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domenica 10 novembre 2013

                          A margine di “teatro e pubblicità”
                             di Paolo Maria Di Stefano


Breve, conciso, compendioso, suggestivo e letterariamente notevole, “il teatro e la pubblicità- 2 ” del 4 novembre mi ha costretto a pensare. Ed anche a lungo. Le mie hanno percorso, io credo, tutto l’arco delle sensazioni, dallo stupore allo sconcerto, dalla condivisione al rigetto, dalla ammirazione a…come si chiama il totale contrario?
Il che è assolutamente positivo: significa che “Odissea” assolve appieno ad una delle funzioni che le sono proprie, essere sorgente di pensiero.
Una sorgente, si spera, anche qualitativamente – non solo quantitativamente – di rilievo. E da una sorgente quale che sia nasce qualcosa che fluisce verso una soluzione, superando ostacoli anche inattesi e impervi, sempre, però, rimanendo assolutamente distinta. Sorgente, dunque, da un lato e dall’altro lo sbocco. Nel mezzo, il fluire in gran parte indipendente dell’acqua, che dipende, sì, dalla sorgente, ma che assume una sua propria vita alimentandosi da fonti diverse oppure spegnendosi per cause che nulla hanno a che vedere con la sorgente stessa.
Ma comunque la vita del rivo fluisca, la sua è una fine logica, forse non prevedibile, ma certamente spiegabile a posteriori.
Allora ecco che si evidenzia a mio parere un primo sconcertante salto di logica: “…se si pensa che l’unico settore non in crisi è quello della comunicazione, figlia della pubblicità”. Interessante, questo scambiare il figlio per il padre (o la figlia per la madre, che è la stessa cosa); interessante e inspiegabile. Significa non aver chiare le differenze tra la pubblicità e le altre categorie della comunicazione, peraltro forse più nebulose del necessario, e, sempre forse, neppure quelle, importanti, tra comunicazione e mezzi.
La pubblicità è una categoria della comunicazione. Il che significa che la comunicazione la precede e la contiene. E dunque non può né letterariamente e neppure logicamente essere figlia della “pubblicità, il cui prodotto è il comunicare stesso”.  E qui, un intoppo non da poco: il comunicare è sì, un prodotto, ma è il prodotto della comunicazione in quanto categoria generale, e non serve a distinguere tra le diverse specie della comunicazione stessa.  Significa che occorre distinguere tra i diversi prodotti, se si vuole tentare di avere una idea chiara che – tra l’altro – è indispensabile alla ricerca ed alla attuazione di qualsiasi obbiettivo.
E la pubblicità si distingue dalle altre categorie della comunicazione perché il suo “prodotto” è destinato al convincimento all’atto di acquisto. E questo fa, spesso utilizzando mezzi e modi comuni ad altre categorie della comunicazione, ma con il fine ultimo (la “causa”) di convincere a compiere l’atto di acquisto.  Che è una “causa propria” di almeno due categorie della comunicazione: la pubblicità, appunto, e l’attività di vendita, che si diversificano per il pubblico cui si rivolgono e per l’uso specifico di modi e di mezzi, pur avendo in comune più di un fattore. Per esempio, alcune “argomentazioni di vendita” sono anche “argomentazioni pubblicitarie”. E non di rado è essenziale che sia così ai fini di una comunicazione che possa trarre vantaggio dalle sinergie scaturenti dall’uso delle diverse categorie.
Il comunicare non è “un prodotto”, bensì una linea di prodotti in più di un caso molto diversi tra di loro. E diversi proprio perché destinati a realizzare “cause” (fini ultimi) diverse.  E destinati a questo anche a prescindere dalla consapevolezza, dalla volontà, degli interlocutori. Ed anche a prescindere dalla partecipazione di più interlocutori, dal momento che oltre alla comunicazione interpersonale – quella che vede più soggetti fisicamente diversi- è possibile e reale una comunicazione intrapersonale, che si realizza con se stessi, in genere escludendo qualsiasi partecipazione di terzi.
E allora, la pubblicità comunica, perché della comunicazione è categoria e non può non comunicare, ma il suo prodotto è “il modo di convincere all’acquisto”, tra l’altro un “acquisto” non necessariamente rientrante nella categoria delle azioni economicamente rilevanti ed economicamente valutabili.
Significa che quando si parla di pubblicità non necessariamente ci si rivolge al mondo della economia, anche se senza dubbio è in questo mondo che la pubblicità ha assunto rilevanza generalizzata e riconosciuta.
Rilevanza che non fa della pubblicità “l’inventrice del mass medium”, se non nel senso che, alla ricerca di un pubblico sempre più vasto, la pubblicità ha “valorizzato” alcuni dei mezzi di comunicazione. Quando, per esempio, si è accorta che utilizzando la radio ed utilizzandola in un certo modo le probabilità di vendere meglio il prodotto aumentavano; e lo stesso per la televisione e per la cartellonistica e per …fino all’uso pubblicitario del cellulare e di internet e via dicendo.
E a questo punto, forse, bisognerebbe distinguere nettamente tra “il prodotto pubblicità” e il prodotto che è oggetto della campagna pubblicitaria. Per il primo, il prodotto chiamato pubblicità, a me sembra chiaro che a sua volta non può non ricorrere alla pianificazione di una campagna pubblicitaria di se stesso, così come mi sembra chiaro che più efficaci si dimostrano le campagne per i prodotti dei clienti, più l’immagine dell’agenzia è vincente e dunque la domanda di prestazione all’agenzia stessa è destinata a crescere; per il secondo, non è vero che una campagna pubblicitaria di successo, magari ripetuto – il successo-  negli anni, comporta un “aumento” della pubblicità. Se la campagna ha avuto successo, e se la pianificazione di gestione che è a monte era corretta, la pubblicità si ferma là dove il bilanciamento con gli altri elementi essenziali allo scambio del prodotto è al suo punto massimo.
C’è infine da notare come “la comunicazione” in genere e la pubblicità in particolare, proprio perché elementi essenziali allo scambio di un qualsiasi prodotto siano da considerare veri e propri investimenti, sempre che sia il complesso della comunicazione a rivelarsi in qualche modo e per qualche ragione carente. E si spiega allora perché – ma ignoro se sia vero: ho qualche dubbio in proposito- “oggi…l’unico settore non in crisi è quello della comunicazione”: forse qualcuno si è reso conto che occorre investire in comunicazione o, anche, che investire in comunicazione potrebbe rivelarsi meno impegnativo e costoso – almeno nell’immediato – di altre forme di investimento.  Ne dubito, almeno qui da noi: i nostri imprenditori, che di gestione degli scambi sanno poco e quel poco in genere lo improvvisano – al primo accenno di crisi tagliano il budget pubblicitario, a questo spinti anche dalla grettezza dei pubblicitari, oltre che da insegnamenti improvvidi impartiti anche a livello universitario da “docenti” che non hanno mai visto un’impresa e che di economia non possiedono neppure le basi più elementari. E da una disciplina, il marketing, sconosciuta ai più e oggetto di “invenzioni” le più improbabili, vendute come “creatività” e “innovazioni”.
Quanto al Teatro ed ai suoi problemi, avremo occasione di scambiare opinioni concrete, tenendo conto fin d’ora che in ogni caso i problemi del teatro sono comuni a tutte le forme di spettacolo.
E sono problemi risolvibili, anche nell’immediato.