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venerdì 3 maggio 2013


QUARTIERE LATINO
di Giorgio Colombo


CEZANNE. I TRE INSEPARABILI
Claude (Cezanne), Sandoz (Zola), Dubuche (Baille), “i tre inseparabili… si erano legati subito e per sempre, spinti da segrete affinità, il tormento ancora vago d’una comune ambizione”, scorrazzavano in gite  anche di parecchi giorni, “fughe dal mondo, istintivo abbandono al seno della buona natura… Claude si portava già  dietro… un album  dove disegnava scorci di paesaggio, mentre Sandoz aveva sempre in tasca il libro d’un poeta… In quella provincia arretrata,  nel cuore della torpida stupidità, erano vissuti dai quattordici anni , così, isolati, entusiasti, divorati dalla febbre della letteratura e dell’arte”. I tre giovani corrono per la campagna provenzale, nuotano nei fiumi, compongono versi, sognano destini gloriosi, recitano brani di Hugo e de Musset. (E. Zola, L’œuvre 1886).                                                                                              Sono passati trent’anni quando Zola, autore di successo, scrive, voltandosi indietro, della sua adolescenza insofferente nell’assolato meridione, della sua stretta amicizia con un coetaneo bizzarro, predominante, Paul Cezanne, già pittore. Questi, inquieto nella sua produzione giovanile, “con la brutalità dei  timidi”, recalcitrante compagno degli “Impressionisti” a Parigi, dalla fine degli anni ’80 alla morte, nell’ottobre del 1906, vive e dipinge nelle terre della sua infanzia “in una reclusione ostinata” (G.  Geffroy), con la rara visita di qualche ammiratore. La sua pittura della maturità, contrariamente alle sue prove giovanili, viene lentamente, poco per volta considerata base fondamentale delle innovazioni del ‘900.                                                     Spero che si ricavi da queste poche righe la vicinanza di questo ‘caso’ Cezanne con quelli di Morandi e di Opalka, dei quali mi sono occupato nei numeri precedenti di “Odissea”: la forte spinta pulsionale, la varietà delle strategie di difesa etero e auto-dirette, lo spostamento su immagini accettabili, vibranti, forti della pressione inconscia. L’espressione artistica, lo stile che ne risulta si divide in due periodi diversi: il primo rozzo, esagerato, romantico, il secondo raffinato, controllato, classico. Su questo secondo si è più spesso  concentrata, in positivo, la riflessione: la complessità della percezione visiva, la sua inusuale attenzione orchestrale, l’equilibrio delle forme (v. M. Denis o  R. Fry o L.Venturi). Dualità che andrebbe connessa a due diverse strategie difensive, una estroflessa, aggressiva, scoperta, l’altra introflessa, riflessiva, nascosta. In entrambe lo sforzo paga un prezzo nella quotidianità: i tic, le paure, la solitudine scontrosa.                                                                                                              Il suo aspetto di trentenne, scosso da un tremito nervoso, barbuto, un cappello malandato di feltro a coprirgli la pelata, è trasandato. Sotto un cappotto troppo grande, macchiato dalle strisce verdognole della pioggia, dai pantaloni troppo corti e gli stivali spuntano le calze blu. Al café Guérbois, dove s’incontra con i suoi amici pittori, sospettoso, parla poco, lo distingue l’accento meridionale; si allontana dal suo angolo prescelto, indispettito da un argomento che non gradisce. Conosce gli scrittori latini, recita a memoria Baudelaire, ama Flaubert e Wagner (M.L. Krumrine,“Cezanne The Earky Years”, London 1988).                                                                                                           “…Ci si rivelò immediatamente a tutti [Monet, Rodin, Mirbeau, Clemenceau] come un personaggio singolare, timido e violento, straordinariamente emotivo…” [A proposito di Clemenceau, avrebbe detto] “È che son troppo  debole… E Clemenceau non mi potrebbe proteggere!… Non c’è  che la Chiesa che mi  possa  proteggere” (G. Geffroy).                                         Pochi riferimenti cronologici. Paul Cezanne nasce a Aix nel 1839 da padre benestante e autoritario. Iscritto come interno al collegio Bourbon, dove riceve una solida educazione umanistica, si lega con profonda amicizia ai compagni Emile Zola e Baptinstin Baille. Superata l’opposizione del padre, si dedica alla pittura e nel 1861 si reca a Parigi, dove si iscrive ad una scuola privata, l’Académie Suisse. Rifiutato all’École des Beaux-Arts, dopo un breve rientro ad Aix, ritorna a Parigi, dove frequenta Pissarro, Bazille, Renoir, Monet e Zola, che difende il “Déjeuner sur l’herbe” di Manet, esposto con scandalo al Salon des Refusés. I suoi quadri sono regolarmente inviati e rifiutati ai Salons per sei anni di seguito, dal ’64 al ’69. Durante la guerra del 1870 si rifugia in un piccolo villaggio del sud, l’Estaque, vicino a Marsiglia. Di nuovo a Parigi con la compagna Hortense Fiquet, gli nasce nel 1872 il figlio Paul. A Pontoise dipinge con Pissarro ‘sur le motif ’. Ha 33 anni, è il momento della svolta.                                                                                          