UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

lunedì 30 settembre 2019

CONFLITTI D’INTERESSE
di Franco Astengo

Davide Casaleggio

La notizia riguarda la presenza di Davide Casaleggio nel Palazzo di Vetro dell’ONU a New York come relatore di un convegno sulla “cittadinanza digitale” organizzato dalla rappresentanza italiana presso le Nazioni Unite.
Molti commentatori hanno posto l’accento sul conflitto d’interessi che si sarebbe posto, in questo caso, tra la presenza del titolare della Casaleggio Associati ideatore della piattaforma Rousseau direttamente finanziata dai parlamentari 5 stelle 3 e l’esercizio di un ruolo all’interno di una iniziativa a quel livello organizzata direttamente dal governo italiano.
L’irrisolto conflitto d’interessi raccolto attorno a Silvio Berlusconi dominò per decenni la scena politica italiana ma questo caso che riguarda Casaleggio e il M5S è molto diverso.
Il caso della presenza di Casaleggio all’ONU pone però per intero la questione della concezione della politica e l’occupazione del potere ed è evidente l’importanza che assume l’aver permesso una ribalta di questo genere ad un imprenditore in conflitto d’interessi con la democrazia.
Appare evidente che sorti dal versante dell’antipolitica i 5 stelle si siano rapidamente convertiti ad una idea totalizzante del potere, esercitato con arroganza senza alcuna mediazione possibile, con grande disinvoltura sia rispetto alla politica delle alleanze sia rispetto all’esercizio della decisionalità all’interno del movimento oppure proiettata verso l’esterno (si ricorda il voto di ratifica della nuova formazione di governo con il PD).
A quanti a sinistra pensano al consolidamento di un “blocco politico” con il M5S anche a livello regionale e locale questo episodio della presenza di Casaleggio all’ONU e di esaltazione del conflitto d’interesse pone alcune questioni. Ciò che è avvenuto nell’agosto 2019 è apparso a prima vista catalogabile nella categoria dell’eterno trasformismo all’italiana.
Non bisogna però limitarci a quest’osservazione peraltro banale e scontata.
Alla categoria dell’antipolitica trasformata prima in governo e poi approdata alla “casta” infatti debbono essere dedicati alcuni maggiormente approfonditi punti di analisi. Da diversi anni, infatti, proclamata l’obsolescenza dei concetti di destra e sinistra, era stata imposta un’agenda di discussione limitata al “politica versus antipolitica”.
Erano così emersi in misura massiccia orientamenti dell'opinione pubblica di pressoché totale sfiducia nelle istituzioni, nel Parlamento e nel governo: in questo modo si erano aggregate in tempi rapidissimi vaste aree di consenso.
Era così emerso un fenomeno assolutamente inedito di volatilità elettorale almeno per quel che aveva fino a quel punto riguardato le vicende italiane.
Ricordiamo come si era determinato quel fenomeno della volatilità  elettorale: la politica e l'antipolitica apparivano fino a qualche anno fa due termini quasi complementari, di cui era difficile fornire una definizione.
A quel tempo nella vulgata allora corrente i due termini parevano appoggiarsi entrambi l'uno all'altro per sopravvivere nel gran circo mediatico: perché questo appariva essere il punto, quello delle visibilità nel gran calderone dell'immagine. All'altare dell'immagine furono sacrificati i principi di fondo sui quali si basava la politica, come concezione del governo della “res publica” nelle sue diverse forme. Forme diverse per ideologie e  schieramenti differenti: questo è stato lo schema definitivamente saltato con il “contratto” giallo verde e su questa base si realizzava l’indifferenza delle scelte elettorali.
Politica e antipolitica  potevano essere votate di volta in volta perché si trovavano rinchiuse assieme nel circuito dell’autoreferenzialità dell’autonomia del politico: un ulteriore passo in avanti nell’indebolimento complessivo del sistema nell’anticamera di una risoluzione autoritaria della crisi della democrazia occidentale. La formazione del governo PD- 5 stelle ha provvisoriamente (e apparentemente) allontanato il pericolo di un ulteriore scivolamento a destra, almeno per quel che riguarda il sistema politico italiano. Questa vicenda riguardante la presenza di Casaleggio all’ONU pone in evidenza come si sia di fronte ad un ulteriore passaggio della crisi del sistema basato sulla divisione dei poteri e sulla democrazia rappresentativa.
La sinistra nel determinare le proprie scelte tenga conto che siamo a una crisi più profonda di quanto anche i politologi più accorti stiano avvertendo: una crisi di prospettiva, di valori, di concezione del futuro non certo affrontabile attraverso la formazione di un governo purchessia.
Il tema da porre è sicuramente quello del rapporto tra utilizzo della tecnologia e rappresentatività politica. Un tema non risolvibile semplicisticamente attraverso la scorciatoia di una App come segno di una visione subalterna della modernità. Se si pensa a una sinistra coerente e determinata sarà necessario, usando il massimo possibile di pessimismo dell'intelligenza, cercare di muoverci sul terreno della ricerca senza farci ingannare da scadenze apparentemente più vicine e invitanti, ma in realtà illusorie.
Non fermiamoci alla logica del potere seguendo semplicisticamente una modernità priva di valori e di capacità di educazione collettiva.

