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sabato 5 aprile 2014

Il segno dei giorni: abolire e in fretta.
Di Paolo Maria Di Stefano



Da sinistra: Gaccione, Di Stefano, Seregni 

Quelli che abolire le province pensano possa essere la soluzione non solo di problemi economici, ma anche di efficienza e di razionalità nell’organizzazione. Così, da anni si pensa che le Province debbano essere cancellate, sostituite (probabilmente, ma non è certo) dalle megalopoli oppure (o anche) da associazioni di sindaci. E si corre a cercar di provvedere in tal senso, visto anche che uno dei sistemi potrebbe essere costituito dal mancato svolgimento delle elezioni. Con inevitabili dubbi e distinguo e rischi per la tenuta del Governo. Il quale ha già fatto ricorso alla fiducia, rimedio sovrano come quel balsamo di tigre di antica memoria oppure l’elisir del dottor Dulcamara.
Stessa cosa per l’euro e per l’Europa.
Ovviamente, nulla vieta che si pensi di poter fare a meno delle Province. Ma almeno un dubbio mi sembra lecito: non sarebbe meglio pensare a riorganizzarle, attribuendo loro quella funzione di armonizzazione delle (oggi e per ora inesistenti) pianificazioni comunali di gestione del territorio e della cosa pubblica che è sola garanzia di riduzione dei rischi dell’insorgenza di conflitti di interesse insiti in ogni e qualsiasi attività di gestione, e in particolare in quelle relative alla cosa pubblica? A me sembra una soluzione razionale: i comuni pianificano la gestione del territorio di competenza; le province risolvono i conflitti di interesse tra comuni e propongono pianificazioni “armoniche” alle Regioni le quali, a loro volta, dirimono i conflitti tra le Province, proponendo allo Stato pianificazioni di gestione praticabili senza conflitti. Infine, lo Stato armonizza i piani di gestione proposti dalle Regioni e realizza quel piano di gestione del territorio statale al quale in cascata Regioni, Province e Comuni si dovranno attenere scrupolosamente, realizzando quanto in essi contenuto. Piano operativo di gestione il quale, a sua volta, quando fosse finalmente esistente un’Europa degna dell’attributo di “unita” verrebbe confrontato con i piani di gestione dei singoli Paesi facenti parte dell’Unione, armonizzati i quali sarebbe elaborato un piano di gestione degli Stati Europei ai quali ogni singolo Stato dovrebbe attenersi.

E il disegno di un’Europa che armonizzi i piani di gestione dei singoli Stati in una pianificazione generale obbligatoria e coerente potrebbe essere la vera soluzione ai problemi che oggi agitano il continente, concreta e praticabile alternativa alla solita proposta di abolizione.

Quelli che abolire l’Euro l’hanno preso come inno di battaglia, urlando con violenza maggiore del solito e inneggiando ad una uscita, se necessario anche violenta. L’Euro deve morire. Almeno per noi italiani. 
A me sembra che un eventuale ritorno alle monete nazionali (per noi, alla lira) non solo sarebbe antistorico, ma comporterebbe problemi – questi sì – irrisolvibili. Seppur sia vero che la moneta unica è nata male, perché utilizzata come “causa” dell’unità, e non come effetto, che ci sia è oramai un dato di fatto, esattamente come un dato di fatto è la (lentissima e faticosissima) marcia verso l’unità delle genti, e quindi degli Stati e delle nazioni. Allora il problema non si risolve tornando alla lira oppure (perché no?) al fiorino o al baiocco, ma educando la gente alla unità, in fondo convincendo gli individui che la migliore tutela degli interessi di ciascuno si ottiene proprio lavorando insieme, anche cercando di migliorare quello che si è raggiunto.
Soprattutto, educando ciascuno di noi a ragionare in termini di “futuro della specie”, il che, tra le altre cose, imporrebbe di ragionare in termini di cambiamento del sistema economico.
A proposito del quale nessuno osa parlare di “abolizione”, così come tutti sembrano limitarsi ad auspicare una “ripresa” che sa tanto di restaurazione di quei fattori che hanno determinato tutte le crisi economiche degli ultimi due secoli, non solo, ma che operano provocando accelerazioni in progressione geometrica delle crisi stesse, le quali si verificano a intervalli sempre più ravvicinati e con virulenza crescente.

Quelli che il pubblico (da abolire!) pensano sia il male tutt’altro che oscuro della società e dello Stato Italiani. Che forse è vero, almeno nel senso che da noi l’impiego pubblico è praticamente da sempre considerato una sorta di diritto allo stipendio vita natural durante, senza obbligo alcuno di contropartita.
Con qualche corollario al quale non sarebbe male dedicare qualche considerazione in più.
Nella scuola pubblica, per esempio, è tuttora diffusa l’idea che l’insegnamento sia non tanto e non solo prerogativa femminile, quanto soprattutto una professione che impegna l’insegnante soltanto per una ventina di ore settimanali e che gode di tre mesi di ferie pagate, e dunque consente di dedicarsi ad altre cose.
E che comunque non può esser retribuito di più di quanto non lo sia il salario di un operaio che lavora otto ore al giorno.
Il che a parere dei più giustifica gli stipendi insultanti.
E certamente non è vero che il problema dell’istruzione pubblica si risolva occupandosi – per quello che si può!- dell’edilizia scolastica, elemento assolutamente importante, ma non il solo e, forse, neppure quello più urgente.
Occorre a mio parere che lo Stato si renda conto che l’istruzione della quale è responsabile si deve realizzare a livello di assoluta eccellenza, e questo comporta che sulla scuola pubblica convergano tutte le risorse. Non solo quelle disponibili, che normalmente e in Italia sono residuali, ma quelle necessarie, che comportano una pianificazione di gestione accurata e dunque la creazione di un sistema scolastico assolutamente efficiente e in grado di formare “prodotti diplomati e laureati” in grado di vincere la concorrenza nel mondo. 
La concorrenza utilizzi risorse proprie, con ciò anche dimostrando che quel “libero mercato” a cui dice di ispirarsi è una realtà.
E in un mercato libero non trova alcuna giustificazione che un’impresa finanzi i concorrenti, salvo forse qualche raro caso di tattica diretta a farne scomparire uno. Che sarebbe tutto da vedere nel perché e nel come, e che è probabile violi leggi in vigore.

