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venerdì 30 agosto 2013

ECONOMIA: IL DOMINIO DELLA CHIACCHIERA

di Fulvio Papi

Lo scrivente (sembra una parola quasi burocratica ma si può leggere in uno splendido poemetto*) è quasi certo di conquistarsi il posto che spetta a uno degli ultimi discendenti dell’antica famiglia europea, ma è certo che le attuali condizioni della comunicazione provocano di fatto una selezione del mondo (come insieme di fatti) dove ogni cosa appartiene alla medesima superficie -un capolavoro dell’uguaglianza- attenta a quello che è sotto il naso con una invincibile abolizione della temporalità e una diffusione di credenze e di immaginazioni poi non lontanissime per il loro senso da quello che, in un’altra cultura, nella seconda metà del ’600, facevano ritenere -almeno al popolo minuto di Londra- testimone Defoe- che le comete annunciassero incendi devastanti e non meno, anzi più, devastanti diffusioni della peste.

Scultura di Brenno Pesci
Se le cose stanno così non c’è da meravigliarsi che avesse ragione l’ormai vecchio Heidegger (quanti torti e quante ragioni) quando vedeva nell’inevitabile esperienza quotidiana il dominio della chiacchiera. La chiacchiera, in una orchestrazione che nella Selva Nera negli anni Venti non era immaginabile, ha questo di caratteristico che è la stessa forma che assume il mondo, tanto grande è il suo potere. Un mondo liquido, ha detto un celeberrimo sociologo che, sviluppando la metafora, non consente di capire né come si sia formata l’acqua, né come aumenti, né dove vada, né se noi l’abbiamo solo tra i piedi o se, un poco simili a dannati danteschi, ormai arriva alla testa.
È certo invece che in questo luogo si formano idee (peccato sprecare così il significato originario della parola), valutazioni, propositi, situazioni da basso teatro, e personaggi. Altrimenti non sarebbe spiegabile come indubitabili imbecilli d’entrambe le facce della luna, capiti di doverli considerare come figure importanti e, in certo senso, non si possa farne a meno. Costoro sono sempre più impegnati a diventare autori dell’enciclopedia dell’epoca in una delirante stima di sé.
Cari amici, questo è il vantaggio del realismo e l’effettualità è un’altra cosa?
Per quanto riguarda la vita comune è un poco imbarazzante sentire anche a sinistra (capisco i più giovani, ma i veterani dovrebbero sapere che la parola ha un significato e non è solo un segno), si ripetano, senza un poco di analisi, due temi importanti. Si dice: ci vogliono investimenti; ed è necessario per la ripresa (che senso storico ha ri-petere?), l’ampliamento della domanda interna.
Cerchiamo di capirci. Ci sono in Italia imprese efficienti e ben dirette che producono merci affidabili o preziose che hanno un loro mercato (e tengono in piedi il paese). Se a queste imprese, prive di un credito sufficiente e magari creditrici di enti pubblici, si fa arrivare un po’ di denaro che consenta, contemporaneamente, di allargare e migliorare la produzione attraverso arricchimenti tecnologici e l’assunzione di forza-lavoro giovane, va benissimo. Anzi è quanto si deve fare sul momento. Ma molto più in generale quando si parla di investimenti occorre dire da parte di chi, con quali margini di profitto, in direzione di quale mercato. Sono risposte che, in una iniziativa economica proporzionata alle dimensioni delle risorse planetarie, occorre tentare di dare. Altrimenti sono un’aggiunta di chiacchiere.

Se guardiamo la situazione in questa prospettiva sappiamo che il nostro paese sopporta situazioni sociali (malavita, connivenza affari sporchi-politica, evasione fiscale, infrastrutture sbagliate ecc. ecc.) che provocano diseconomie enormi. Le quali, è triste a dirlo, appartengono ormai alla forma storica prevalente della nostra riproduzione sociale.
Schumpeter è un libro e Olivetti una nostalgia.
Lo scrivente crede anche di sapere che per la cultura economica diffusa, una specie di stantio manuale alla Kuhn, si può passare per teorici stravaganti se si sostiene che per avviare un processo economico che abbia senso occorre che vi siano precondizioni sociali adatte o adattabili. Proviamo a pensare negli anni scorsi il rilancio pieno del confucianesimo in Cina. Per quanto ci riguarda sarebbe bene chiederci quali siano le precondizioni sociali che hanno gettato in uno spreco insensato somme favolose di denaro pubblico.
Chi “privatamente” o “politicamente” (ma la callida iunctura non starebbe male) lucrava su queste diseconomie che depredavano il denaro di tutti e quello europeo per investimenti improduttivi?

È melanconico osservare che di fronte a diseconomie che si sono strutturate a livello della riproduzione sociale, si trovi che la terapia è il costo del lavoro. Nel salario, economicamente come componente del costo di produzione, si gioca una forma di civiltà. Bisogna saperlo. Sono questioni molto difficili in cui il crollo sovietico e la globalizzazione ci hanno gettato. E anche qui un poco di storia non andrebbe male e una occhiata un poco approfondita sulle modalità del capitalismo contemporaneo. Non si può parlare di “competitività” senza sapere che cosa si sta dicendo.
Quanto alla espansione della domanda interna come molla per la “ripresa” economica è un altro argomento, ad essere gentili, da disambiguare. Un solo cenno: quanto nella formazione della domanda era determinato anche dallo spreco del quale il profitto aveva bisogno?
E poi c’è consumo e consumo ed ha la sua importanza sociale, come l’equilibrio pubblico, un “essere bene” in modo ragionevole. Anche se, moderni Machiavelli, ci sono stati “statisti” sorretti da “grandi accademici” che avevano ridimensionato il mercato attivo in due terzi della popolazione. Poi c’era la “com-passione” (qui ipocrita) della tradizione morale inglese. Prospettive miserabili derivate non di certo dal grande Hume, ma di un Hobbes il cui senso storico dell’antropologia era del tutto incompreso. E pensare che costoro davano a noi, come insulto, dei kantiani, loro che del nume di Königsberg non sarebbero stati capaci di leggere con decenza nemmeno una pagina.
Sono cose notissime, ma un po’ continuano a pesare su di noi, anche se ora non riesco a trovare il modo per dirlo con precisione.

*Vittorio Sereni “Un posto di vacanza”