IN MEMORIA DI EUGENIO GRANDINETTI
di Ennio Abate
Eugenio Grandinetti

Conobbi Eugenio Grandinetti nell’anno scolastico 1976-’77 all’Istituto Tecnico di Sesto S. Giovanni. Entrambi insegnanti di lettere, in quei mesi passati insieme colsi tre tratti fondamentali della sua personalità: la sua provenienza, come me, dal Sud (Calabria); le sue competenze eccezionali in educazione linguistica; l’essere compagno impegnato in una CGIL Scuola da poco nata e allargata anche agli “extraparlamentari”. Avemmo colloqui fruttuosi, ma circoscritti e sommari (mi confidò, tra l’altro, che non aveva mai fatto a botte in vita sua), perché ogni giorno assillati dai problemi della disorganizzata sezione staccata di quell’Istituto a Cinisello. Che dalla sua prima sede - addirittura un ordinario appartamento al primo piano di un condominio popolare in Via Monte Grappa riadattato alla meglio e suddiviso in classi-loculi - era stata appena trasferita in un nuovo edificio a più piani in Via Lincoln, dove si coabitava con una scuola professionale e un liceo scientifico in un clima di sospetti e diffidenze. Ogni poco succedevano episodi comici o drammatici, impensabili da chi avesse in mente la scuola prima del ‘68. Nel frattempo, fuori, per le strade di Milano e dell’hinterland, scorrevano ancora, di tanto in tanto, manifestazioni di operai; e, per questo o quel problema, qualche delegazione di insegnanti o studenti scendeva dalla metropolitana in Piazza Duomo per andare a protestare davanti al Provveditorato di Piazza Missori. L’anno dopo, il 1978, Eugenio ottenne il trasferimento a Milano (al Giorgi, mi pare). Non si ruppe il legame appena iniziato tra noi. Le occasioni d’incontro, però, non erano più tante né quotidiane. E soprattutto, proprio in quell’anno, il clima sociale e politico mutò di colpo. Quello che ancora chiamavamo gergalmente il movimento - un calderone nel quale, dopo l’esplosione inaspettata del ‘68-’69, malgrado la bomba a Piazza Fontana e la strategia della tensione, continuavano a ribollire i bisogni e le idee politiche di quegli anni, orientate qua in senso riformista là in senso rivoluzionario o reazionario - arrivò sfiancato e quasi da paralitico di fronte allo shock del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Chi, come Eugenio, pensava di «poter modificare l’organizzazione sociale attraverso la modificazione della scuola» o, come me, scommetteva sulla possibilità di una rivoluzione socialista/comunista differente dai modelli proposti da PCI e PSI o da quello stalinista sovietico, fu brutalmente ammutolito e spazzato via dalla scena politica a causa della militarizzazione del conflitto sociale imposta sia dai lottarmatisti che dallo Stato e dalla feroce stretta repressiva che ne seguì.



Di tanto in tanto prendevo il metrò da Cologno Monzese, dove abito dal ‘64, e andavo da Eugenio, in Via Meda 14, a Milano. A prendere un caffè e a chiacchierare con lui e Franca, sua moglie, anche lei insegnante ma di inglese. Per qualche ora i miei resoconti sulle peripezie scolastiche dei miei due primi figli o sul respiro sempre più affannoso della mia vita di periferia (ora che non potevo più fare politica assieme ad altri, essendo appena uscito dal fallimento di Avanguardia Operaia) s’intrecciavano con le notizie che lui e Franca mi davano sugli amici frequentati a Milano: i pittori Migneco e Occhipinti; Rosa, la vedova di Birolli; Franco Loi; Ruth Leiser Fortini, di cui Franca era amica (e seppi anche che la tesi di laurea di Eugenio sulla poesia di Galeazzo di Tarsia era stata letta dallo stesso Fortini), Aldo Giobbio, Totò, Giovanna. O di quelli che avevamo in comune (Gigi Lanza, Lidia Gavinelli, Carlo Oliva, Nuccia Pelazza). Raccontandoci delle vacanze estive - Eugenio e Franca le trascorrevano di solito in Inghilterra o a Belsito, che seppi essere il suo paese d’origine - spuntavano anche i ricordi delle nostre infanzie povere o storie bizzarre di parenti e conoscenti. Qualche volta, al margine delle conversazioni, parlammo anche delle poesie che scrivevamo. Lo facevamo entrambi da isolati e lontano dai cenacoli poetici attivi nella Milano d’allora. In primo piano c’era l’esperienza assorbente dell’insegnamento. Accanto a quella e alla militanza sindacale, comunque esterna ai partiti e ai “gruppi extraparlamentari”, dai quali si era tenuto alla larga, Eugenio continuava a coltivare assiduamente le sue passioni giovanili: scienze naturali e cultura umanistica. Aveva accantonato la poesia, pur continuando a scrivere versi, come ha ricordato nella Premessa a «La gabbia della luna» (youcanprint 2015). Oltre a queste visite saltuarie (ero sempre io che andavo da loro e mai il contrario), ci si vedeva a volte in sempre più rari incontri di insegnanti ormai ripiegatisi a trattare i “problemi della scuola” nei vecchi modi corporativi o dilaniati e reticenti nel giudizio sulla vicenda Moro. (Ne ricordo uno all’Umanitaria; e un altro alla Scuola per il Turismo del 17 maggio 1978 sul caso Granata, una insegnante vicina ad Autonomia Operaia, che si era rifiutata pubblicamente di condannare il rapimento di Moro). Per tutti gli anni Ottanta, in quei nostri tentativi occasionali e improvvisati di riflettere a caldo sulla cronaca convulsa e tragica di quegli anni, Eugenio era sicuramente poco o niente coinvolto dai discorsi “rivoluzionari”, che io invece avevo assorbito e messo in pratica nella militanza in Avanguardia Operaia dal ’68, come ho raccontato. Era distaccato e guardingo sia nel giudicare gli eventi sia nel dar troppa importanza alle discussioni teoriche sulla “crisi del marxismo”, della quale io affannosamente leggevo su il manifesto. E non mostrò molta curiosità verso i nuovi rapporti - con Giancarlo Majorino, Attilio Mangano, il gruppo milanese della rivista Primo Maggio e poi con lo stesso Fortini, che avvicinai per la prima volta, nel 1983, per presentare con me a Cologno, in un clima quasi catacombale per la repressione in corso del lottarmatismo, il libro Le nude cose. Lettere dallo “speciale”di Del Giudice, insegnante anche lui all’Itis di Sesto San Giovanni e finito in carcere “per partecipazione a banda armata” - che intessevo per orientarmi in una situazione scombussolata. Certo, era stata messa fuori gioco sia l’ipotesi rivoluzionaria di Avanguardia Operaia (la mia) sia la sua prospettiva riformistica. Ma era come se Eugenio pensasse e fosse preso da altro. E cosa poteva essere quest’altro? Qualcosa di lontano dalla cronaca, dalla politica e dalla storia da falsa guerra civile (Fortini) di quegli anni. Era l’attenzione di Eugenio verso la natura. Che in me, con il trasferimento a Milano da Salerno, s’era invece del tutto rattrappita. O che, nei miei ricordi giovanili del Sud, si presentava soprattutto come una ferita, una malattia (Salernitudine). Essa, invece, in Eugenio era amorosa e dotta allo stesso tempo. Sia - ritengo - grazie ai suoi ritorni costanti a Belsito e sia per la conoscenza scientifica della botanica e della zoologia, che a me era mancata. Me n’ero accorto con ammirazione sempre nel 1978, quando io e la mia moglie d’allora passammo le vacanze estive a Capo Vaticano assieme ad Eugenio, a Franca e ad altri loro amici. In alcune passeggiate osservai attentamente Eugenio. Era davvero a suo agio. Era nel suo ambiente. Capace non solo di dare il nome esatto a quelle “cose”, che riempivano il paesaggio e che io, un po’ vergognandomene, riuscivo a indicare solo con nomi generici (‘erbe’, ‘piante’), ma di descrivercene caratteristiche e usi medicinali. E con la stessa sicurezza conosceva la storia di quei paesi calabresi. O, con pacate parole, ci faceva percepire la sua vicinanza anche emotiva ai miti mediterranei, che il mare o il paesaggio circostante gli evocavano. Per Eugenio il “mondo classico”, che io avevo sfiorato e poco amato nei miei anni di liceale coatto a Salerno, non era distintivo scolastico da vantare ma esperienza interiorizzata e viva, di cui senza intoppi “moderni” nutriva la sua immaginazione di poeta. In più, aggiungo adesso, quei luoghi, e in particolare quei boschi, gli ricordavano - altra continuità - il legame felice con suo padre. 