Il “pubblico” cui si fa riferimento riguarda, ovviamente, anche settori diversi da quello scolastico, e sembra che tutti siano uniti da fattori i quali tutti sembrano convergere verso la presunzione assoluta di cui alcuni alti dirigenti (quelli cosiddetti “apicali”) hanno dato anche pubblicamente prova. O non è forse vero che responsabili di settori assolutamente inefficienti e comunque non eccellenti e talvolta anche in perdita secca osano conclamare che nel caso di una revisione (al ribasso) delle prebende sono pronti ad abbandonare?
Che vadano! Vedremo quale impresa privata li assumerà alle stesse condizioni.

E quelli che la burocrazia (da abolire anch’essa!) naturalmente bollano come causa prima dei mali italiani. Che appare verità sacrosanta, ma a proposito della quale è forse necessario ricordare che i burocrati, di livello alto o basso che siano, si muovono nell’ambito di leggi e di regolamenti almeno in apparenza tutti elaborati per impedire che si possa risalire al “responsabile”.
Figura mitica, peraltro, anche in molte imprese private. Personalmente ne ricordo una il cui “mansionario” stabiliva per ogni posizione che “risponde alla posizione superiore”. L’attività più impegnativa per tutti, dipendenti, collaboratori e clienti era il cercare chi fosse in grado di risolvere almeno uno degli innumerevoli problemi cui una gestione di impresa – soprattutto se grande e di livello internazionale – doveva e deve far fronte.
Così come per molti anni è accaduto nelle banche italiane – e ignoro se la cosa sia cambiata, ma nutro fieri dubbi in proposito – era impossibile risalire al responsabile, la burocrazia statale sembra beneficiare di un sistema diretto a mettere al sicuro l’impiegato, il funzionario, il capo ufficio, il capo servizio, il capo sezione, il capo divisione, il dirigente, l’amministratore delegato e il presidente attraverso una serie di norme di forza crescente, anche unite ad una collezione di simboli di stato assolutamente invidiabile, alcuni dei quali destinati a durare fino alla morte fisica del centenario titolare di pensione mille volte superiore a quella di un impiegato normale.

E della burocrazia fa parte, a mio parere, anche quella pletora di uscieri, autisti, inservienti, pagati mensilmente più di quanto un operaio non riesca a guadagnare in un anno. E’ ovvio che lo stipendio è meritato: sono i soli in grado di consentire ad un cittadino di raggiungere il “megadirigente galattico” in grado di risolvere il problema, fosse anche soltanto quello di sveltire la pratica.

Ma la burocrazia è un sistema in sé, ha personalità e capacità di agire, e, esattamente come accade ad un essere vivente, ha organi, sangue, nervi, muscoli. Toccarne anche uno solo significa turbare un ordine costituito e perfettamente funzionale a se stesso, e dunque mettere in forse l’esistenza dell’insieme.
Di qui, la difesa a oltranza, realizzata attraverso la pronta assunzione di qualità proprie dei muri di gomma e dei materassi.
Di qui, anche, la reazione ad ogni cambiamento: il muro di gomma assorbe, mentre prepara il rimbalzo, secondo una modifica propria della burocrazia della legge fisica secondo la quale ad ogni azione segue una reazione eguale e contraria. La modifica consiste nella circostanza che la reazione è in genere violenta e mortale per gli incauti che hanno provato a cambiare le cose. E la legge suona dunque più o meno: la burocrazia reagisce all’azione col silenzio e l’inazione finché non sia pronta l’arma letale.

E se l’arma letale fosse custodita negli arsenali dei sindacati?

Quelli che la disparità di genere (da abolire!) pensano possa risolversi per legge sembra facciano l’impossibile per far credere di avere a cuore la materia. In realtà, al di là della presa d’atto della capacità di suggestione del tema, stabilire sulla base delle differenze di sesso e della numerosità delle appartenenze il numero delle candidature e quant’altro non è che la dimostrazione, da un lato, di una non-cultura che tende a trascurare il merito e la professionalità; dall’altro, di un sessismo becero, capace solo di tentare di far credere in una apertura mentale da parte del “sesso forte”(!) pronto a cedere potere – e Dio solo sa quanto costa!- e dunque ad accreditarsi come “aperto e lungimirante”.
La realtà è che se non si interviene nella formazione a tutti i livelli, la forza fisica tenderà a rimanere l’ultimo grado di giudizio in una questione nella quale la stessa forza, oltre probabilmente a non esistere quasi più nella forma originaria, non ha nessuna rilevanza nelle attività del pensiero.
Io credo di poter garantire che le donne sono assolutamente migliori degli uomini. Le mie studentesse all’Università non hanno mai fatto ricorso alla morte reiterata del nonno di turno, e neppure ad altri mezzi ai quali più di un collega sarebbe stato sensibile. E neanche mai hanno vantato appoggi e raccomandazioni di sorta, com’è invece accaduto per qualche loro collega di sesso maschile, da promuovere perché figlio del preside o amico dell’imprenditore.
Che sono, poi, alcuni dei criteri che determinano nelle università l’attribuzione delle cattedre.