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lunedì 4 novembre 2013

 LAMPEDUSA E NON SOLO
di PAOLO MARIA DI STEFANO


Chi ha detto che novembre è
il mese dei morti?
E Ottobre, allora…?


In qualche modo, ottobre è stato il mese della morte. Non del ricordo; della attualità. E non della morte naturale compimento della vita, ma di quella innaturale fine violenta così simile all’assassinio, all’omicidio, alla strage. Qualche centinaio di disperati morti in un mare per secoli fonte di vita e di civiltà e nella ricerca rivelatasi vana di un mondo migliore. Donne e bambini, in gran parte. Che è stato l’unico appiglio alla normalità: hanno perso la vita, come sempre accade, i più deboli ed indifesi.
E subito Lampedusa e il suo carico di morte hanno preso la via dell’oblio, anche soffocati dalla chiassosa ricerca di rimedi possibili a questa ed alle altre stragi degli innocenti, eventi ormai quotidiani e forse proprio per questo di rilevanza sempre più scarsa.
E in quella ricerca, ha trovato la morte ogni forma di creatività. Meglio: partendo da principi evidentemente ritenuti ineludibili di egoismo, di proprietà, di difesa, la Politica e non solo quella italiana – che dovrebbe farsi carico di questi eventi- ha creduto di provvedere aumentando il numero e la qualità dei pattugliamenti diretti certamente a raccogliere i naufraghi ed a salvarne la vita, ma anche a tentare di scoraggiare quei viaggi della speranza insicuri quanti altri mai, per effettuare i quali gli abitanti del continente che si affaccia sull’altra sponda impegnano tutto ciò che hanno. Arricchendo sfruttatori indigeni e non solo, i quali agiscono nella certezza che almeno per i prossimi anni gli acquirenti di un posto in barca non mancheranno, addirittura con ogni probabilità aumentando a dismisura. Che è l’unica certezza: i disperati che tentano di raggiungere le coste dell’Europa sono e sempre più saranno un inarrestabile flusso di persone disposte a tutto. Tanto, hanno da perdere solo la vita, cosa che accadrebbe comunque se restassero in patria, là dove non esiste per loro neppure quel barlume tremulo e vago di speranza che sembra intravedersi da quell’altrove che solo per caso è da noi.  
E “da noi” significa “in Europa”, perché – sembra una certezza – nessuno o quasi vuol rimanere in Italia, dove sembra si arrivi solo perché è la frontiera più vicina, e sbarcano privi di ogni risorsa e di ogni documento, ricchi solo della disperazione nata e nutrita e cresciuta nei Paesi di origine.
L’Italia almeno un sussulto lo ha avuto, e da qualche parte dell’Europa pare siano giunti sparuti e timidi e molto vaghi segni di consapevolezza e di solidarietà.
Non basta.

Come al solito, reazioni immediate, viscerali e in gran parte retoriche. Non ha senso – io credo- aumentare a dismisura il numero delle unità navali ed aeree (ed eventualmente di terra) destinate a pattugliare il Mediterraneo, se non tutto, almeno quell’ormai famigerato canale di Sicilia, trafficato come una strada provinciale quando l’autostrada è chiusa. Le pattuglie non possono che prendere atto di ciò che accade e fare l’impossibile per assicurare ai profughi almeno un approdo sicuro.
È già qualcosa, ma probabilmente si tratta di un impegno di risorse se non inutile, in gran parte inefficace.
Forse si potrebbe fin da ora fare di più e di meglio, anche alla luce di quell’onnipotente dio dei giorni nostri che è il danaro che del sistema economico è caratteristica sovrana.
E sempre forse, conoscendo a fondo quanto costa dare un’identità a chi, anche se raccolto in mare prima di un qualsiasi probabile naufragio con annessa strage, non è in grado di provare le proprie affermazioni, privo come è di documenti e neppure è in condizione di provvedere a se stesso e alla sua (eventuale) famiglia che lo accompagna, dal momento che le risorse di cui disponeva in patria sono state prosciugate dal costo del viaggio, perché spendere le somme ingenti che le operazioni di raccolta e di riconoscimento e di mantenimento richiedono, quando si potrebbe pensare di

-          gestire navi sicure che, partendo dai porti dell’altra sponda con destinazioni certe,
-          accolgano le persone dietro riconoscimento dell’identità e degli eventuali altri requisiti posseduti.
-          portandole nei luoghi per quanto possibile più vicini alla destinazione finale desiderata?