Negli ultimi anni, dedicandosi quasi esclusivamente alla poesia, Eugenio ha recuperato una vocazione in lui ben radicata. Eppure non posso trascurare che il recupero è avvenuto sotto il segno di una delusione totale nei confronti della storia di emancipazione legata ai nomi del comunismo e della sinistra, al cui progetto egli pur aveva dato negli anni Settanta buona parte delle sue energie. E neppure tacere sul suo profondo scetticismo verso quei tentativi (miei o di altri) di fare gruppo, di ricostruire un noi (o un io-noi, come altrove ho scritto). Non credo di sbagliarmi se dico che li trovasse ormai sterili e, comunque, poco rispondenti alle sue esigenze e alla sua ben più radicata visione “naturalistica” della vita. E, pur scrivendo poesie a carattere civile o ideologico, per dimostrare innanzitutto a se stesso che non aveva rinunciato alla «visione utopistica di una società di uguali», ritengo che lo facesse senza più convinzione o, comunque, in modo contraddittorio con una spinta nichilista profonda al suo «disamorarsi d’essere». Un confronto tra la scelta della poesia e la scelta di fare gruppo fare rivista può parere antipatico. Eppure devo chiedermi e chiedere: erano o sono tentativi contigui e convergenti? oppure divaricati e tendenti a contrapporsi? Non ho la risposta. (Vorrei, però, che non mi si accusasse di rozzo schematismo. Non sostengo, cioè, che poesia=io=solipsismo (individualismo) =nichilismo. Né che fare rivista (o gruppo) =noi=comunismo=positività. Se non è meglio l’io solitario e poeta non è meglio neppure il noi comunitario o dei molti in poesia. Sono, infatti, convinto che solipsismo e nichilismo possono manifestarsi (ma anche essere evitati) sia dall’io che dal noi; sia scrivendo poesia e sia costruendo un gruppo o una rivista. Non, però, per una sorta di automatismo e cioè grazie alla poesia o grazie al fare gruppo, associazione o partito. E devo ammettere che il costante ripresentarsi nei gruppi o nelle riviste che dalla fine della militanza in Avanguardia Operaia ho cercato di fondare e animare (per ben tre decenni!) di attriti latenti o espliciti, di fughe o abbandoni spesso non chiari, ha quasi dato più ragione allo scetticismo di Eugenio che alla mia tenace scommessa. Tanto da arrivare a considerare seriamente l’ipotesi che questi miei tentativi siano condannati ad un epigonismo senza sbocco o che una cultura critica, oggi, in un mondo così alla rovescia rispetto a quello che volevamo costruire, è impossibile o possa sopravvivere stentatamente ai margini. Eppure non mi sento di credere (che di fede si tratta) che è nella poesia che si può salvare il salvabile, e che il salvabile sia l’utopia. Con Fortini resto all’idea che la poesia sia una promessa di felicità, ma la promessa non basta.
[Il testo completo di questo ricordo è disponibile su Poliscritture]





