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mercoledì 31 dicembre 2014

Siamo circondati?
di Giovanni Bianchi

Gli imperi invisibili

Gli "imperi invisibili" ci attorniano e ci circondano? L'allarme è di Luigino Bruni. Quali allora i segni dei tempi? Da dove la salvezza?
Scrive sempre Luigino Bruni: "Mosé parlò così agli israeliti, ma essi non lo ascoltarono, perché erano stremati dalla dura schiavitù". Continua il Bruni avvertendoci che quando gli imperi cominciano a vacillare, i dominatori chiamano i maghi, gli aruspici, gli indovini, le fattucchiere, gli imbonitori televisivi, i presentatori dei talk-show. I dominatori chiedono a tutti costoro conferme che quanto di nuovo sta accadendo nel loro regno non è nulla di veramente preoccupante, e quindi spiegabile utilizzando la stessa logica dell'impero...
"Abbiamo assistito per anni al susseguirsi di divinazioni e di oroscopi dei maghi della finanza e dell'economia che ci volevano (e vogliono) convincere che le "piaghe" che stavano (e stiamo) vivendo non erano (sono) un segno forte della necessità di conversione e di cambiamento della logica profonda del nostro impero, ma soltanto oscillazioni naturali del ciclo economico, o errori e disturbi interni al sistema e da questo riassorbibili nel lungo periodo".
E allora? Tornano i "demoni"?
È la domanda di Marco Revelli intorno ai poteri. Ma cos'è il potere oggi? E com’è? Quali la sua immagine la sua essenza: come si tengono e come differiscono? Che cos'è la maschera del potere attuale? Del potere in atto?
Una risposta discende dall'analisi del comando proposta da Elias Canetti in Massa e Potere. Perché, se il potere è sempre mascherato, fingiamo di stupirci quando i guitti –in Italia come in Brasile– cercano di apertamente impadronirsene? Siamo così impotenti a decifrare il potere da suonare, divagando, tutta la tastiera delle mitologie disponibili, dalla Gorgone alla Medusa, alle Sirene...

Le maschere
Horkheimer
Ma non sono anch'esse maschere sontuose? Perché stiamo al gioco? Dunque il mito –spiace per Horkheimer ed Adorno– non si è affatto esaurito.
Le Sirene? In che senso il potere è anche femminile? Soltanto per lo sguardo dalla Gorgone o per la voce delle sirene?
Dentro e fuori dal mitologismo anche nella politica senza fondamenti e nella politica ridotta alla pubblicità la caccia al potere, al suo senso, alle sue infinite dissimulazioni non può e non deve essere differita. Nessuno deve occultare il rapporto perennemente problematico – tipo amico/nemico – tra potere e democrazia.
La democrazia è addomesticamento dei poteri, e se un potere cresce troppo la democrazia finisce a rischio. Io non sono Odisseo né figlio di Laerte, né ricco di infinite astuzie, ma del potere diffiderò finché campo. Tanto più in quest'oggi che è tutto un servitevi-da-soli che ha irriso e definitivamente messo in soffitta il troppo democristiano "spirito di servizio".
Se scema e si dilegua la solidarietà, il vuoto non resta a lungo. Nessun remake: al solidarismo succede rapidamente l'invidia sociale.
Tutto tace. Le Sirene si sono fatte afone e distratte alle rotte dei naviganti: solo la volontà di potenza sussurra senza posa né intervallo.
E il potere canta a tutti i microfoni possibili, anche con le voci dei giovani disoccupati che provano per disperazione l'avventura di X Factor.

Pasolini
Pasolini
Il Pasolini di una delle ultime interviste, quella dedicata a Salò. Le centoventi giornate di Sodoma, cerca di dar conto "della devastazione antropologica in corso nella coscienza stessa dell'Occidente". Davvero Pasolini è l'ultimo poeta.
Bando alle ciance, è sempre il capitalismo la Sirena: canta, suona, ma anche balla e soprattutto seduce sine intermissione, con sempre nuovi artifizi. È lui l'inventore principe e adesso viaggia col turbo nelle ultime generazioni del finanzcapitalismo. Include ed esclude. Il suo massimo capolavoro è di escludere includendo.
E chi se ne importa di chi vorrebbe esorcizzare PPP definendolo una sorta di campagnolo friulano antimoderno e reazionario, solo perché alla metà degli anni Settanta ebbe il coraggio di scrivere: "I giovani sono brutti o disperati, cattivi o sconfitti".
Forse non aveva ragione, ma ha avuto il coraggio di scriverlo, andando per l'ennesima volta controcorrente e contro la propria reputazione.





