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mercoledì 30 aprile 2014

Anche i treni veloci deragliano
di Giovanni Bianchi

Memento audere semper

Ministro e mutande

Ho ripescato un vecchio mantra, non sempre usato dalla sinistra, per contribuire a incitare me stesso e il Paese a buttarsi finalmente nel guado per attraversarlo. Per porre cioè fine all'infinitudine della transizione infinita. In fondo la sua traduzione popolaresca (e populista) la ritroviamo nel Renzi che ripete anche troppo spesso: "Ci metto la faccia"!
Non si tratta cioè tanto di decisionismo quanto di coraggio in quanto temperamento e in quanto atteggiamento quotidiano. Credo anche che la critica –in ogni caso doverosa– non si debba fermare agli annunci, ma sia sospinta a guardare i frutti e i risultati.
Ad esser sincero, lo stile mi pare convincente, mentre i frutti non sono tali da creare entusiasmo. Mi vanno bene gli 80€ in busta paga, sia pure con la smaccata strizzatina d'occhio alle elezioni europee, dal momento che perfino il Vangelo invita a farsi amici con la disonesta  ricchezza, mentre non mi piacciono la gestazione e il parto prevedibile della legge elettorale e mi lasciano perplesso l'impianto, la ratio e l'architettura costituzionale del nuovo Senato.
Il decisionismo italico cioè mi pare più brillante nello stile che nella sostanza. E però ci sono tempi in cui i nodi si sono talmente intricati da poter essere soltanto tagliati e il troppo tergiversare potrebbe risultare autolesionista, soprattutto dopo gli esiti del pur capace Enrico Letta.
Siamo tutti dunque diventati –da destra a sinistra passando per il centro– decisionisti dell'immagine e populisti?
Probabilmente il caso di studio più cospicuo è costituito dal peronismo, del quale mi sono un poco occupato prima e dopo il default argentino, anche se la preparazione più tosta l’ho dedicata al populismo statunitense, meno interessante per noi.
Il peronismo infatti, in tutta la sua gamma, dal generale ad Evita, dal dubbio Menem al radicale Firmenich dei "montoneros", è più prossimo come configurazione a quello italiano perché il nostro Paese è stato sovente populista a propria insaputa, confondendo il populismo con la destra, in una Nazione che la destra ha storicamente perso per strada con la chiusura dell'esperienza di Spaventa e Quintino Sella... 
(Leggi tutto l'articolo nella Rubrica "Segnali di Fumo")


martedì 29 aprile 2014

FERRUCCIO BRUGNARO

Pubblichiamo sulla prima pagina di “Odissea” 
questi due testi del poeta veneto Ferruccio Brugnaro,
perché sono attualissimi e più efficaci di un articolo di giornale.

Ferruccio Brugnaro


















                     BRAVI E BRAVI


                        Bravo presidente
                                    bravi ministri
                                    bravi segretari
                                         sottosegretari
                                              partiti
                                  sindacati
bravi bravi
                tutti quanti.
                                  Mano nella mano
                                              cantate
          gli operai sono
          tramortiti di botte
          gli operai lavorano
                           e tacciono
abbiamo trovato
                   gli alleati giusti.
                                       Evviva evviva
                                          siamo gli unici
                                            in libertà
                                              intelligenti
                                              intelligenti.
                        Bravo governo
bravi ministri  
              bravi bravi
                          tutti quanti
                          evviva evviva
                          i ladri sono stati
                                       premiati
gli operai hanno avuto
                      una lezione
                                  severa
                      evviva evviva
                            cantate
                                   bravo
il nostro presidente
                      del consiglio
bravi
i nostri ministri
            i nostri tecnici
bravi bravi
            cantate
                  più forte
               più forte
cantate
evviva
evviva


              ***


DEVASTAZIONE, UN VARCO, LA STORIA                              


Le nostre labbra secche screpolate
                                          assetate
                      non si tirano indietro
                           non possono ora
                                       tirarsi indietro.
I nostri occhi stanchi
                              incantati
                                       sballottati
                                          da mille sofferenze
                                             e mille sconfitte
                   devono rialzarsi ora
                          ripuntare in alto
                                             in alto
               oltre nere coltri di lunghe devastazioni
                       oltre
                       spessori di mani e acciai
                                        avidi e crudeli
                                  che nessuno
                                       ha attraversato mai.
Il nostro cuore criminalizzato, pieno
                                                      di botte
non è stato ancora sepolto
il filo non è stato ancora reciso
il filo non può essere reciso
                             la fossa non ha senso.
Il nostro cuore ora è pronto
                                  per rotolare
                       tra queste fitte tenebre
                       esplodere
                        aprire un varco
                                        al giorno
del tempo che tutti abbiamo vissuto
                              in grande segreto
del tempo che si è improvvisamente
                               fermato arrugginito
del tempo che tutti abbiamo amato
                             senza più veder fiorire.
Sono morti da un pezzo
                             gridano felici
                        sono tutti morti 
                                              morti.
Questa beffa che circola alta
                                        vibrante
                       che taglia
                             l’anima a metà
                       è solo un inganno
                       che il dolore respinge
                                    e discioglie nel nulla.
Sono tutti morti
              gridano terrorizzati
                             sono morti
                                        morti.
Questa carne bastarda
                    che non vuole darsi
                              per vinta
                                  e scomparire
timidamente, con vergogna quasi
                                si erge oggi
                                    gracile erba
come un tempo
da tutto il corpo
di una storia di vite saltate
da tutto un mondo
             di impiccati e di carceri
                  che non vuole chiudersi
                            in nessuna storia
                                    e nessuna partita
e riapre e rilancia
tutta la storia e tutta la partita.