EDUCAZIONE CIVICA
di Fulvio Papi

Ho letto che verrà restaurato nella scuola l’insegnamento di “educazione civica”. Su questo argomento fiorirono testi importanti come quello di Norberto Bobbio e altri di rilievo più o meno importante. Il risvolto didattico fu un fallimento che probabilmente ha due ragioni fondamentali, gli insegnanti non sono per nulla preparati a insegnare l’educazione civica. Molti si limitavano a leggere con ovvi commenti alcune norme della suprema Legge dello Stato come se fosse un catechismo. Altri tentavano un minimo di sfondo storico che, tuttavia, era costituito da formule politiche troppo semplificate al punto da apparire burocratiche e prive di senso. Mi spiace che, in certe occasioni, vengano ripetute. Non so se siano arrivate delle disposizioni per questo insegnamento. Dall’esperienza e da una certa riflessione suggerirei di non allontanarsi troppo da tre linee fondamentali.
Mi pare molto importante formarsi su alcuni princìpi fondamentali della nostra Costituzione mettendoli in relazione di senso con le trasformazioni sociali che sono accadute in questi settanta anni. Che la Repubblica sia fondata sul lavoro (contemporaneamente sul dovere e sul diritto) si può ripetere, ma bisogna spiegare come si può ripetere e perché. E qui bisogna fare riferimento alle modificazioni radicali che sono intervenute nel lavoro e negli effetti sociali che esse hanno provocato. Quando fu discussa la Costituzione il lavoro agricolo era prevalentemente manuale, ora si avvale di diverse tecnologie che trasformano la stessa figura dell’agricoltore, sul lavoro e nella vita sociale. La Costituzione garantisce la libertà di stampa. Ma al tempo vi erano autorevoli giornali competitivi tra loro, e la libertà era la garanzia per ognuno di far valere le proprie opinioni. Oggi l’informazione (che diventa tout court formazione) è dominio delle televisioni e del potere della rete informatica. Il concetto stesso di libertà va almeno problematizzato e tolto da quella vaga intuizione metafisica che copre in realtà un autoritarismo di natura pubblicitaria. Questi temi mi paiono da insegnare. Poi mi pare fondamentale mostrare che i sistemi politici attuali hanno senz’altro le loro radici nella riflessione teorica intorno al comando delle città, dall’età di Pericle (governo per il popolo, non del popolo) sino all’impero macedone. Ci sono opere (quella di Vegetti su tutte) che facilitano questo lavoro a chiunque voglia farne oggetto di insegnamento. Perché la Costituzione garantisca una forma di potere politico piuttosto che altre si può leggere bene nelle pagine della storia greca e si può anche capire quando e perché possa entrare in crisi. E poi a questi ragazzi che molto spesso vogliono difendere l’ambiente naturale, si mobilitano contro l’invasione dei rifiuti, contro l’incoscienza dei loro concittadini, mostrano la virtù (un poco ideale) della solidarietà, fargli leggere un libro letteralmente perfetto, educativamente essenziale come Piccoli maestri di Meneghello. Queste sono indicazioni di massima. L’insegnante seguirà la sua strada, ma l’importante è che l’insegnamento di educazione civica non segua il destino disastroso ma ironico dell’insegnamento della filosofia. Se no è molto meglio, ma veramente molto meglio, ascoltare alla televisione gli Angela, padre e figlio che sono intelligenti, istruttivi, cordiali.

domenica 29 settembre 2019

IL FIATO PESANTE DEL DOLLARO
di Mario Lettieri* Paolo Raimondi**


Se persino un economista della banca americana Jp Morgan Chase, la più grande tra le «too big to fail» (troppo grosse per poter fallire ndr) ammette che l'era del dollaro come moneta degli scambi internazionali è arrivata al termine, vuol dire che qualcosa d'importante sta veramente cambiando nel sistema monetario mondiale. Il dollaro è stato la valuta di riserva dominante per quasi un secolo. Ma Craig Cohen, l'economista della citata banca, afferma che «il dollaro potrebbe perdere lo status di principale valuta internazionale».
Una causa non secondaria è il crescente potere delle economie asiatiche, in particolare quello della Cina e del Giappone. Oggi l'intera regione asiatica, che comprende anche la Russia, vanta più del 50% del pil mondiale. E, com'è noto, per i commerci interni di questa vasta area si fa sempre più spesso uso di monete locali. L'altra ragione sta nel gigantesco debito pubblico americano che ha raggiunto i 22 mila miliardi di dollari. Ciò, inevitabilmente, rende la valuta americana più vulnerabile e meno appetibile per gli investitori. La prova evidente è la corsa all'oro e la crescita del suo valore. La Russia e la Cina guidano quest'azione. Nei primi cinque mesi dell'anno hanno aumentato le loro riserve auree di ben 70 tonnellate.
Sembra che negli ultimi 10 anni la quota di oro nelle riserve russe sia quasi decuplicata. La Banca centrale di Mosca ne detiene 2190 tonnellate per un valore di circa 90 miliardi di dollari. Un quinto di tutte le riserve russe. Nel 2018 la Banca centrale russa ha dimezzato le riserve di dollari passando dal 45,8% al 22,7% del totale, sostituendoli con l'euro (passato dal 21,7% al 31,7%) e con lo yuan (salito dal 2,8% al 14,2% del totale)
La Cina da gennaio sta acquistando decine di tonnellate di oro il mese che in parte sono destinate a incrementare le riserve. La quantità totale di oro è di circa duemila tonnellate. Rimane ancora molto spazio, poiché l'oro rappresenterebbe solo il 3,5% del totale delle riserve cinesi. Comunque, la concentrazione di oro è ancora negli Usa. Vi sarebbero, infatti, circa 8.200 tonnellate, pari a oltre il 70% di tutte le riserve americane. Una simile percentuale vale anche per la Germania. In Italia l'oro, con circa 2.450 tonnellate, rappresenta il 66% di tutte le nostre riserve. Ma la tendenza a livello mondiale di rimpiazzare il dollaro, nella composizione delle riserve, con l'oro e con altre monete prosegue speditamente.
La progressiva perdita di affidabilità del «sistema dollaro» è testimoniata anche dalla presa di distanza di molti investitori istituzionali internazionali dai titoli di stato americani. In passato la Russia era ritenuta uno dei maggiori investitori in Treasury bond. Nel 2010 ne aveva 176 miliardi di dollari. Adesso la quota è scesa a 12 miliardi. La Cina, il principale detentore mondiale di Treasury bond, mese dopo mese ne vende per decine di miliardi di dollari. Negli ultimi due anni ha raggiunto il minimo storico, scendendo a 1.100 miliardi. Anche i più stretti alleati degli Usa incominciano ad avere dubbi circa l'attendibilità del sistema finanziario americano, tanto che persino la Gran Bretagna nel solo mese di aprile ha ridotto il portafoglio di obbligazioni americane di 16,3 miliardi di dollari. Il Giappone, che è il secondo creditore degli Usa, ha fatto lo stesso.
Secondo il ministero delle Finanze di Washington, la stessa disaffezione si starebbe manifestando anche nella borsa di Wall Street, dove nei passati 13 mesi gli investitori stranieri avrebbero venduto azioni di società americane, soprattutto dei settori high tech, per circa 215 miliardi di dollari.
Nonostante tutto ciò, Trump auspica una svalutazione del dollaro. Così, sostiene lui, si comprerebbero meno beni sui mercati mondiali e le esportazioni americane diventerebbero più competitive. In uno dei suoi recenti «messaggini» ha detto che «la Cina e l'Europa giocano con la grande manipolazione monetaria e immettono ingenti quantità di soldi freschi nei lori sistemi allo scopo di competere con gli Usa». Il presidente americano chiede, quindi, di stampare più dollari e con essi comprare altre monete, rendendo più conveniente per gli investitori stranieri cambiare le loro valute in dollari. Molti, anche negli Usa, gli hanno fatto notare che un dollaro svalutato non è la soluzione. È soltanto il percorso più sicuro per far aumentare i prezzi all'interno del paese, poiché le importazioni Usa sono in gran parte prodotti semilavorati che entrano nei processi produttivi nazionali. Ma Trump non ci sente. Se oltre alla guerra dei dazi si dovesse rischiare anche una guerra delle valute, la stabilità economica mondiale potrebbe essere messa pericolosamente a rischio e con essa, naturalmente, anche il ruolo del dollaro.