Ricordando che – sembra – ciascun migrante impegna attorno ai tremila euro per il posto barca, il trasportarli con navi decenti garantirebbe loro comunque almeno un minimo di risorse, probabilmente sufficiente a garantire quel poco che li farà sopravvivere, e questo anche se si chiedesse di pagare il passaggio, ovviamente (sempre secondo me) con cifre puramente simboliche.
Io credo che l’Italia risparmierebbe non poco.
Non solo: i punti di sbarco sarebbero identificati a priori e la loro gestione potrebbe essere pianificata, almeno in modo tale da evitare sovra affollamenti con tutto ciò che un livello di vita inaccettabile comporta.
Compresi il danneggiamento e la distruzione di edifici e suppellettili.
E compresa anche la riduzione di quelle fughe le quali, in genere, provocano violazioni di ogni genere e contribuiscono alla insicurezza degli abitanti i quali, a loro volta, portati come sono a difendersi, certamente non contribuiscono ad un’accoglienza pacifica e ad una pacifica integrazione.
Di più: si potrebbe immaginare di infliggere ai trafficanti delle due sponde un colpo se non mortale, certo importante.
È ovvio che non si tratti di cosa semplice. Con ogni probabilità, un’iniziativa italiana in tal senso (dal trasporto alla accoglienza al trasferimento) oltre ad essere concordata con i Paesi di partenza, dovrebbe essere coordinata con le iniziative dei Paesi di arrivo, anche per evitare l’aumento indiscriminato dei flussi verso l’Italia.
Ma per questo ci vorrebbe un’Europa, oltre che un’Italia, dalla Politica consapevole di valori che, sembra, siano stati dimenticati.
Meglio, di valori dei quali ci si ricorda solo sull’onda di eventi tragici che sono affrontati da quella “brava gente” di cui il popolo italiano è composto in grande maggioranza, e che toccano le coscienze, purtroppo a livello puramente sentimentale, emotivo.
Come quattro o cinquecento morti in una notte e qualche centinaio di bare senza nome allineate in un hangar, in attesa di esser disperse nei cimiteri dei paesi disposti ad accoglierle.

E accogliere nei cimiteri le salme di “estranei” non è semplicissimo, checché se ne dica. Perché se è forse vero che tutti accettano l’eguaglianza di fronte alla morte, sembra essere meno vero che sia patrimonio culturale di tutti pensare che i morti meritino lo stesso rispetto e una dignitosa sepoltura.
E ottobre – mese della morte – è stato conferma anche di questo: tutti siamo destinati a morire, ma non tutti credono che la morte ci renda eguali.
La storia ha sempre descritto esequie destinate ad istradare Grandi Morti verso i doverosi privilegi riservati nell’aldilà, generalmente speculari a quelli goduti nell’aldiquà, così come da sempre sono esistite ed esistono “ultime dimore” progettate e costruite in linea con la grandezza terrena del defunto e destinate, anche, ad ingigantirne e trasmetterne la gloria. E così come da sempre per i “grandi” si riservano posti nei famedi e nei monumentali, o anche nelle cattedrali.
Giustamente, in fondo, se si ricorda che gli imperatori romani defunti diventavano de jure veri e propri dei e acquisivano il diritto alla qualifica di “divus” e che i faraoni –che vantavano divini ascendenti- dei erano in terra, e la loro morte null’altro era se non il ritorno alla dimora eterna, compiuta la missione affidata dai padri.
E via dicendo, in tutti i tempi e sotto ogni cielo.
Il che sembra dimostrare proprio che non è assolutamente vero che si diventi tutti eguali di fronte alla morte, dotata o meno di falce che sia.
E non a caso, credo, anche per noi moderni e civilissimi, fino a non moltissimi anni fa (confesso: ignoro se la cosa continua) solo il nobile sentire di un animo nobile realizzava un’ombra di eguaglianza almeno formalmente accettando una cerimonia funebre con la bara poggiata sul pavimento, un poco più in basso di quanto non fosse d’uso per i comuni mortali, la cui bara posava invece su di un catafalco, protesa verso un cielo lontanissimo.
“More nobilium”: essendo stati “dappiù” in vita, ostentavano parità con gli altri rinunciando al catafalco. Solo in chiesa e per la durata della cerimonia (peraltro, in fondo tesa a sottolineare la magnificenza del defunto), dal momento che già sulla porta tutto di nuovo si riferiva alla grandezza del “fu”.
Questo, perché i vivi potessero ammirare la modestia del titolato di turno. Oppure, cosa forse più vera, nel tentativo di acquisire un estremo merito di fronte a quel Dio che li avrebbe giudicati per quanto nella vita terrena.
Così come puramente formale e di convenienza è la descrizione per quanto sintetica delle virtù del defunto, tanto che i nostri cimiteri sono popolati esclusivamente da santi, eroi, poeti, pensatori, mariti e padri esemplari.
Tanto che la domanda della bambina al papà “ma i cattivi dove li seppelliscono” appare ampiamente giustificata.
Ma non questo importa. Ciò che veramente conta è l’inciviltà di tutti coloro che, accampando le ragioni più diverse ed anche più improbabili, hanno creduto di potersi rifiutare di accogliere in un angolo del cimitero del proprio paese la salma di qualcuno, e ciò per un giudizio assolutamente umano – e quindi per definizione opinabile e parziale - circa l’operato del defunto quando era in  vita.
E che magari è stato autore di crimini efferati, ma ha agito secondo gli insegnamenti della civiltà del suo tempo, mantenendo e vantando una sua coerenza assoluta ai principi inculcatigli.
Che sono, poi, gli stessi insegnamenti e gli stessi principi che ancor oggi insegniamo a tutti coloro che, manu militari, chiamiamo a difendere la Patria (o anche a conquistar potere), ed ai quali non ammettiamo si possa venire meno.
E si badi bene: la disciplina e l’obbedienza militare prescindono dalla giustizia o meno di cui si può gratificare la guerra (ammesso che si possa parlare di guerra giusta e santa), che null’altro persegue se non la vittoria, senza esclusione di mezzi.
Ma forse la morte distingue tra salme dei vincitori e salme dei vinti.