Ferruccio Brugnaro




domenica 27 aprile 2014

SEGRETO DI STATO


Piazza Fontana "Strage di Stato 1969"

“Odissea” si è occupata più volte di questo argomento e ha detto quello che pensava senza troppi giri di parole. Non abbiamo cambiato idea in questi anni: non è il segreto di Stato che va rimosso, per il semplice fatto che uno Stato, che non sia delinquenziale e criminale, non dovrebbe avere segreti, non dovrebbe avere nulla da nascondere. Segreti perché? Per tramare contro chi? Per fare che cosa? Una democrazia dovrebbe essere più trasparente e limpida possibile, priva di zone d’ombra, di lati oscuri; solo così i cittadini possono fidarsi di essa, sentirsi sicuri, non temerla, e, all’occorrenza, battersi per la sua difesa.
Se si pretende che la vita dei cittadini sia la più trasparente possibile, perché l’esercizio della democrazia deve aver bisogno di segreti? Dalla democrazia i cittadini esigono una buona governabilità, l’amministrazione onesta della Cosa Pubblica (Rei Publicae) che tuteli gli interessi collettivi, non l’esercizio di un potere sempre più opaco ed oscuro nelle sue trame e nei suoi loschi fini. Ogni atto di una sana democrazia dovrebbe essere pubblico; ogni spesa del suo bilancio documentato e impiegata per finalità socialmente utili, realmente necessarie, e sempre sotto il controllo dell’opinione pubblica e di quanti concorrono alla ricchezza della Nazione. Una democrazia non dovrebbe avere “corpi speciali”, “servizi segreti”, “corpi separati” che si muovono nell’ombra. Non dovrebbe tollerare, altresì, organizzazioni clandestine e coperte, come Logge di vario tipo. Non dovrebbe permettere lo scorrazzare di servizi clandestini stranieri sul proprio territorio. Non dovrebbe aderire ad alcuna alleanza militare e dovrebbe perseguire una politica di diplomazia pacifica nei contrasti fra Paesi.
Se il governo Renzi vuole davvero mettere fine alla lunga notte oscura della Repubblica contrassegnata di stragi e complotti di ogni tipo, ha una sola via da perseguire: sciogliere tutti gli apparati segreti oggi esistenti: quelli di Stato e quelli privati. Vietare che gruppi clandestini privati italiani vadano a vendere il loro servizio di protezione e di mercenariato all’estero, per ditte e tirannelli fra i più diversi. Oggi ce ne sono parecchi e operano sia in Africa che in alcune aree del Medio Oriente. Trasformare, in tempi ragionevoli, le attuali forze armate italiane, in strutture socialmente utili per la tutela del territorio contro l’inquinamento del suolo e dei corsi d’acqua; per un servizio di pronto intervento in caso di calamità naturali e terremoti; per la prevenzione degli incendi dei boschi, per il controllo e lo smaltimento dei rifiuti pericolosi, per la vigilanza sulle bonifiche, per la mappatura delle aree a rischio (amianto, rifiuti speciali, e così via). Il guadagno per il bilancio pubblico sarebbe strepitoso;  la sicurezza dei cittadini e del Paese, sarebbe meglio garantita.

Angelo Gaccione   


                     ***
STRAGI  E  SEGRETI  DI  PULCINELLA
I limiti del provvedimento di Renzi, in questo scritto dettagliato
del prof. Aldo Giannulli, docente all’Università Statale di Milano

Piazza Fontana 1969

Via i segreti dalle stragi. Matteo Renzi ha firmato la direttiva che dispone la declassificazione degli atti finora coperti da segreto di Stato. Negli archivi ci sono le carte su tante stragi che hanno segnato la storia della seconda metà del secolo scorso in Italia: i fatti di Ustica, Peteano, Italicus, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Gioia Tauro, la stazione di Bologna, il rapido 904.
Il provvedimento andrà verificato nella pratica, perché nel nostro paese convivono norme spesso confliggenti tra di loro, che potrebbero ridurre le carte rese effettivamente disponibili.
Se a ciò si aggiunge che in molti casi sono stati implicati organi dello Stato diviene più che legittimo il sospetto che queste carte abbiano comunque subito un accurato lavaggio ormai da molto tempo.
Aldo Giannuli, sul suo blog smonta l’enfasi dei media sulla decisione del presidente del consiglio. Giannuli, ricercatore in Storia contemporanea all’Università Statale di Milano, è stato consulente delle Procure di Bari, Milano (strage di piazza Fontana), Pavia, Brescia (strage di piazza della Loggia), Roma e Palermo. Tra il 1994 e il 2001 ha collaborato con la Commissione Stragi: sua la scoperta, nel novembre 1996, di una gran quantità di documenti non catalogati dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, nascosti nel noto “archivio della via Appia”.
Scrive Giannuli:
“Squilli di trombe, rulli di tamburo: Renzi cancella il segreto di Stato sulle stragi. Era ora! Solo che si tratta di chiacchiere perché:
- già da una ventina di anni, il segreto di Stato non è opponibile alla magistratura che procede per reati di strage o eversione dell’ordine democratico;
- di conseguenza, la magistratura, sia direttamente che tramite agenti di pg e periti, ha abbondantemente esaminato gli archivi dei servizi e dei corpi di polizia, acquisendo valanghe di documenti che sono finiti nei fascicoli processuali;
- anche le commissioni parlamentari che si sono succedute, sul caso Moro, sulle stragi, sul caso Mitrokhin hanno acquisito molta documentazione in merito (anche se poi è finita negli scatoloni di deposito e non in archivi pubblici);
- una larghissima parte della documentazione finita nei fascicoli processuali e nelle commissioni di inchiesta è stata resa consultabile dalla “Casa della Memoria di Brescia”, dove chiunque può accedere, e… dalla Regione Toscana (strano che Renzi non lo sappia);
- già a suo tempo, la documentazione acquisita dai magistrati è stata consultata da giornalisti che l’hanno avuta dagli avvocati delle parti ed è finita in migliaia di articoli;
- diversi consulenti parlamentari e giudiziari (a cominciare dal più importante, Giuseppe De Lutiis a finire al sottoscritto) hanno successivamente utilizzato abbondantemente quella documentazione per i loro libri. Per cui, siamo alla “quinta spremitura” di queste olive: ci esce solo la morga, robaccia. Viceversa, restano ancora da risolvere i problemi degli archivi inarrivabili e per i quali occorrerebbe far qualcosa per renderli accessibili:
- quello della Presidenza della Repubblica che ha sempre rifiutato ogni accesso, per quanto minimo, alla magistratura in nome dell’immunità Presidenziale;
- quello dell’Arma dei Carabinieri (alludiamo all’archivio informativo, non a quello amministrativo) che non si capisce dove stia;
- quelli delle segreterie di sicurezza dei vari enti e dei relativi uffici Uspa che sono protetti dal segreto Nato.
Per cui, se Renzi vuol davvero fare qualcosa di nuovo sulla strada della fine dei segreti della Repubblica, può:
- invitare il Capo dello Stato a valutare l’opportunità di rendere accessibile il proprio archivio oltre le carte del Protocollo attualmente visibili;
- chiedere all’Arma dei carabinieri un rapporto ufficiale sulla sistemazione dei propri archivi informativi;
- porre in sede Nato la questione del superamento del segreto dopo un congruo periodo di segretazione. Per esempio, poco dopo la “rivoluzione dei garofani” in Portogallo, la Nato avocò a sé tutto il materiale della e sulla Aginter Presse: possiamo vederlo?”
Nel 2007, per far digerire quell’orrore di legge di “riforma” sui servizi, venne inserito un complicato sistema che avrebbe dovuto assicurare la decadenza automatica della classifica di segretezza dopo un certo periodo. Però occorreva prima fare i regolamenti attuativi: stiamo ancora aspettando questi regolamenti dopo sette anni.
Il governo Monti promise che entro il 2012 avrebbe comunicato l’elenco dei vari archivi esistenti con le diverse sedi dei depositi. Stiamo ancora aspettando anche questo elenco.