*Già sottosegretario all'Economia
**Economista.

GUERRA E PACE

12 Stati aderiscono al TPAN in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione totale delle armi nucleari
In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione totale delle armi nucleari, il 26 settembre, 12 Stati hanno compiuto un altro passo significativo verso il raggiungimento di questo obiettivo, firmando o ratificando il Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari, durante una speciale cerimonia ad alto livello tenutasi presso la sede dell’ONU a New York.
Le cinque nazioni che hanno ratificato il trattato durante la cerimonia sono:
Bangladesh
Kiribati
Laos
Maldive
Trinidad & Tobago
A questi Stati si aggiunge anche l’Ecuador, che è diventato il 27° Stato a ratificare il trattato il 25 settembre, un giorno prima della cerimonia. I seguenti Stati hanno firmato il trattato: Botswana, Dominica, Grenada, Lesotho, St. Kitts e Nevis, Tanzania e Zambia, così come le Maldive e Trinidad e Tobago (che hanno firmato e ratificato il trattato durante la cerimonia). Il trattato ha ora 79 firmatari e 32 Stati parti. Con la firma, uno Stato si impegna a non intraprendere alcuna azione che possa minare l’oggetto e lo scopo del trattato. Al momento del deposito del suo strumento di ratifica, accettazione, approvazione o adesione, uno Stato diventa legalmente vincolato dai termini del trattato. Il trattato entrerà in vigore quando arriverà a 50 Stati parti, rendendo le armi nucleari illegali ai sensi del diritto internazionale. La cerimonia è stata ospitata da sostenitori di lunga data del trattato - Austria, Brasile, Brasile, Costa Rica, Indonesia, Irlanda, Messico, Nuova Zelanda, Nigeria, Sudafrica e Tailandia - e ha permesso ai presidenti e ai ministri degli esteri di compiere questo importante passo mentre erano riuniti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il neoeletto presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il nigeriano Tijjani Muhammad-Bande, ha aperto la cerimonia e si è espresso con passione a sostegno dell’importanza del trattato. “Ci congratuliamo con gli Stati che hanno aderito al TPAN ed esortiamo coloro che non l’hanno ancora fatto a partecipare a questa importantissima azione”, ha detto durante il suo discorso alla plenaria dell’Assemblea Generale all’inizio della giornata. Beatrice Fihn, direttore esecutivo di ICAN, ha celebrato la decisione di questi 12 paesi e l’esplicito sostegno al trattato in tutto il mondo.  “Lontano dalla maggior parte delle telecamere, ci riuniamo per fare il vero lavoro per il disarmo nucleare. Per il bene del vostro popolo e per il bene del mondo spingete il trattato verso l’entrata in vigore […] Oggi, in questa sala, sento la bilancia che si inclina verso l’eliminazione delle armi nucleari. Questa giornata d’azione ci fa sperare tutti in un momento cupo”. Il trattato ha già compiuto quasi due terzi della strada per arrivare alla sua entrata in vigore e ci si aspetta che questo slancio continui. Diversi paesi hanno confermato ad ICAN che le loro ratifiche sono imminenti e gli attivisti in tutto il mondo non si fermeranno finché ogni paese non avrà aderito.                                          [Traduzione dall’inglese di Anna Polo]