giovedì 25 dicembre 2014

ADDIO A GILBERTO FINZI

Gilberto Finzi in una foto di Dino Ignani

Alle 8,35 di questa gelida e luminosa mattina di Natale, si è spento all’ospedale Sacco di Milano dov’era ricoverato, l’amico poeta e critico Gilberto Finzi. Poeta e critico severo, Finzi non era disposto a transigere o fare sconti a chicchessia dal punto di vista estetico e della scrittura. Il rigore che egli applicava a se stesso lo applicava anche agli altri: amici compresi. Indisponibile al compromesso e all’opportunismo (tanto diffusi negli ambienti letterari italiani), questo suo rigore gli ha alienato molte simpatie e fatto perdere molte amicizie. La lettura del suo ultimo libro “Diario del giorno prima” che io ritengo un libro importante, darà il segno profondo di quanto sto qui sostenendo. In fondo quel libro, oltre ad un bilancio esistenziale e poetico, è anche uno spaccato impietoso del mondo delle lettere, dei legami, delle ingratitudini e delle indifferenze. Non va trascurato inoltre, che Finzi è stato un uomo di sinistra e le vergogne della politica italiana lo avevano profondamente disgustato. Le degenerazioni del potere politico fanno il paio con la degenerazione del potere culturale ed editoriale. Lui che è stato un protagonista attivo della scena culturale italiana, non ha mai approfittato del suo potere e si è sempre situato in una posizione marginale. Potrebbe suonare strana questa affermazione per un letterato che ha scritto per il maggiore quotidiano italiano, è stato amico di importanti poeti e uomini di cultura, ha scritto saggi, curato antologie, ha condiretto riviste, ha preso parte a convegni, letture, e così via. La sua scrittura è stata giudicata spesso ostica, e forse lo è, ma non mi pare che sia meno ostica quella di Montale o di Rebora. Come possiamo constatare, la grande editoria è andata orientandosi verso un livello sempre più basso e banale. Ad ogni modo i suoi libri ci sono ed il suo posto di poeta è ben saldo.  Nato a Mantova il 6 giugno del 1927, ha condotto il suo itinerario intellettuale fondamentalmente a Milano, città dove ha poi sempre vissuto. Vicino a “Odissea” sin dalla sua fondazione, non ha voluto far mancare la sua testimonianza in occasione del primo anniversario del passaggio in Rete del giornale, mandandomi una affettuosa lettera-poesia pubblicata, assieme ad una foto scattatagli dal fotografo romano Dino Ignani, nella Rubrica “Campi Elisi” e che qui vogliamo riprodurre. Avrebbe voluto venire per la foto ricordo dei “naviganti” di “Odissea” il 25 Ottobre scorso, sui gradini del monumento a Sandro Pertini, in via Croce Rossa (uscita della Metropolitana Montenapoleone) per festeggiare il I anniversario, ma non stava bene e non aveva potuto. Ho stampato e conservato però la spiritosa e affettuosa lettera-email che mi mandò il 9 Ottobre, per ringraziarmi della nota che avevo fatto per il suo libro “Diario del giorno prima” e che i nostri lettori possono rileggere nella Rubrica “Il pane e le rose”. Voglio invece riprodurre qui in prima pagina la lettera inedita e la poesia scelta da Loredana e dalla figlia Paola, perché è un modo per risentire le sue parole e la sua voce, che per me, e per quanti lo hanno conosciuto, rimane viva e presente.                                  
ANGELO GACCIONE

P.S. “Odissea” darà indicazioni appena possibile sui funerali e il ricordo funebre che Paola e Loredana stanno organizzando, mentre il nostro giornale ospiterà ricordi e testimonianze di vari amici poeti a cui li abbiamo sollecitati, man mano che ci giungeranno.
La cerimonia funebre sarà martedì 30 alle ore 15,30 presso il cimitero di Lambrate.

Gilberto Finzi durante una lettura allo Spazio Scopri Coop
di Milano, organizzata dall'Ass. Culturale "Milanocosa"
dell'instancabile poeta Adam Vaccaro e dal poeta e musicista
Giacomo Guidetti 
  
*
Questo giorno o un altro
con i miei avi in fila
dietro i secoli chiari e oscuri
fino all’accidia del non – fare
conterò
i piccoli spazi tra le cose
che più non vedi, i luoghi
mai visitati, i sensi del mistero
volutamente ignorati,
i fermi voli delle poiane,
le fontane: bere, bere
o affondare nelle riviere dove
la canna cresce, e il fango
fa le isole finte, e sprofonda.