Strage di Brescia

L’info di Blackout ha intervistato Giannuli.  
Ascolta la diretta
 www.anarresinfo.noblogs.org

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Fai mailing list
Fai@inventati.org

https://www.autistici.org/mailman/listinfo/fai

sabato 26 aprile 2014

L’ALTRA RESISTENZA

Teresa Galli

 Nella giornata del 25 aprile, data “ufficiale” della conclusione del processo insurrezionale di rivolta e di lotta contro il nazifascismo, l'attenzione è generalmente rivolta al periodo 1943-1945, mettendo di fatto in secondo piano il periodo precedente, costellato di generosi tentativi giustizieri, di clandestinità, di esilio, di resistenze sotterranee, di dura repressione, di condanne a morte, ecc.. In realtà l'opposizione e la lotta al fascismo si svilupparono fin dalla sua nascita, a causa della natura
reazionaria, gerarchica, antiproletaria e antisocialista del suo programma politico e della sua pratica autoritaria e violenta. Al suo programma e alla sua pratica si contrapposero, da subito, l'iniziativa di compagni e compagne, risoluti nell'affermare la propria volontà egualitaria e libertaria.
Troppe volte però l'attenzione si è soffermata su alcuni episodi e su alcuni personaggi, sicuramente significativi ed emblematici, tralasciando episodi considerati “minori” nel conflitto che in quel ventennio contrappose l'insieme del movimento antifascista alla canea fascista. Come la partecipazione femminile. Poche volte si è ricordato ad esempio che almeno una quarantina di donne furono vittime dello squadrismo dal 1919 al 1922, anno della Marcia su Roma. Oppure che a Trieste con il nome di "Ardite rosse", ci fu un gruppo di donne organizzate all'interno degli “Arditi Rossi”, formazione che precedette gli “Arditi del popolo”. Oppure ancora che la prima vittima in assoluto del fascismo fu proprio una donna, Teresa Galli, un'operaia, camiciaia di mestiere che, a 19 anni, fu uccisa il 15 aprile del 1919 a Milano, colpita alla nuca da un proiettile. Il 23 marzo del 1919 erano stati fondati da Mussolini, a Milano, i “Fasci italiani di combattimento” che subito avevano dato prova della loro natura violenta ed assassina. Il 13 aprile 1919 a Milano, durante una manifestazione socialista, si erano verificati gravi incidenti in seguito all'intervento della polizia. Un dimostrante era rimasto ucciso e molti erano stati i feriti. Il Partito Socialista e la Camera del Lavoro proclamarono allora uno sciopero generale per protestare contro la repressione poliziesca: la manifestazione si tenne all'Arena con un comizio che vide una grande partecipazione popolare. Concluso il comizio, anarchici e spartachisti si misero d'accordo per promuovere un corteo verso il centro della città, sventolando bandiere rosse e nere, ed innalzando ritratti di Lenin e di Malatesta.
Il corteo che aveva raccolto buona parte dei partecipanti al comizio, all'altezza di via Mercanti e via Dante venne violentemente attaccato da circa 400 fra ufficiali degli arditi, appartenenti al Partito Nazionalista, futuristi con Marinetti alla testa e fascisti provenienti dalla sede del “Popolo d'Italia”, armati di spranghe, armi da taglio, pistole e bombe a mano. Ovviamente carabinieri e militari lasciarono fare. Gli assalitori poi proseguirono assalendo e dando alle fiamme la sede del quotidiano socialista “l'Avanti!” in via San Damiano. Alla sera del 15 aprile si contarono quattro morti, fra cui
Teresa Galli, e trentanove feriti. La natura antiproletaria, reazionaria e sessista del fascismo trovò così la sua iniziazione dando vita a ventisei anni di autoritarismo e di violenza fino al massimo livello: la guerra. Il 25 aprile di quest'anno vogliamo ricordare Teresa Galli, la cui tomba si trova nel Cimitero Maggiore (Musocco), ed insieme a lei quante e quanti impegnarono la loro vita per una società di libere e di eguali, riaffermando la nostra decisa opposizione ad ogni forma di autoritarismo e di sfruttamento.