LETTERA APERTA A GRETA THUNBERG
di Mao Valpiana


Cara Greta, come milioni di altri adulti, mi sento interpellato dalle tue parole. La tua azione ha rimesso in moto un vasto movimento che attendeva l'occasione per mettere sotto i riflettori il tema dei cambiamenti climatici, decisivo per il futuro dell'umanità. Il tuo sciopero Fridays for Future è stato la scintilla che ha acceso il fuoco; la legna da ardere era già pronta. Siamo in tantissimi a chiederci, e non da oggi, cosa possiamo fare. Ora sappiamo che non c'è più tempo e che forse finalmente ci sono le condizioni per cambiare. Il lavoro per invertire direzione è enorme. Ma non ci sono alternative. Per questo non serve dividerci in un noi (i presunti buoni) e un loro (i presunti cattivi), da una parte le vittime (innocenti?) dall'altra i carnefici (malvagi?). Siamo tutti coinvolti. Le cose, purtroppo, sono molto più complesse. Come quando c'è un incendio da spegnere: non serve cercare e incolpare il piromane, bisogna darsi da fare a buttare acqua e soffocare i nuovi focolai. Una volta messo in sicurezza il clima, potremo anche dedicarci ad individuare le cause profonde della malattia, che risalgono all'inizio dell'industrializzazione avvenuta nei secoli scorsi, ad un tipo di sviluppo energivoro, basato su fonti energetiche fossili, che non era sostenibile. Molti l'avevano già capito e denunciato. Il Mahatma Gandhi, già nel 1909, più di un secolo fa, nel suo libro Hind Swaraj, Vi spiego i mali della civiltà moderna, condannava lo sviluppo lineare e metteva la globalizzazione sul banco degli imputati. C'è quindi bisogno di una grande alleanza per affrontare l'emergenza, governi e cittadini insieme. I politici al potere, nelle democrazie, sono lo specchio di quel che esprime la società. Siamo tutti inquinatori e siamo tutti inquinati. Ognuno, dunque, deve fare la propria parte, e saranno poi le grandi scelte della politica (sul commercio mondiale, le fonti energetiche, i sistemi di trasporto, lo sviluppo delle città, le migrazioni, l'agricoltura, l'industria, ecc.) a determinare il prossimo futuro. C'è bisogno di un'alleanza tra scienziati, politici, industriali, agricoltori, cittadini, lavoratori, studenti, consumatori, tutti insieme, perché tutti siamo partecipi al problema e quindi alla soluzione. Soprattutto noi, che viviamo nella parte ricca del globo, abbiamo una responsabilità in più rispetto alle masse dei poveri che faticano ad accedere ai servizi essenziali. Non sarà facile accordarsi sulle soluzioni, perché prevalgono gli egoismi di parte. Ognuno vorrebbe che a cambiare per primi fossero gli altri. Le calotte polari, che hanno iniziato a sciogliersi, non attenderanno però i nostri tempi politici. Dobbiamo trovare il modo, subito, per rendere possibile la necessaria conversione ecologica. Dobbiamo dimostrare con i fatti che consumando meno (meno Co2 in atmosfera) si vive meglio e si è più felici. Solo quando un comportamento virtuoso diventerà conveniente, allora potrà trasformarsi in scelta politica valida per tutti, su larga scala. In questa battaglia planetaria non ci saranno vinti e vincitori. O tutti vinti, o tutti vincitori. Ci vuole per questo un patto intergenerazionale. Se coloro che nasceranno domani hanno diritto ad un ambiente sano e vivibile, chi oggi è già nato e consuma risorse non rinnovabili, deve potersi riscattare. La grande campagna necessaria, prioritaria su tutto, è quella per il disarmo climatico. Come umanità, con tutte le generazioni viventi, dobbiamo dichiarare pace con la natura e riporre le armi che hanno ferito il pianeta.  Il vasto movimento che si è messo in moto, di cui tu sei una delle espressioni, può fare molto: una campagna contro le spese militari globali, per dirottare gli investimenti dal settore militare e bellico verso quello della ricerca per le nuove fonti energetiche e per la pulizia degli oceani inquinati dalle plastiche. È l'unica guerra che vale la pena di combattere. Le altre vanno disertate. L'opinione pubblica è una potenza che può spostare gli equilibri politici. La più grande forza che abbiamo è quella della nonviolenza. Siamo tutti sulla stessa barca che si chiama pianeta Terra. Grazie per quello che fai.
*Presidente del Movimento Nonviolento Italiano

Città e Campagna

Edoardo Salzano

Si è spento a Venezia Edoardo Salzano, per tutti Eddy, urbanista, studioso della «città bene comune» e di politica che ha formato decine di urbanisti e intellettuali. Lo ricordiamo con questo suo scritto.