La guerra economica sembra non seguire regole molto diverse da quell’altra, quella dichiarata o meno condotta con l’uso delle armi, dalle nude mani, alla pietra, all’arco, alla balestra, alle armi da fuoco, alle bombe atomiche, alle testate nucleari dei missili, ai gas nervini e gli avvelenamenti delle acque e tutto ciò che la perversa fantasia umana riesce ad inventare.
Di tutte le guerre, fa parte integrante lo spionaggio. Da sempre, e per ragioni più che facilmente intuibili. E il nostro è un sistema economico che prevede lo sfruttamento dei più deboli da parte dei più potenti; l’appropriazione delle risorse a vantaggio dei più ricchi; l’acquisizione di tanto maggior potere interno ed esterno quanto maggiori sono le ricchezze a disposizione.
E allora: di che ci si lamenta?
Il nostro concetto di economia (e dunque il nostro sistema economico) non riconosce la lealtà, il diritto, l’etica, l’equità, la fiducia tra i limiti all’azione di arricchimento. Uno dei detti più popolari, in Italia, suona “in guerra ed in amor tutto è permesso” e si coniuga con l’altro “gli affari sono affari”. E noi tutti siamo prontissimi a riconoscere i meriti di chi si è arricchito e continua a farlo “cogliendo le opportunità”. 
E, anche, i nostri economisti ci insegnano che le opportunità vanno cercate e se del caso create. 
Onore al ricco ed al potente: è il primo comandamento del viver sociale, il solo valore riconosciuto senza eccezioni.
E per diventare ricchi e potenti e per conservare ricchezza e potere, lo spionaggio è d’obbligo.
Anche e soprattutto se lo chiamiamo intelligence.
Di più: proprio come intelligence, lo spionaggio – sia militare che economico e quale ne sia la destinazione d’uso (compresa l’acquisizione delle prove di un tradimento familiare o di una scarsa osservanza di principi religiosi o presunti tali) – è formidabile fonte di posti di lavoro. In tutto il mondo e, ancora una volta, sotto ogni cielo.
Ma c’è qualcuno che può veramente credere che chi spia lo ammetta? E soprattutto, che l’attività possa estinguersi?
Un amico toscano usa un’espressione suggestiva: ma scherziamo davvero?

Certo appare che lo scherzo abiti in Politica. Non solo, ovviamente, ma a preferenza. La Politica si è rivelata l’arena migliore per i contaballe, i visionari, i venditori di fumo, i dilettanti e via dicendo. E’ sempre stato così, almeno da noi, ma mi pare si stiano conquistando vette impensabili rese raggiungibili (anche) da una decadenza culturale mai immaginata e, se immaginata, ritenuta impossibile.
Eppure è così. E i Politici, che tutto possono essere, ma molto raramente mancano di furbizia e di intelligenza, se ne sono accorti, e cavalcano l’ignoranza di ritorno in una con la crisi economica, la mancanza di posti di lavoro, la miseria crescente, l’insicurezza e, soprattutto, l’asserito disinteresse della gente per la politica, appunto.
Non vedo eccezioni. Da una parte, si rispolverano partiti impolverati, al solo fine di provvedere alla difesa di interessi personali, e si ventila un’aura monarchica o, almeno, un diritto della prole ad ereditare un partito di proprietà della famiglia; dall’altra, si “vanta” merce fatta di pure parole, una retorica abbagliante, fuorviante, presuntuosa quanto mai; in tutti i casi, non si disegna uno Stato e neppure una strategia sui fatti concreti.
Perché la soluzione cercata e voluta dai Politici d’ogni credo e fazione è mantenere il proprio potere, così da garantirsi e possibilmente aumentare le ricchezze proprie e quelle dei sodali.
Le proprie, innanzitutto.
Conclusione più banale ed ovvia questo editoriale non avrebbe potuto proporre.