La lapide di Teresa Galli al cimitero Maggiore di Milano
Le compagne e i compagni della Federazione Anarchica Milanese viale monza 255
faimilano@tin.it


ORA E SEMPRE RESISTENZA!


Gatto Partigiano
Cari lettori, care lettrici,
vi segnalo i nuovi scritti di Fulvio Papi
nella Rubrica "Agorà", di Giorgio Colombo
nella Rubrica "Quartiere Latino", 
di Beatrice Anton Rossetti nella Rubrica
"Il Pane e le Rose", e di tutti gli altri nostri
collaboratori. Buona lettura.
A.G.

giovedì 17 aprile 2014

NOTIZIE
Cari lettori e care lettrici, vi segnalo la ricca pagina
culturale nella Rubrica "Il Pane e le Rose" con una
nota sul capolavoro del poeta Dante Maffìa arricchita
da numerose foto inedite, e dai bei racconti di Lisa Albertini
e di Beatrice Anton Rossetti. Vi segnalo la Rubrica di arte
di Giorgio Colombo e il resto del giornale con tanti, tanti
scritti interessanti.

(Il Direttore)
L'UCRAINA PACIFICA A MILANO














Domenica 13 aprile si sono riuniti a Milano,
all'Arco della Pace in Sempione, numerose comunità 
di ucraini che vivono e lavorano nel nostro Paese
(Lombardia, Veneto, e tanti anche provenienti da Roma)
per una manifestazione pubblica in favore della pace.
Canti, balli, testimonianze, si sono alternati in un clima
fraterno ed emozionante, per scongiurare il pericolo di una 
tremenda guerra civile fratricida.
Purtroppo nelle ultime ore la situazione è precipitata
e si teme il peggio. 
Le foto che qui pubblichiamo danno testimonianza
di quella giornata allegra, non-violenta e piena di speranze.
A quella speranza ci uniamo anche noi di "Odissea", il vostro
direttore era in quella manifestazione e fra quella gente.
A.G.  

lunedì 14 aprile 2014


MEMORIA ANTIFASCISTA

COMUNICATO STAMPA

Neo fascismo, il Questore di Milano vieta il presidio promosso da Memoria Antifascista contro la parata neonazista del 29 aprile

Milano, 11 aprile 2014. Dichiarazione del coordinamento “Memoria Antifascista”:

“Il 9 aprile siamo stati convocati dalla Questura di Milano e ci è stato consegnato un dispositivo nel quale si vieta a Memoria Antifascista qualsiasi manifestazione in Piazzale Susa per il giorno 29 aprile 2014, così come avevamo richiesto lo scorso 23 gennaio 2014.
Nonostante avessimo consegnato per primi la richiesta, con ampio preavviso, la Questura considera la nostra manifestazione un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico in quanto potrebbe essere attrattiva per gruppi antagonisti che in passato si sono rivelati un fattore di criticità in occasione di manifestazioni contrapposte.
La Questura ritiene quindi “Memoria Antifascista” un pericolo per la sicurezza pubblica, mentre considera i militanti neofascisti di Lealtà e Azione (che costituiranno il servizio d’ordine della parata neonazista del 29 aprile) persone affidabili, nonostante molti di loro siano indagati, e alcuni condannati, per reati comuni e per detenzione di armi.
Riteniamo irricevibile il divieto comunicatoci. Abbiamo deciso di convocare per martedì 15 aprile 2014 alle ore 20,30 al circolo ARCI di Via Bellezza un'assemblea pubblica per decidere, insieme a tutti gli antifascisti milanesi, quali iniziative intraprendere in vista del 29 aprile 2014.
Chiediamo al Sindaco di Milano, all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) e al Presidente del consiglio di zona 3, a tutte le Istituzioni e ai parlamentari di prendere immediatamente una posizione netta contro la parata nazifascista prevista per il 29 aprile, in virtù dell’esposto presentato al Prefetto da CGIL, ANPI e dal Presidente del Consiglio di Zona 3 nelle scorse settimane e considerate le mozioni già presentate nei nove consigli di zona e approvate con ampia adesione. L’esposto e le mozioni chiedono che non vengano concessi spazi pubblici a chi si rifà all’ideologia fascista e che venga impedita la parata nazifascista del 29 aprile pur garantendo il diritto alla commemorazione dei caduti.
La ricorrenza del 29 aprile si è ormai trasformata in una esibizione di simboli fascisti vietati dalla Costituzione. La legge, inoltre, vieta anche la ricostituzione del Partito fascista e considera un reato l’apologia del fascismo.
Nonostante il reiterarsi di queste parate nazi-fasciste negli ultimi anni, la Questura non solo non è mai intervenuta, ma insiste nel concedere la piazza a coloro che violano le leggi italiane.
È giunto il momento che le autorità di pubblica sicurezza, in osservanza alla Costituzione, vietino e impediscano, finalmente, qualsiasi raduno nazi-fascista in Piazzale Susa, per questo riteniamo urgente chiedere che venga presentata al Ministro degli Interni una interrogazione parlamentare.