La città è, al tempo stesso, il luogo che l’uomo ha inventato e costruito quando ha avuto bisogno di organizzare la sua vita attorno a spazi, servizi e funzioni comuni e, al tempo stesso, il modo che l’uomo ha utilizzato per costruire il proprio habitat nell’ambito dello spazio naturale. Per una lunghissima fase della storia dell’umanità l’urbano (caratterizzato dall’artificialità fisica, dalla ricchezza dei rapporti interpersonali e della vita sociale) è restato racchiuso nella cerchia delle mura urbane e delle sue immediate adiacenze, utilizzando il resto del territorio pressoché unicamente come supporto delle vie di comunicazione, esili dapprima, poi via via più massicce e intense. Nei secoli a noi più vicini l’organizzazione urbana (l’habitat dell’uomo) si è esteso via via all’intero territorio: non solo artificializzandone parti sempre più estese, ma soprattutto inserendo la massima parte delle sue componenti ai ritmi, ai modi di fruizione e di trasformazione, ai valori propri delle funzioni urbane.
Oggi il territorio rurale non è considerato, valutato e trattato in relazione alle sue qualità proprie, ma alla sua capacità di entrare nel ciclo delle utilizzazioni (e dei valori economici) urbani. È un “suolo in attesa di urbanizzazione”. Se è un terreno agricolo il suo proprietario aspetta il momento nel quale la vanga che lo aprirà non sarà più finalizzata alla messa a dimora di una vigna o di un platano, ma alla realizzazione delle fondazioni di un edificio. Un bosco non avrà nel suo destino quello di essere governato per il patrimonio di beni naturali che costituisce ma, nel migliore dei casi, come estensione del parco urbano, nella peggiore come luogo da distruggere per riempire il sito di ville e villette. Una spiaggia svolgerà il suo ruolo come sede di una serie di stabilimenti balneare, e magari di piscine, alberghi, casette di vacanza.
Connesso a questa trasformazione (culturale, economica, fisica) vi è un altro fenomeno, che incide direttamente sulla vita dell’uomo. L’alimentazione non è più il consumo di merci prodotte a distanza ravvicinata, da un suolo nutrito dalla stessa storia che ha prodotto quella città e dalla stessa cultura che ne ha foggiato gli abitanti, dallo stesso sole e dalla stessa aria, dal ciclo delle stesse stagioni, ma è sempre più prodotta altrove, lontano, là dove le regole dell’economia capitalistica trovano maggiore convenienza.
Le rivendicazioni che nascono dalla società civile costituiscono una critica al modo in cui si è trasformato il rapporto tra città e campagna, tra territorio urbano e territorio rurale, e una pressante richiesta di ricostituire un equilibrio (meglio, di costituire un nuovo equilibrio) tra i due termini. Il modello di città la cui domanda nasce da quella critica deve consentire la vicinanza, alle varie scale (di paese e quartiere, di città, di area vasta, di regione, etc.), tra l’urbanizzato (prevalentemente artificializzato) e il rurale (prevalentemente naturale). Deve consentire un’alimentazione sana e una filiera corta tra la produzione e il consumo, aria pulita, luce e sole, libera fruizione di spazi di ricreazione e distensione, di bellezza, di storia, d’identità.
Ma è la stessa localizzazione delle eventuali nuove aree da urbanizzare, là dove ciò si dimostri essenziale ed irrinunciabile, che deve tener conto di un corretto rapporto con la natura. La terra libera, integrata nel ciclo biologico del pianeta, è di per sé un valore. È una perdita per la qualità complessiva della vita dell’umanità sacrificarne una porzione; quindi ciò va evitato per quanto possibile (ove non lo sia in vista di altri e superiori valori), e va compensato con equivalenti restituzioni di naturalità.

PAVIA. SOCRATE AL CAFFÈ
Con Federico Focher

La Locandina dell'incontro


IN DIFESA DELL’ARIA


Carissimi,
Le città producono oltre il 70% della Co2 a livello mondiale. Peso che, in grandissima parte, si riconduce alle emissioni del trasporto.
Le stesse emissioni rappresentano un peso inaccettabile per la salute nostra e quella dei più piccoli e vulnerabili.
Per ricordare l’importanza di questo tema per la nostra città cerchiamo 594 comparse volontarie per il flash mob di martedì 1° ottobre.
Chi lo desiderasse inoltri ai suoi contatti la mail e chi avesse voglia di partecipare scriva a comunicazione@cittadiniperlaria.org
Grazie.
Anna Gerometta
comitatocambiamenticlimatici@googlegroups.com 

IL PENSIERO DEL GIORNO


Il Mediterraneo, oggi, non è più solo il mare in mezzo
alle terre, ma anche la tomba di chi fugge dalle guerre”.
Nicolino Longo


L’AFORISMA



"Non c’è gesto più vile di chi toglie speranza ad un disperato".
Laura Margherita Volante

ALLA BIBLIOTECA AMBROSIANA
Con Pippo Puma


La locandina dell'incontro


La Poesia
I REMEMBER
di Wilma Minotti Cerini


Ti ho portato sul Monte Stella
un bosco di piante verdi
e noi seduti sopra montagne di macerie
memori di vite squassate, forse di trilli
svaniti di bimbi.

Un rumore sordo sopra Milano
sziiiii sziiiii sziiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii
una pattuglia di aerei bombardano.

Nelle cantine occhi impauriti
al sibilo della bomba cadente,
preghiere ammutolite, case tremanti,
la bomba più in là
domani macerie fumanti, vite distrutte.

Io e te con le nostre storie,
silenziosi, ognuno col proprio “remember”:
Tu, Edel
אצילי ragazzo ebreo di New York
scavavi nel dramma della tua gente,
io cercavo tra i volti perduti della Resistenza
quello di mio padre.

Poi tu iniziasti un canto liberatorio
gioioso, ed io sulle orme delle tue parole,
cantai con te: alle macerie, agli alberi,
all’erba sulla quale stavamo seduti,
alla nostra giovane età:

Hava nagila
Hava nagila
Hava nagila ve nis'mecha
  
Hava neranenah
Hava neranenah
Hava neranenah ve nis'mecha
  
Uru, uru achim!
Uru achim b'lev sameach
Uru achim, uru achim!
B'lev sameach

Se vieni a New York chiamami
ti scrivo il mio indirizzo.

Non ci venni mai, ma sempre nel ricordo.




Concorso nazionale.
Il fumetto dice No alla mafia


Cari amici, sono Pino Cassata e presiedo l’Associazione Peppino Impastato e Adriana Castelli Milano, è proseguendo l’impegno che da anni ci contraddistingue all’interno del mondo della scuola, attraverso progetti di formazione e di diffusione della cultura della legalità, basata sulla conoscenza della storia del nostro Paese, attraverso il racconto facilitato da uno strumento come il fumetto, abbiamo a fine estate indetto con l’avallo del Miur nazionale il concorso dal titolo “Il fumetto dice No alla mafia”.
Questa prima edizione l’abbiamo voluta dedicare al giovane chirurgo Attilio Manca "suicidato" nel 2004 per avere, molto probabilmente, scoperto la rete di protezione del latitante e capo mafia Bernardo Provenzano.
Il Bando di concorso proposto è stato realizzato in collaborazione con la Direzione Scolastica dell’Istituto Comprensivo Monte Amiata di Rozzano (MI) ed ha ricevuto in questi giorni il patrocinio di diversi comuni, l’adesione di importanti Istituti Scolastici, come pure il sostegno e l’adesione di numerose associazioni a  livello nazionale.
La partecipazione al Concorso è a titolo gratuito ed è rivolto a tutti i livelli scolastici, dalla materna alla università ed a tutte le forme di aggregazione del mondo giovanile.
Gli elaborati che parteciperanno al concorso saranno valutati da una apposita Giuria Qualificata di cui fanno parte:  magistrati, forze dell’ordine impegnate nel contrasto al sistema criminale, testimoni giustizia, familiari di vittime di mafia, giornalisti, fumettisti, insegnanti e bibliotecari, e persone del mondo dell’arte dello spettacolo.
Il Bando del concorso è stato pubblicato sul sito del MIUR nazionale al seguente link:

