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giovedì 22 maggio 2014

IL FILOSOFO E LE CIPOLLE
di Fulvio Papi


Fulvio Papi, Decennale di "Odissea" Sala del Grechetto
Biblioteca Sormani 29 settembre 2013 (foto, archivio Odissea)


Poiché sono un filosofo chiunque avrebbe il diritto di chiedermi la traduzione di parole come Entfrendung, Wahrheit, Aufang, Vorstellung, Spaltung, distinguendo quelle di uso comune che passano alla filosofia e quelle che appartengono più propriamente a un lessico teorico. Ma non credo che l'immaginario “costui” possa però chiedermi di narrare la storia delle cipolle comperate al supermercato. E invece è una vicenda molto interessante. Le cipolle sono state coltivate in Olanda (che associavo invece ai tulipani). Sono state raccolte, messe in contenitori adatti e poi avviate a un lungo viaggio suppongo in treno. Poiché la loro destinazione era una località in provincia di Ferrara, suppongo ancora che l'ultimo tratto l'abbiano fatto su un autocarro. Quivi le hanno “lavorate” distribuendole in sacchetti che hanno di nuovo viaggiato fino a Milano per finire in un supermercato dove il “consumatore” (parola orrenda) le ha comprate trovandone una non commestibile. Ed è comprensibile dopo un viaggio che avrebbe creato problemi anche a un esploratore dell'Ottocento che poi avrebbe tenuto la sua relazione alla Società geografica di Londra.
Si sa che le merci viaggiano più dei signori ricchi nell'ultimo tratto romantico tra Baden Baden, Parigi e Montecarlo. Ma le cipolle? Il prezzo finale tra costi di produzione e una distribuzione complessa non è difficile da immaginare. Aiutandoci con i prosciutti della Baviera distribuiti da ditte importatrici, che appaiono -per una induzione ovvia- come locali produttrici, e le famose patate finite in televisione, si potrebbe tentare di scrivere la malora (la parola nel significato degli scritti di Fenoglio) della nostra agricoltura che non ignori però le mozzarelle di bufale malate e i pomodori nati su terreni inquinati da scorie decennali. La storia sarebbe istruttiva sugli errori compiuti sul territorio da ideologie autoritarie e da politiche cieche che non hanno capito molto su quali potevano essere le più adatte condizioni di sviluppo. Ovviamente erano rischi e non certezze, ma probabilmente minori rispetto a quelle che corrono oggi i lavoratori e tutta la popolazione di Taranto. Dato la pochezza dei tempi non vorrei che qualche politecnico, e anche monocultore, volesse internazionalizzare il lavoro storico suggerendo la sua scrittura in inglese. Naturalmente ogni lingua ha il suo contesto scientifico o popolare (faccio colpa alla tivù di aver distrutto la musica delle parlate locali). E per aiutare i politecnici ricorderò che persino Hegel scrisse la sua tesi in latino come se la si dovesse leggere a Roma. Anche se sul tedesco comunque aveva la stessa opinione di Herder. Una lingua che però non è proprio identica ad Amburgo o a Stoccarda (come sapeva un grande scrittore russo come Nabokov che, del resto, era emigrato in America).

Non bisognerebbe mai cominciare a viaggiare con le cipolle.