Memoria Antifascista e i firmatari dell’appello con il quale si è costituito il comitato “Milano 29 aprile: nazisti no grazie” chiedono, infine, di essere ricevuti urgentemente e direttamente dal Questore in persona”.

domenica 13 aprile 2014

PECUNIA NON OLET
Milano. Stamattina, passando in via Washington, su un elegante e, ovviamente, antico palazzo
ho visto incisa “PECUNIA SI UTI SCIS ANCILLA SI NESCIS DOMINA”.
Mi sforzo (i romani non usavano la virgola) di tradurre.
Se sai serviti del denaro, è il tuo maggiordomo; se non lo sai fare è il tuo padrone.
E se “PECUNIA NON OLET” cioè se non ha odore e non si può stabilirne l’origine
torniamo al mio solito ritornello.
A Milano fervono i preparativi per nutrire il pianeta. Almeno una cinquantina di maggiorenti ne ha già approfittato per fare provviste per i prossimi duecento anni.
Per sé, prima domina, plurimae et vario colore ancillae atque regionale Ganimede.
Si stanno nutrendo come, d’altra parte, auspica EXPO.
In previsione di 20 milioni di visitatori stanno preparando un bando per i pasti.
Qualcuno sa già chi vincerà? La risposta è facile. Ve ne faccio una più difficile.
EXPO 2015 sarà una festa per le nonne?

Luigi Caroli

mercoledì 9 aprile 2014

Ambrosoli: il prezzo dell’onestà
La vicenda dell’avvocato milanese in uno spettacolo di teatro-canzone

di Angelo  Gaccione




La figura del conta storie o del racconta storie, ha una tradizione antica. Nella memoria della mia infanzia se ne sono sedimentate diverse. Arrivavano sulle piazze, spesso accompagnate dalla sola voce, dal proprio canto; più raramente da qualche rudimentale strumento a corde, magari una chitarra “battente”. In genere si portavano dietro dei retablo dipinti con le scene più salienti, che esponevano allo sguardo della folla che affascinata e incuriosita si accalcava per vedere e per ascoltare: il canto ed il racconto. Erano in genere storie di soprusi, di violenza o di onore offeso, di ribelli che riparavano torti, si ergevano fieri contro l’ingiustizia.
Quello che più tardi è stato definito “teatro canzone” discende da lì. Negli anni della grande contestazione e subito dopo Piazza Fontana (la strage di Stato del 12 dicembre 1969), se ne ebbe una discreta fioritura. Narrazioni e canti della tradizione anarchica e socialista, della tradizione antimilitarista e popolare, si alternavano a veri e propri orditi dalla trama coerente come un romanzo, come un racconto (u cuntu), con un inizio, uno svolgimento e una conclusione. E lo spettatore capiva bene questo discorso di controinformazione, di verità, di demistificazione, rispetto alle menzogne del potere e dei suoi officianti (stampa, tivù, cinema asservito, teatro di intrattenimento, libri menzogneri); si informava, scopriva un’altra verità.

Quanto sia stato importante per la coscienza di molti di noi tale tipo di teatro, lo si può facilmente immaginare. Il successo decretato agli spettacoli di Marco Paolini o Ascanio Celestini ne danno tuttora la riprova. Quello approntato da Michela Marelli e Serenella Hugony Bonzano per l’attore e musicista Luca Maciacchini e dedicato all’avvocato milanese Giorgio Ambrosoli, rinverdisce questa nobile tradizione. Il testo prende semplicemente il nome del protagonista “Giorgio Ambrosoli” ed è costruito su materiali biografici autentici e su quanto è emerso a partire  dall’ignobile assassinio. In un’ora o poco più, Luca Maciacchini, solo in scena, con l’ausilio di due chitarre che suona magistralmente, ci racconta la figura limpida di un uomo onesto, di un integerrimo professionista votato al rispetto delle regole, della legalità fino al sacrificio della vita.
Un servizio al proprio paese compiuto con onore; la difesa dell’interesse generale contro la voracità disonesta di gruppi di pressione, di lobbies, di consorterie di ogni tipo, pagati con la vita, mentre pezzi di istituzioni e uomini di stato intrattenevano rapporti con la mafia.
Se non abbiamo disperato del tutto in questi anni, è perché in questo lurido Paese ci sono stati degli uomini (seppur rari) della tempra di Giorgio Ambrosoli. Sono il seme buono dell’Italia migliore, quello da cui potrà germogliare una rinascita morale, a patto che ne conserviamo la memoria e ne difendiamo il sacrificio e la moralità. Questo spettacolo va in tale direzione e bisognerebbe aiutarne la diffusione nelle scuole e nei quartieri.
La narrazione disegna il clima storico; allinea i fatti; definisce interessi e personaggi; svela retroscena; smaschera le figure del complotto.
Alla fine la vicenda Ambrosoli si presenta come l’ennesimo complotto italiano di poteri criminali, ma per nulla oscuri. Sono gli stessi, sono i soliti, ed hanno come finalità le trame, per il mantenimento dei loro privilegi particolari, per il denaro facile. Le vie sono le medesime: la corruzione, le banche, la finanza, la politica, i killer. Il marcio si annida lì. L’antidoto è la coscienza di ognuno, l’abnegazione e l’attaccamento al proprio dovere. Come ieri, come sempre.



