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domenica 21 settembre 2014

Celentano o Carl Schmitt?
di Giovanni Bianchi



Dilemmi
Celentano o Carl Schmitt? La Merkel o Soros? Questo è il problema…
Adriano Celentano, uno dei migliori cantanti del nostro dopoguerra ed anche di maggior successo popolare, non smentisce l'abitudine a intervenire "da vate" delle vicende della politica italiana. L'ultimo titolo apparso su "il Fatto Quotidiano" di martedì 9 settembre è come al solito da subito eloquente: Io, Renzi, Grillo e la "dittatura democratica".
L'intento è quello di rispondere a una domanda non certo riposante: "Cosa ha prodotto la sovranità popolare negli ultimi 50 anni"? Con la specificazione necessaria del gossip istituzionale messo in bocca al premier Matteo Renzi: "Ciò che davvero serve è una "DITTATURA democratica", dove l'approvazione di una legge non dovrà più sottostare all'eterno ping-pong senza uscita fra le due Camere".
Ovviamente ce n'è per tutti, dopo una premessa di furbizia semplice e trasparente, dove quello che un tempo veniva definito "il molleggiato" fa esercizio insieme di umiltà e di rappresentanza illimitata: "Io che sono il re degli ignoranti"... E infatti quel che non manca a Celentano è una vasta informazione dei fatti correnti e "normali", e uno spirito critico insieme vigile e non spocchiosamente specialistico:
"Viviamo in un mondo in cui, come giustamente dice il Papa, è in atto (sia pure a piccoli sprazzi) la terza guerra mondiale. Dove, oltre alle bombe, non mancano i cretini che, per paura di essere dimenticati, sganciano frasi non meno pericolose. Dove i nemici come la Rai, e altrettanto dicasi di Mediaset, bombardano di spot pubblicitari la mente dell'uomo con una frequenza devastante, dove l'INSERTO non è più quello dello spot pubblicitario che interrompe il film, ma al contrario è il film che interrompe la pubblicità con tanti piccoli frammenti di "Ben Hur" distribuiti nella intera serata pubblicitaria. E qui capisci che la guerra è molto più sottile e penetrante. Perché lacera i sentimenti".
È possibile non sottoscrivere?
Celentano tiene insieme con disarmante coerenza la quotidianità della proverbiale casalinga di Voghera con la critica superstite necessaria alla sopravvivenza di queste democrazie a rischio. Ti dice che il pensiero unico è certamente unico ma non-pensiero. E che quindi la democrazia deve essere difesa come uno dei principali se non il principale bene comune.
E neppure manca alla fine – come si addice più al vate che al leader – una accattivante esortazione etico-politica: "E per farlo è necessario che la società popolare  sia investita da un senso nazionale di crisi, non per addentrarsi nei meandri di un incubo, ma al contrario per accomunarci tutti insieme lungo il sentiero della trasparenza e dell'onestà. E questa è una pulizia che deve partire dal popolo".
Perfetto? Perfetto! Perfetto perché non vi troviamo le facili promesse di chi ha dimenticato che il De Gasperi ricostruttore amava ripetere che il politico deve promettere ogni volta un po' meno di quel che è sicuro di mantenere. Perché invita al realismo di chi è in grado di fare una diagnosi di "decadenza" senza indulgere alla depressione, ma anzi invitando alla riscossa e individuando nel popolo il solo soggetto capace. E infatti i fautori delle democrazie con aggettivi non sempre appropriati sembrano talvolta dimenticare che se esistono popoli senza democrazia, non esistono tuttavia democrazie senza popolo. Infine, Celentano ha il buon gusto di non raccontare barzellette al funerale.
Ma perché Celentano?
Perché è l'ultima incursione, fino a questa sera, di un non addetto ai lavori nella vicenda politica italiana. Non si tratta storicamente di una novità, se si ricorda come nel dopoguerra e durante tutto il tempo della Prima Repubblica personaggi non istituzionali siano intervenuti, vigorosamente e non di rado polemicamente, a interrogarsi sulla via e ad indicare il traguardo. Ricordate Pasolini? I suoi saggi corsari sono uno strumento paragonabile a quelli usati in Francia da Zola e Victor Hugo. Ricordate Italo Calvino? Stesso discorso. Insomma anche lui ha l'autorità del outsider autorevolissimo e da sempre legittimato a dire la sua.