I suoi dipinti del primo periodo, gli anni Sessanta, presentano una ossessiva  insistenza sulle figure del gruppo famigliare e la violenza sessuale. Il trio che  si ripete in queste opere, il maschio all’attacco, la femmina seduttrice-vittima e l’osservatore, si ritrovano nei primi romanzi di Zola. Nel dipinto “La tentazione di S. Antonio” (un accenno a Flaubert), il santo, alla sinistra, è tentato non dai demoni, ma da quattro nudi femminili: tre sensuali e seduttivi, ma il quarto, accanto al fuoco, androgino e in posa melanconica. Un aspetto che alcuni critici (v. The Earky Years cit.) hanno ravvisato nel giovane Zola, ma pure in una ambiguità dello stesso Cezanne tra la separatezza del monaco,  l’attrazione del nudo femminile e l’inserzione del fuoco ermafrodito. Il  successivo “Déjeuner surl’herbe”, titolo ironico da Manet, è un indovinello. Il soggetto seduto sul prato (Cezanne), bruno e stempiato accanto alla tavola, punta con il dito alla figura bionda di fronte, un giovane dall’aspetto femminile, il suo ‘doppio’, e alla donna in piedi con un frutto in mano, la tentazione di Eva. È con lei che si allontana alla sinistra della scena. La donna a destra, simile alla sorella, è la temperanza. Una duplicità che ritorna sino a “Jouers de cartes. In seguito, invece di comparire come partecipe dell’evento, Cezanne si ritrae come osservatore. Ne “L’Eternel Féminin nelle vesti del pittore che dipinge il grande nudo sotto un monumentale baldacchino, un anticipo degli ultimi ‘Mont de S. Victoire’. Nella “Une moderne Olympia”, più che a Manet pare vicino, per sua stessa ammissione, al Frenhofer del “Chef-d’oeuvre inconnu” di Balzac, una infinita “moltitude de lignes bizzarres.                                                                                                            La forza della pulsione erotica si ricava da altri soggetti dello stesso periodo: ‘L’Orgia’, ‘Satiri e Ninfe Il ratto’, La toeletta funebre’, Assassinio’, La donna strangolata’, ‘Bagnanti’, Pomeriggio a Napoli (con servo negro). La materia pittorica spessa, schiacciata con veemenza dalla spatola, ne accentua il furore. Frequenti anche i ritratti dei famigliari, di sé e degli amici più stretti, il cerchio di protezione. L’interrogazione allo specchio, l’autoritratto, chi? quasi sorpreso da un incontro inaspettato, lo accompagnerà sempre. Il tema della natura morta è ancora incerto. Quelle col teschio non richiedono commento. ‘La pendule noire’, appartenuto a Zola, è  un elogio dell’amicizia, della sua permanenza -l’orologio manca delle lancette , della vivacità d’affetti- la conchiglia mossa con i suoi  labbroni. Amicizia che s’interrompe con la pubblicazione de ‘L’œvre citata. Claude, il pittore protagonista, tenta invano una congiunzione tra il potere dell’immagine artificiale e la pulsione erotica, tra il nudo provocante dipinto e la modella e moglie Christine. L’impossibile ‘vita’ dell’una, dell’immagine, dovrebbe crescere sull’annullamento, altrettanto impossibile, dell’altra. La doppia impossibilità spinge Claude al suicidio. Cezanne, riconoscendosi in Claude, rompe l’amicizia con Zola. Per entrambi è la fine di un’adolescenza prolungata.                                                                         Dicevo della svolta del ’72. Cezanne guarda all’ “umile e colossale” Pissarro. Non c’è nero nell’ombra, non c’è contorno negli oggetti, negli alberi, nelle rocce. Dappertutto, anche sul viso, nelle mani, brilla la luce del cielo. Nel ’74 espone con gli “Impressionisti”, ma non ne condivide la felicità del plain air. La passione non si placa esaltandola, ma spegnendola nello spessore della immobilità, spandendola ovunque, rendendo di  sasso il viso (povera madame Cezanne ferma, in posa per ore!) e trasparente la roccia. Lo spazio diventa una vibrazione, “una transizione” di toni, il pennello  scorre in obliquo, cogliendo i punti della tensione e ritornando  a cancellare, a svuotare e riprendere. Le “piccole sensazioni” coloranti tastano “il motivo”. La tela sul cavalletto, il  lavoro è lento e faticoso. Disegno e colore sono la stessa cosa, “ogni oggetto partecipa dell’oggetto vicino”. Il pittore si ferma, guarda intorno pensieroso, valuta i rapporti e all’improvviso ritorna sulla tela (Emile Bernard). I due sessi, schizzati alla brava, nessun particolare anatomico, non combattono più. Addio “Lutte d’Amour”. Leggeri, tra alberi e acque, da una parte la femmina, le bagnanti, dall’altra il maschio, i bagnanti. Gli oggetti, le figure, i profili si richiamano, il sentiero sprofonda nel verde, il fondo si ribalta in primo piano, le nuvole in rocce, le rocce in corpi, lo spesso in leggero e viceversa. La geologia onnicomprensiva del paesaggio e delle case non prevede l’individualità, tanto meno l’uomo. Un silenzio, un brusio ad orecchio attento avvolge il mondo. C’è qualcosa sotto. Resiste appena il profilo della Sainte-Victoire, quante volte interrogata nell’ultimo anno, protettiva, materna. Strati sempre più sottili, memorie, percorrono il vuoto, un vuoto inquieto quanto un pieno, un tacere che sostituisce il sopratono di gioventù. Qualche segno di matita, qualche tocco d’acquerello. Cezanne forse alla terza tappa. Un soffio. Ceneri leggere, profumate, filtri del sottosuolo, di un vulcano non mai spento. Un temporale gelido di ottobre 1906 gli fermò il respiro e la mano sino  all’ultimo attenta all’ocra e all’azzurro del capanno nel bosco, le cabanon de Jourdan.