia, ma si sbagliava. Le opere di Solženicyn , da Una giornata di Ivan Denisovič a Arcipelago Gulag, avevano incrinato per sempre l'immagine dell'Unione Sovietica, patria di un comunismo che, da Lenin a Stalin fino a Breznev, continuava a uccidere, torturare, rendere schiavi milioni di concittadini. Gli unici a non accorgersene erano i partiti comunisti occidentali, pronti come fece quello italiano, sotto la direzione di Giorgio Napolitano, responsabile allora della sezione culturale, a definire “sempre più esasperate”, “aberranti”, “inaccettabili per dei comunisti” le posizioni di Solženicyn, appena arrestato e poi espulso dal suo paese (15).



Note                                            
1.Un quadro ampio e assai documentato della sorte degli scrittori sovietici è nel recentissimo saggio di Franco Celenza, Le menti prigioniere. Letteratura e dissenso nella Russia Sovietica. Morellini editore 2016.
2.Autobiografia in A.Solženicyn, Tutto il teatro, Roma, Newton Compton,1976, pp.7-10.
3.S.R., Presentazione in A. Solženicyn , Il mestiere dello scrittore, Milano,
Jaca Book , 1979, pp. 8-9.
4.E.Klein , Invito alla lettura di Solženicyn, Milano, Mursia, 1975, p. 39.
5.A. Solženicyn,  Il mestiere dello scrittore cit. , p. 25.
6.Ibidem , pp. 31-39.
7.Ibidem , p.73.
8.Ibidem , p. 96.
9.Il testo integrale è in A. Solženicyn , Il mio grido, Prato, Piano B , 2015, pp. 15-41.
10.E. Klein , op. cit., p.48.
11.Il testo integrale è in A. Solženicyn , Il mio grido cit., pp. 79-112.
12.A.Solženicyn , Arcipelago Gulag , Milano , Mondadori, 1974.
13.E. Klein , op. cit. , pp. 52-53.
14. A. Solženicyn , Vivere senza menzogna, Milano, Mondadori, 1974.
15.L'articolo di Giorgio Napolitano uscì su “ Rinascita”(22 febbraio 1974). Cfr.
16. F.Celenza , op. cit., p. 60.


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