La differenza però tra queste nostre giornate politiche e quelle di un tempo è che chi interviene lo fa in una terra oramai di nessuno, dove la segnaletica istituzionale e i recinti organizzativi sono da tempo azzerati senza che nessuno abbia finora posto mano a ricostruirne dei nuovi.
Ho più volte scritto che considero il cardinale Carlo Maria Martini l'ultimo luogo minerario del cattolicesimo democratico italiano. È per questo ruolo che gli ho attribuito che ritorno sovente ai suoi interventi. In uno di essi diceva senza tanti giri di parole: "La politica sembra essere l'unica disciplina che non abbia bisogno di un sapere specialistico. I risultati sono di conseguenza". Ed è su queste conseguenze più che sulle incursioni dei non addetti ai lavori che è necessario riflettere con urgenza.

Il verbo di uno spregiudicato finanziere
È per questo che ritorno ad un saggio del finanziere George Soros sui rischi di frantumazione dell'Europa, pubblicato con il titolo Ultimatum a Berlino. La Germania deve decidere: o guida l'Unione o la lascia, pubblicato nel supplemento "La Lettura" del "Corriere della Sera" di domenica 9 settembre 2012.
Soros, il grande finanziere di origini magiare che ha fatto fortuna negli Stati Uniti d'America, è uomo dal cuore non particolarmente tenero, se tutti possiamo ricordare come una sua manovra speculativa – spietata e per lui vantaggiosissima – fece finire la lira fuori dal cosiddetto "serpentone", costringendo l'allora primo ministro Giuliano Amato alla più pesante finanziaria di tutto il dopoguerra italiano.
Il suo ragionamento tuttavia non manca di acutezza, e non è neppure privo di quel realismo che ha caratterizzato l'intervento del cantante Celentano su "il Fatto Quotidiano".
Osserva anzitutto Soros: "Gli Stati membri sono divisi in due categorie – creditori e debitori – e i creditori sono al comando, con la Germania in testa. Come risultato delle politiche attuali, i Paesi debitori pagano un cospicuo premio di rischio per finanziare i propri deficit di bilancio e questo si riflette nel costo dei finanziamenti in generale. Una situazione, questa, che ha trascinato in recessione i Paesi debitori esponendoli a un notevole svantaggio competitivo, che minaccia di diventare permanente".
Fotografia puntuale, anzi, una perfetta radiografia. Da qui il discorso sulla leadership assente e su una responsabilità da assumere. " La Germania, il maggior Paese creditore, si è trovata ai comandi, ma si è rivelata riluttante ad accollarsi ulteriori perdite e svantaggi: così ogni opportunità per risolvere la crisi è andata perduta. Dalla Grecia, la crisi ha contagiato altri Paesi in difficoltà e ben presto è stata rimessa in questione la sopravvivenza stessa della moneta unica".
Né fa difetto una previsione realistica: "Le misure di politica economica portate avanti sotto la leadership tedesca riusciranno probabilmente a mantenere in piedi l'euro per un periodo indefinito, ma non per sempre. La divisione permanente instauratasi in seno all'Unione Europea tra Paesi creditori e debitori – con i creditori che dettano le loro condizioni – appare politicamente inaccettabile". Qui stiamo ancora, e due anni sembrano essere passati invano.
Le ipotesi e la ricetta di Soros viaggiano di conseguenza: la Merkel dovrebbe offrire condizioni operative paritarie tra Paesi creditori e debitori e puntare a una crescita nominale del 5%. Ma la Bundesbank non accetta troppa inflazione, e quindi la situazione è destinata a languire e corrompersi.


Uno sguardo al passato
Uno sguardo al passato può aiutare rammentando come il processo di integrazione sia stato promosso con forza da un piccolo gruppo di statisti lungimiranti che praticavano un processo di ingegneria sociale "a tassello": così definito da Karl Popper. E Soros annota di suo: "In quel periodo, gli statisti tedeschi affermavano che la Germania non aveva una politica estera indipendente, al di fuori di una politica europea. E questo ha prodotto un'enorme accelerazione del processo di integrazione, culminato con la firma del trattato di Maastricht nel 1992 e con l'introduzione dell'euro". Va anche ricordato che Helmut Kohl ripeteva che in quella condizione la Germania intendeva difendersi da se stessa…
Non lo stesso però aveva nel frattempo fatto la Grecia – corriva al vizio “mediterraneo” del taroccamento dei bilanci – il cui governo fu costretto a dichiarare nel dicembre del 2009 che il suo predecessore aveva truccato i conti e che il deficit dello Stato superava il 15% del Pil. Intervengono a questo punto del ragionamento di Soros sul "Corriere" tutta una serie di considerazioni pertinenti, etiche e linguistiche, e tuttavia attinenti al disastro finanziario dell'antica patria della democrazia.
