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domenica 12 ottobre 2014


Trattato sulla imbecillità: abbozzo di una scaletta.
di Paolo Maria Di Stefano


Sillogismo: premessa maggiore, sia a Napoli che a Genova si è avuta la prova che l’uomo è intriso di imbecillità; premessa minore, Napoli e Genova sono unite dal mare; conclusione: dunque, il mare è veicolo di imbecillità. Corollario: aboliamo il mare.
Nonostante le dimensioni, a Genova quantitativamente maggiori che a Napoli, la dimostrazione dell’imbecillità di noi uomini è scoppiata nella capitale della Campania con virulenza e gravità a mio parere senza paragoni, quanto a gravità, con quanto non si sia riscontrato in quella della Liguria.
A Napoli. Un ragazzino è stato “punito” perché troppo grasso da tre uomini che hanno tentato di gonfiarlo ancora utilizzando un compressore. Gesto idiota e criminale, forse più idiota che criminale, commesso da criminali idioti.
Che non ostante tutto non è la cosa peggiore.
Un intero popolo di antica e colta civiltà – quello napoletano – è stato insultato dai parenti dell’idiota i quali lo giustificano con convinzione: ha scherzato. E, secondo loro, non c’è nessuna legge che punisca uno scherzo, per quanto idiota esso sia, e uno scherzo non può essere qualificato come un tentativo di omicidio. Così dicono, loro, i parenti degli imbecilli. I quali parenti, forse, dovrebbero essere incriminati per questo tipo di atteggiamento. E puniti.
Ripeto: un’intera popolazione, quella napoletana, vede la propria immagine, già compromessa dalla diffusa tendenza a far corpo unico quando si tratti di difendere teppistelli da strapazzo (e non solo) dall’intervento delle forze dell’ordine, peggiorare alla grande. Perché non si ribella?  Che si sia veramente perso il senso dell’umanità, dell’etica, e delle responsabilità degli educatori?
A Genova. Quattro torrenti si sono accordati per rivendicare il diritto a scorrere liberamente verso quel mare che li aspetta da sempre e che da sempre sopporta lo scarico di tutto ciò che le acque trascinano, quasi a premiare lo sforzo di superare le costrizioni di argini non naturali e le privazioni d’aria e di luce che l’interramento comporta.


Qualcuno sostiene che la natura non pensa, e quindi non è in grado di apprezzare la libertà. E tanto meno di concordare azioni coerenti con la sua affermazione.
Sarà anche vero, ma è certo che la natura offesa e imprigionata presto o tardi si libera e si vendica.
E per farlo sceglie l’occasione propizia e usa tutta la forza di cui è capace.
La storia, e la cronaca – che della storia è un seme – lo hanno ampiamente dimostrato.
Così confermando, qualora ce ne fosse bisogno, oltre un egoismo degli uomini che non ha confini, l’incapacità di apprendimento e i processi assolutamente illogici di troppi dei nostri ragionamenti, portati ad affermazioni di principio –in genere indimostrate- ed alla ricerca di colpevoli “altri da noi”. E non è forse vero che, almeno nell’accezione comune, imbecille è chi non è capace di ragionamenti logici?
Così, quella astrazione chiamata burocrazia è caricata di responsabilità che, invece, sono in capo a ciascuno ed a tutti noi. A cominciare proprio dalla burocrazia stessa in quanto “organizzazione di persone e risorse destinate alla realizzazione di un fine collettivo secondo criteri di razionalità, imparzialità e impersonalità”, divenuta “sinonimo di corruttela, arbitrio, intrallazzo, cospirazione, financo omicidio: ben lontani dunque dall’idealizzazione impersonale di rettitudine elaborata molti secoli più tardi”. Così, Wikipedia alla voce burocrazia, anche citando Tacito che, nei suoi Annales, parla dei proto-burocrati Pallante, Narciso e Callisto, i liberti cui l’imperatore Claudio aveva affidato i diversi uffici, come di persone che “esercitavano poteri regali con animo di schiavi”.
Il bello è che non sembra esserci alcun bisogno di scomodare l’antica Roma, patria del nostro diritto e della nostra cultura e civiltà, cose peraltro tutte ormai passate al dimenticatoio: basta ricordare che “la burocrazia” impersona l’organizzazione dello Stato ed è “disegnata” in ogni suo aspetto dalle leggi che sono il frutto dell’attività illuminata, professionale e finalizzata del nostro Parlamento.
Che significa: se la burocrazia riesce a mettere in cima agli obbiettivi la propria sopravvivenza e la sicurezza dei propri organi, è perché le leggi che la strutturano e la governano hanno più di una pecca. Ed è quindi quanto meno improbabile che si riesca a correggere i guasti provocati (anche) dalla burocrazia senza mettere mano alla sua struttura, alle sue competenze, alle sue garanzie.
Che significa mettere mano alla (ri) organizzazione dello Stato. Che non è, la riorganizzazione, un problema di interventi spot più o meno coerenti: occorre ridisegnare la persona “Stato”, costruire un modello al quale ispirarsi per la gestione di tutti gli scambi di cui lo Stato è soggetto attivo e dunque per le attività legislative, quelle giudiziarie e quelle “economiche”.
E, naturalmente, occorre “ridisegnare” il progetto formativo e culturale, perché soltanto in forza del “sentire” di ogni individuo, e della cultura di ciascuno di noi, si può sperare che il legislatore sia in grado di produrre buone leggi, che l’interpretazione delle quali sia univoca e certa; che la prevalenza dei comportamenti sia vestito di etica e di senso della comunità.
E via di seguito, quasi all’infinito.
Quanto all’oggi – che, si dice, non può attendere più che tanto – che fare?
E’ certa l’esistenza di problemi che vanno risolti nell’immediato, e i due che sono stati occasione di questa nota sono tra questi.
Bene: occorre, forse coraggio e freddezza.
Per i fatti di Napoli (ma, attenzione: non è la sola città in cui accadono cose simili o assimilabili a questa) intanto da un lato i giudici devono applicare le leggi che esistono per punire in modo esemplare sia gli autori materiali dello “scherzo” sia i loro sostenitori. A mio parere, “le leggi son ed anche è chi pon mano ad esse” (o almeno dovrebbe farlo): si tratta forse solo di renderle più chiare e certe e di rapida applicazione.
Per i fatti di Genova… Io non credo che si possa intervenire validamente se non abbattendo tutte le barriere che, dalla sorgente alla foce, impediscono “la naturale libertà di flusso”.
Che, tanto per essere chiari, significa anche, se necessario, ridisegnare la città, almeno nelle parti più a rischio. E provvedere all’eventuale trasferimento in altre aree e in diversa abitazione, che si spera siano migliori di quelle attuali, le persone danneggiate dalle alluvioni.