Poiché siamo convinti che in questi casi valga assai più il passa-parola vi invito a prendere visione di tale iniziativa ed a diffonderla tra i vostri contatti nel mondo della scuola e delle comunità di aggregazione dei giovani, (centro di aggregazione giovanili, dopo scuola, parrocchia, scout, ecc ..) al fine fi favorire la più ampia partecipazione.

Il Bando è inoltre disponibile in un apposito spazio del nostro sito:

La pagina social della nostra associazione è:

Mi permetto di allegare inoltre i files: "Iniziative pregresse" che consente di prendere visione delle molteplici iniziative sviluppate nel territorio, e "Collaborazioni" che riporta lo stato delle adesioni a pochi giorni dal lancio del concorso.
Ulteriori  informazioni su Attilio Manca, al quale è dedicato il Concorso Nazionale, sono rintracciabili al link:  
Vi ringrazio anticipatamente
Pino Cassata
A nome dell’Associazione di volontariato
Peppino Impastato e Adriana Castelli Milano
338.3140093





La Poesia
Io Catullo canto Saffo 


Di bellezza il tuo seno
ha l'ombra di Calipso
nell'ora  chiara
dei tuoi occhi di Venere.

Mi dormo per esistenza
e cedendo alla tua voce
di senso ho le mani
sul tuo corpo di vento.

Di amarmi non ti chiedo
ma di possedermi
ti domando il vizio che virtù
nasconde tra canti di dei.

Sei labbra tra le mie labbra
mentre ti circondo l'anima
prigioniera senza tempo
nel mio spazio di isola
con schegge di mare
e respiri di brughiere.

Di bellezze non voglio vivere
ma morire di bellezza
ha l'eternità di possibili
ritorni ceduti alla mia bocca
sulla tua bocca
per un infinito di profezie.

Di sirene e di Ulisse
porto echi
di vento sui tagli
del mio viso
che ha eredità
di tempo nel silenzio
del bosco.

Ho consumato gli anni
per amori di specchi nella trincea
delle maschere.

Ho più rose che farfalle
tra le dita del viaggio
per una pazienza di porto.

Pierfranco Bruni 

mercoledì 25 settembre 2019

UNA PASSEGGIATA PER DON EGIDIO VERGANI
Gli sarà intitolata sabato a Milano in zona Precotto



martedì 24 settembre 2019

ROSMINI
di Fulvio Papi
Antonio Rosmini

Ho letto nella rivista Rosminiana “Charitas” del Centro Studi Filosofici Rosminiani di Stresa la ripresa di un articolo dalla rivista “Il Carabiniere” nel quale si racconta ai lettori la tesi che ritiene possibile l’avvelenamento di Rosmini nell’ultimo anno della sua vita. Confesso che la notizia mi ha sbalordito, sia in se stessa, sia in quanto “fatto” ripreso da due diverse riviste così lontane tra loro quanto al loro senso.
Certamente la morte, quale che sia, di un filosofo, di un teologo o di uno scrittore non altera per nulla il suo valore come contributo all’intelligenza collettiva. La notizia può invece destare un certo interesse dal punto di vista della verità storica e del suo senso, che può essere politico, culturale, religioso o semplicemente frutto malvagio di una patologia familiare o individuale.
Nel caso di Rosmini, data la statura intellettuale della sua figura, il peso della sua opera nella cultura italiana e, suppongo, le interpretazioni possibili, la notizia di una morte non naturale apre legittimi interrogativi.
In ogni caso la breve nota di “Charitas” così prosegue: “Si tratta di un aspetto dai contorni poco chiari dai quali emerge la possibilità reale di tale avvelenamento, ma lascia senza risposta circa chi sia stato il mandante. A volere la morte di Rosmini poterono essere non pochi.” Lo scritto individua almeno quattro piste sulle quali indagare: quella politica (governo austriaco), religiosa (missione diplomatica “fondamentalista”), familiare (dissidi interni), l’araldica (parenti svantaggiati da quella relazione politicamente invisa all’impero). L’articolo termina dicendo che nel “giallo” mancano le ultime pagine.
Non ho proprio per niente una cultura storica tale da inoltrarmi in qualsiasi ipotesi. Mi pare tuttavia che il luogo dove viveva Rosmini gli ultimi anni della sua vita (il collegio di Stresa) fosse il meno adatto per un assassinio che non fosse più che ben organizzato, come quello di un solitario fanatico.
Tuttavia cercare di venire in chiaro potrebbe essere interessante, non per la sua opera teologico-metafisica, ma per il modo sociale in cui veniva percepita la sua personalità, in un contesto politico, familiare e religioso. Per quanto mi riguarda e per il poco che ho studiato le opere del Prof. Ottonello, credo di poter dire che dal punto di vista filosofico (teoretico) Rosmini richiama un Hegel rovesciato: laddove nel pensatore tedesco c’è un’unità immanente che si svolge nel tempo, in Rosmini vi è un’unità trascendente che fonda le figure culturali fondamentali: la conoscenza, la morale, il diritto, l’economia. Ma sono intuizioni che richiederebbero un’ampia ricerca.

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