Soros ricorda, come molti altri, che nella lingua tedesca la parola debito significa anche colpa: Schuld. Un modo abituale di sentire ed una diffusa base culturale che spinge l'opinione pubblica tedesca ad accusare i Paesi periferici più indebitati di essere colpevoli oltreché disattenti e spreconi, e quindi causa morale dei propri mali.
Tuttavia, anche in presenza di questa visione, il "centro" dell'Europa, sempre secondo il finanziere magiaro-americano, non può venir meno ai doveri della leadership e sottrarsi alle proprie responsabilità. Conclusione provvisoria: "Le autorità non hanno capito la complessità della crisi, figuriamoci trovare una soluzione. Pertanto hanno cercato di prendere tempo". Come a dire che l'italo-andreottiano "tirare a campare" non è soltanto italiano e neppure andreottiano.
Ad aggravare la situazione, la Bundesbank è rimasta aggrappata a una dottrina monetaria superata, tuttavia radicata nella storia tedesca per la memoria della spaventosa inflazione seguita alla prima guerra mondiale. Del pari i tedeschi ignorano e sottovalutano la deflazione, che oggi rappresenta il vero spauracchio dell'Europa. Il rigore fiscale germanico ha questa radice, mentre l'avanzare della crisi ha fatto sì che il sistema finanziario in generale si sia progressivamente riorientato su base nazionale.
Non mancano tuttavia segnali positivi, come il sostegno accordato da Angela Merkel a Draghi, che in quella occasione lasciò la Bundesbank isolata nella sua contrarietà. E tuttavia il rigore fiscale continua a spingere l'Unione nella trappola deflazionistica del debito, e se i governi indebitati vogliono ridurre il deficit di bilancio, l'economia si contrae, facendo lievitare il deficit come percentuale del Pil.
Come uscire allora dalla crisi? Secondo Soros l'alternativa è davvero secca: la Germania deve cioè decidere se diventare un egemone solidale o lasciare l'euro! Neppure funziona il discorso delle “due velocità”, perché un'area euro a due livelli finirebbe per distruggere l'Unione Europea, perché i Paesi privati di diritti presto o tardi si ritirerebbero.
Ed inoltre il mercato comune e l'Unione Europea avrebbero potuto gestire il default di un piccolo Paese come la Grecia, ma non potrebbero sopravvivere al distacco della Spagna o dell'Italia…  e ovviamente anche della Francia.
Lo spettro è ancora quello dello sbriciolamento come accadde allo Sme nel 1992 (e detto da Soros mette concretamente i brividi).
Si può dunque biasimare la Germania per le politiche imposte all'Europa, mentre i cittadini tedeschi si sentono ingiustamente incolpati dagli altri popoli europei: ancora una volta i vecchi malintesi regnano sovrani. E forse si tratta di cogliere fino in fondo, scavando addirittura nell'inconscio di una grande nazione, le ragioni della riluttanza alla leadership tedesca.
In presenza dei capolavori tattici di Angela Merkel: che non è soltanto un formidabile leader, ma anche un politico abilissimo che sa come mantenere divisi i suoi avversari.
Secondo Soros, l'Italia  "sembra aver bisogno di un'autorità esterna che le imponga una più attenta gestione dell'economia, e questo spiega come mai gli italiani sono sempre stati talmente entusiasti dell'Unione Europea"...
“In breve –secondo Soros– la situazione attuale è come un incubo da cui si può sfuggire soltanto svegliando la Germania e rendendola consapevole degli equivoci e delle incomprensioni che stanno guidando le sue scelte. Ci auguriamo che la Germania, davanti alla scelta, opterà di esercitare una leadership solidale. In caso contrario, dovrà fare i conti con le perdite che inevitabilmente ne deriveranno".  Come a dire, anche dal punto di osservazione e dall'astuta competenza di un grande finanziere, che il discorso imprescindibile è quello della politica e delle sue visioni.
Ne erano capaci padri fondatori. Ne sembrano molto meno avvertiti gli attuali parlamentari di Strasburgo, che anzi fanno figura, all'indomani di una campagna elettorale condotta anche in Italia con gli stilemi dello strapaese, come la parte elettiva di una appesantita burocrazia europea.