PS. Girovagando qualche settimana fa, fra le viuzze intorno al Teatro alla Scala, ho avuto un sussulto. Mi sono trovato davanti una viuzza, o piazzetta dedicata al banchiere Cuccia. Mi è presa una stizza incredibile. Mi sono detto: ecco come Milano onora la memoria di Ambrosoli! Poi sono andato a vedere lo spettacolo con Luca Maciacchini al Teatro Ariberto di via Daniele Crespi n. 9,
un assolato pomeriggio di domenica, e proprio da Maciacchini ho appreso che gli è stata dedicata una via ed è stata messa una targa sul luogo dove lo hanno freddato. Di Ambrosoli resterà una grande memoria, di Andreotti, Sindona, Marcinkus e company, il disprezzo.         


domenica 6 aprile 2014

Le colpe di certi figli ricadono sui “nuovi padri”? 
di Antonio Lubrano




Sempre più di frequente le cronache ci raccontano di scandali che hanno a protagonisti ragazze o ragazzi minorenni. Che si tratti di sesso, di alcol o di violenza, i più sgomenti o disorientati sembrano essere i loro genitori. Come si spiega? Lo so, l'interrogativo può apparire ingenuo. Però non mi sembra casuale che sul portale nostrofiglio.it e su focus.it venga proposto un questionario su quelli che vengono definiti “i nuovi padri”.
Una delle domande suona così: come giudica per un uomo compiere le seguenti mansioni di cura e accudimento? E giù l'elenco: cambiare i pannolini, dar da mangiare al bimbo, lavarlo e vestirlo, raccontare favole, farlo addormentare, accompagnarlo ad attività extrascolastiche, seguirlo nei compiti. Tre le risposte indicate: “lo giudico normale”, oppure “necessario” o addirittura “inopportuno”.
 Non so quale sarà il risultato dell'indagine (sarebbe curioso che vincesse l'inopportuno) ma il mensile Focus attraverso una sua ricerca fornisce già una serie di dati che ci aiutano a delineare, con maggiore approssimazione al vero, le figure dei “genitori duemila” .
Per esempio: 38 minuti è il tempo medio trascorso coi figli, ogni giorno, dai padri italiani, contro le 4 ore e 45 minuti delle madri. Un'altra ricerca, per contro, dice che i genitori maschi sono dei gran bugiardi, nel senso che incrociando le loro risposte a domande dello stesso genere si scopre che la maggioranza dedica sì e no 15 minuti ai pargoli. C'è chi fa notare, tuttavia, che solo il 7% dei padri italiani usufruisce del congedo parentale, contro i colleghi  svedesi che con il 69% hanno il record in Europa (Istat). E questo peserebbe molto sul calcolo del tempo dedicato ai figli.
Secondo l'Eurispes, poi, l'85,4% degli uomini italiani è convinto che educazione e cura dei figli siano ormai equamente distribuiti tra i due componenti della coppia; anche se in realtà sulle spalle femminili – lo ammette il 71,5% dei papà – resta il grosso delle altre mansioni che riguardano la gestione della famiglia. Cioè, anche qui, se non è zuppa è pan bagnato.  Del resto una conferma viene dal fatto che le madri  dedicano a se stesse 41 minuti al giorno contro i 69 delle mamme finlandesi.
Alla luce di queste fredde cifre il dubbio che ne scaturisce può essere il seguente: il comportamento di certi figli -vedi le quattordicenni che si prostituiscono o i minorenni che si ubriacano- non è conseguenza del disinteresse dei nuovi padri? E per disinteresse intendo anche il risibile tempo riservato nella loro giornata ai ragazzi. E c'entra a mio modo di vedere anche una inadeguatezza culturale, da cui scaturisce l'incapacità di seguirli, di capire in tempo le loro esigenze, i mutamenti, di prevenire i possibili sbandamenti. Sembra legittimo chiedersi: che modello di comportamento offrono ai loro rampolli? Mi ha colpito la reazione di uno dei padri convocati dalla polizia per lo scandalo delle quattordicenni dei Parioli a Roma che si prostituivano. Messo a confronto con la figlia, rea confessa, è scoppiato a piangere. Una reazione che oltre alla disperazione per l'amara scoperta rivela la sua debolezza. E se fosse ignavia, nel senso più duro di infingardaggine?  Ma c'è un'altra moda (si fa per dire) che fa tremare, è il caso di dire, le vene e i polsi. Soffermiamoci su due fatti registrati quasi in contemporanea. Uno: l'arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia che all'ora della movida va in giro per i pub della città frequentati dai ragazzi a parlare di Dio e li invita a non abusare dell'alcol. Santa iniziativa, certo. Due: l' allarme  sui giovani che si ubriacano già a undici anni lanciato dall'Istituto superiore di Sanità. Allarme, manco a dirlo, inascoltato.
Un flash. Qualche anno fa a Crema un bar del centro offre un bicchierino di ciupito (rum e succo di frutta) a un euro. “Trenta ciupito 30 euro. E vai!” La promozione commerciale ha immediato successo. Sette fanciulli (al di sotto dei 16 anni, per intenderci) si sfidano a chi ne beve di più, ma al terzo bicchierino una ragazza si sente male, viene ricoverata d'urgenza in ospedale. Sfiorato il coma etilico.
Stando alle dichiarazioni dei sanitari italiani sono sempre più numerosi i ragazzi che il sabato notte restano vittime di una intossicazione etilica. A conferma c'è un dato preciso: il 17% delle intossicazioni , come documentano i registri dei pronto soccorso, ha per protagonisti  degli adolescenti, 13-16 anni.
Del resto basta dare  un’occhiata ai  dati sul consumo di alcol in Italia, c’è da mettersi le mani nei capelli: un milione e mezzo di giovani e giovanissimi si ubriacano, anche attratti dai prezzi scontati. Si comincia col ciupito e si arriva al rave paty, ai cocktail devastanti con le conseguenze che leggiamo ogni giorno in cronaca. 
“Un dramma social, scrive Repubblica, che le famiglie sottovalutano”.
Possibile, mi chiedo, che tanti genitori ignorino la china pericolosa dei loro figli?  Una madre, che il sabato resta sveglia fino a notte alta per aspettare il rientro della figlia minorenne, non si accorge che è sbronza?
Mi sbaglierò, ma ho l'impressione che se certi papà di oggi si dedicassero più spesso alle “mansioni” che giudicano a torto soltanto femminili, i loro figli crescerebbero meglio.
                                                   
  
  




sabato 5 aprile 2014

Il segno dei giorni: abolire e in fretta.
Di Paolo Maria Di Stefano



Da sinistra: Gaccione, Di Stefano, Seregni 

Quelli che abolire le province pensano possa essere la soluzione non solo di problemi economici, ma anche di efficienza e di razionalità nell’organizzazione. Così, da anni si pensa che le Province debbano essere cancellate, sostituite (probabilmente, ma non è certo) dalle megalopoli oppure (o anche) da associazioni di sindaci. E si corre a cercar di provvedere in tal senso, visto anche che uno dei sistemi potrebbe essere costituito dal mancato svolgimento delle elezioni. Con inevitabili dubbi e distinguo e rischi per la tenuta del Governo. Il quale ha già fatto ricorso alla fiducia, rimedio sovrano come quel balsamo di tigre di antica memoria oppure l’elisir del dottor Dulcamara.
Stessa cosa per l’euro e per l’Europa.
Ovviamente, nulla vieta che si pensi di poter fare a meno delle Province. Ma almeno un dubbio mi sembra lecito: non sarebbe meglio pensare a riorganizzarle, attribuendo loro quella funzione di armonizzazione delle (oggi e per ora inesistenti) pianificazioni comunali di gestione del territorio e della cosa pubblica che è sola garanzia di riduzione dei rischi dell’insorgenza di conflitti di interesse insiti in ogni e qualsiasi attività di gestione, e in particolare in quelle relative alla cosa pubblica? A me sembra una soluzione razionale: i comuni pianificano la gestione del territorio di competenza; le province risolvono i conflitti di interesse tra comuni e propongono pianificazioni “armoniche” alle Regioni le quali, a loro volta, dirimono i conflitti tra le Province, proponendo allo Stato pianificazioni di gestione praticabili senza conflitti. Infine, lo Stato armonizza i piani di gestione proposti dalle Regioni e realizza quel piano di gestione del territorio statale al quale in cascata Regioni, Province e Comuni si dovranno attenere scrupolosamente, realizzando quanto in essi contenuto. Piano operativo di gestione il quale, a sua volta, quando fosse finalmente esistente un’Europa degna dell’attributo di “unita” verrebbe confrontato con i piani di gestione dei singoli Paesi facenti parte dell’Unione, armonizzati i quali sarebbe elaborato un piano di gestione degli Stati Europei ai quali ogni singolo Stato dovrebbe attenersi.

E il disegno di un’Europa che armonizzi i piani di gestione dei singoli Stati in una pianificazione generale obbligatoria e coerente potrebbe essere la vera soluzione ai problemi che oggi agitano il continente, concreta e praticabile alternativa alla solita proposta di abolizione.

Quelli che abolire l’Euro l’hanno preso come inno di battaglia, urlando con violenza maggiore del solito e inneggiando ad una uscita, se necessario anche violenta. L’Euro deve morire. Almeno per noi italiani. 
A me sembra che un eventuale ritorno alle monete nazionali (per noi, alla lira) non solo sarebbe antistorico, ma comporterebbe problemi – questi sì – irrisolvibili. Seppur sia vero che la moneta unica è nata male, perché utilizzata come “causa” dell’unità, e non come effetto, che ci sia è oramai un dato di fatto, esattamente come un dato di fatto è la (lentissima e faticosissima) marcia verso l’unità delle genti, e quindi degli Stati e delle nazioni. Allora il problema non si risolve tornando alla lira oppure (perché no?) al fiorino o al baiocco, ma educando la gente alla unità, in fondo convincendo gli individui che la migliore tutela degli interessi di ciascuno si ottiene proprio lavorando insieme, anche cercando di migliorare quello che si è raggiunto.
Soprattutto, educando ciascuno di noi a ragionare in termini di “futuro della specie”, il che, tra le altre cose, imporrebbe di ragionare in termini di cambiamento del sistema economico.
A proposito del quale nessuno osa parlare di “abolizione”, così come tutti sembrano limitarsi ad auspicare una “ripresa” che sa tanto di restaurazione di quei fattori che hanno determinato tutte le crisi economiche degli ultimi due secoli, non solo, ma che operano provocando accelerazioni in progressione geometrica delle crisi stesse, le quali si verificano a intervalli sempre più ravvicinati e con virulenza crescente.

Quelli che il pubblico (da abolire!) pensano sia il male tutt’altro che oscuro della società e dello Stato Italiani. Che forse è vero, almeno nel senso che da noi l’impiego pubblico è praticamente da sempre considerato una sorta di diritto allo stipendio vita natural durante, senza obbligo alcuno di contropartita.
Con qualche corollario al quale non sarebbe male dedicare qualche considerazione in più.
Nella scuola pubblica, per esempio, è tuttora diffusa l’idea che l’insegnamento sia non tanto e non solo prerogativa femminile, quanto soprattutto una professione che impegna l’insegnante soltanto per una ventina di ore settimanali e che gode di tre mesi di ferie pagate, e dunque consente di dedicarsi ad altre cose.
E che comunque non può esser retribuito di più di quanto non lo sia il salario di un operaio che lavora otto ore al giorno.
Il che a parere dei più giustifica gli stipendi insultanti.
E certamente non è vero che il problema dell’istruzione pubblica si risolva occupandosi – per quello che si può!- dell’edilizia scolastica, elemento assolutamente importante, ma non il solo e, forse, neppure quello più urgente.
Occorre a mio parere che lo Stato si renda conto che l’istruzione della quale è responsabile si deve realizzare a livello di assoluta eccellenza, e questo comporta che sulla scuola pubblica convergano tutte le risorse. Non solo quelle disponibili, che normalmente e in Italia sono residuali, ma quelle necessarie, che comportano una pianificazione di gestione accurata e dunque la creazione di un sistema scolastico assolutamente efficiente e in grado di formare “prodotti diplomati e laureati” in grado di vincere la concorrenza nel mondo. 
La concorrenza utilizzi risorse proprie, con ciò anche dimostrando che quel “libero mercato” a cui dice di ispirarsi è una realtà.
E in un mercato libero non trova alcuna giustificazione che un’impresa finanzi i concorrenti, salvo forse qualche raro caso di tattica diretta a farne scomparire uno. Che sarebbe tutto da vedere nel perché e nel come, e che è probabile violi leggi in vigore.

Il “pubblico” cui si fa riferimento riguarda, ovviamente, anche settori diversi da quello scolastico, e sembra che tutti siano uniti da fattori i quali tutti sembrano convergere verso la presunzione assoluta di cui alcuni alti dirigenti (quelli cosiddetti “apicali”) hanno dato anche pubblicamente prova. O non è forse vero che responsabili di settori assolutamente inefficienti e comunque non eccellenti e talvolta anche in perdita secca osano conclamare che nel caso di una revisione (al ribasso) delle prebende sono pronti ad abbandonare?
Che vadano! Vedremo quale impresa privata li assumerà alle stesse condizioni.

E quelli che la burocrazia (da abolire anch’essa!) naturalmente bollano come causa prima dei mali italiani. Che appare verità sacrosanta, ma a proposito della quale è forse necessario ricordare che i burocrati, di livello alto o basso che siano, si muovono nell’ambito di leggi e di regolamenti almeno in apparenza tutti elaborati per impedire che si possa risalire al “responsabile”.
Figura mitica, peraltro, anche in molte imprese private. Personalmente ne ricordo una il cui “mansionario” stabiliva per ogni posizione che “risponde alla posizione superiore”. L’attività più impegnativa per tutti, dipendenti, collaboratori e clienti era il cercare chi fosse in grado di risolvere almeno uno degli innumerevoli problemi cui una gestione di impresa – soprattutto se grande e di livello internazionale – doveva e deve far fronte.
Così come per molti anni è accaduto nelle banche italiane – e ignoro se la cosa sia cambiata, ma nutro fieri dubbi in proposito – era impossibile risalire al responsabile, la burocrazia statale sembra beneficiare di un sistema diretto a mettere al sicuro l’impiegato, il funzionario, il capo ufficio, il capo servizio, il capo sezione, il capo divisione, il dirigente, l’amministratore delegato e il presidente attraverso una serie di norme di forza crescente, anche unite ad una collezione di simboli di stato assolutamente invidiabile, alcuni dei quali destinati a durare fino alla morte fisica del centenario titolare di pensione mille volte superiore a quella di un impiegato normale.

E della burocrazia fa parte, a mio parere, anche quella pletora di uscieri, autisti, inservienti, pagati mensilmente più di quanto un operaio non riesca a guadagnare in un anno. E’ ovvio che lo stipendio è meritato: sono i soli in grado di consentire ad un cittadino di raggiungere il “megadirigente galattico” in grado di risolvere il problema, fosse anche soltanto quello di sveltire la pratica.

Ma la burocrazia è un sistema in sé, ha personalità e capacità di agire, e, esattamente come accade ad un essere vivente, ha organi, sangue, nervi, muscoli. Toccarne anche uno solo significa turbare un ordine costituito e perfettamente funzionale a se stesso, e dunque mettere in forse l’esistenza dell’insieme.
Di qui, la difesa a oltranza, realizzata attraverso la pronta assunzione di qualità proprie dei muri di gomma e dei materassi.
Di qui, anche, la reazione ad ogni cambiamento: il muro di gomma assorbe, mentre prepara il rimbalzo, secondo una modifica propria della burocrazia della legge fisica secondo la quale ad ogni azione segue una reazione eguale e contraria. La modifica consiste nella circostanza che la reazione è in genere violenta e mortale per gli incauti che hanno provato a cambiare le cose. E la legge suona dunque più o meno: la burocrazia reagisce all’azione col silenzio e l’inazione finché non sia pronta l’arma letale.

E se l’arma letale fosse custodita negli arsenali dei sindacati?

Quelli che la disparità di genere (da abolire!) pensano possa risolversi per legge sembra facciano l’impossibile per far credere di avere a cuore la materia. In realtà, al di là della presa d’atto della capacità di suggestione del tema, stabilire sulla base delle differenze di sesso e della numerosità delle appartenenze il numero delle candidature e quant’altro non è che la dimostrazione, da un lato, di una non-cultura che tende a trascurare il merito e la professionalità; dall’altro, di un sessismo becero, capace solo di tentare di far credere in una apertura mentale da parte del “sesso forte”(!) pronto a cedere potere – e Dio solo sa quanto costa!- e dunque ad accreditarsi come “aperto e lungimirante”.
La realtà è che se non si interviene nella formazione a tutti i livelli, la forza fisica tenderà a rimanere l’ultimo grado di giudizio in una questione nella quale la stessa forza, oltre probabilmente a non esistere quasi più nella forma originaria, non ha nessuna rilevanza nelle attività del pensiero.
Io credo di poter garantire che le donne sono assolutamente migliori degli uomini. Le mie studentesse all’Università non hanno mai fatto ricorso alla morte reiterata del nonno di turno, e neppure ad altri mezzi ai quali più di un collega sarebbe stato sensibile. E neanche mai hanno vantato appoggi e raccomandazioni di sorta, com’è invece accaduto per qualche loro collega di sesso maschile, da promuovere perché figlio del preside o amico dell’imprenditore.
Che sono, poi, alcuni dei criteri che determinano nelle università l’attribuzione delle cattedre.