Questo giorno o un altro
cercherò di salire, o scendere,
fermo nella terra ignota,
un vulcano in cuore, e nella mente
il solito silenzio

[09,09, 2011]

(Questa poesia scelta da Loredana Bocchio che con Gilberto ha condiviso un lungo tratto di vita standogli vicino fino alla fine, è tratta dall’ultimo splendido libro di Finzi “Diario del giorno prima”, Nomos Edizioni)
                                              *

Lettera-poesia all'amico Gaccione

Caro Amico, ecco i pochi versi
di un poeta vecchio e senza voce.
So la tua premura, e ti ringrazio
per le cose che ancora riesci
a dire nell’infelice mondo che ci circonda.
Sappi che sono con te, pronto
e libero con la mia gola logora:
“Odissea” rispecchia una storia
che mi riguarda, e sento
di doverti parole sincere
dove la poesia è un lusso
che non posso più permettermi,
solo come un astro
che non dà più luce.
Ma mi hai mosso
a scriverti e a ricordarti, e questo
è un fatto che mi riporta
a climi antichi, a Ulisse che ritorna
e i Proci trafigge, sperando
che tutto ritorni vero, e lui
giovane, e i versi un canto
di vittoria.
Per sempre, tuo
Gilberto Finzi

                            *
Lettera inedita
     
Gilberto Finzi (Milano, 9 Ottobre, 2014)
17:58 (21 ore fa)

Caro Angelo, non è che possiamo smarrire qualche altro mio libro? Scusa, ma solo un inizio comico poteva scongiurare la caterva dei ringraziamenti, la massa dei complimenti
per la bellissima recensione al mio Diario. Tanto più che un libro così, di editore esordiente o quasi, di note critiche ne ha avute poche (5  o  6) anche se di spessore e inventive come quella di Zaccuri su “Avvenire”. Anche per questo tengo cara la tua ampia nota, e le citazioni ivi contenute. Non so che altro dirti: posso solo autocitarmi. Con tutto quel che accade nella schifosa vecchiaia e purtroppo nella nostra miserevole politica userò un distico finale di una poesia ironica cha amo:
“Comprerò coi mocassini / Manitù  dai pellerossa”.  
                                      
Ad majora! Un abbraccio, tuo Gilberto                                      

                                                      *
                                           Cliccare sulla pagina per l'ingrandimento
Corriere della Sera 27 dicembre 2014
pagina della Cultura, testo di Franco Manzoni 

                                                                     *

NEL SEGNO PROFONDO DI UN’AMICIZIA

Anita Sanesi è stata sicuramente la persona che negli ultimi anni, per lo meno a partire dalla scomparsa del marito, il poeta, critico e traduttore Roberto Sanesi, è stata più vicina a Gilberto Finzi. Finzi aveva per Anita affetto e stima e ne era ricambiato. La casa con giardino di via Machiavelli al numero 10, fra le poche case aperte di questa città sempre più affettuosamente avara, è stata sempre aperta a Gilberto, Loredana e ai loro comuni amici, ed era l’unico luogo dove il poeta mantovano andava volentieri. Una casa piena di disegni di Roberto, dei suoi tanti libri, delle sue impronte, dei quadri e sculture di amici artisti, accumulati nei lunghi anni del suo lavoro di critico, e che a noi che continuiamo a frequentarla ci pare pregna e carica dello spirito del suo proprietario, a Finzi doveva apparire molto di più di un luogo familiare. La lunga frequentazione dei due poeti, come segnala Anita in questo emozionante ricordo che ha voluto dedicare a tutti noi; la condivisione di uno stile; la comune passione per la poesia e per la scrittura; la comunanza di vedute sul piano del rigore etico-civile, le tante serate piene di conversazioni e di progetti, hanno nel tempo sedimentata un’amicizia profonda che si è anche tramutata in una sincera fedeltà alla memoria. Di questa fedeltà di Finzi verso lo scomparso amico Sanesi, abbiamo avuto diretta testimonianza, e ora che anche Finzi se n’è andato da questa vita, Anita gli restituisce pubblicamente, con questo ricordo, il segno vero di quell’antica amicizia. (A.G.)

Gilberto Finzi fotografato da Dino Ignani

Il tempo scivola grazioso sulle nostre spalle. Gilberto lo ha accolto con sottile "bonario" sarcasmo…   I due amici  erano lì, insieme. Belli, giovani, inquieti pensosi, fantasiosi e insofferenti dei formalismi borghesi, dell'astiosa compiaciuta ignoranza dei potenti, delle inarrestabili ingiustizie sociali...      
In quel tempo di allora, quando l'anarchico Pinelli veniva suicidato. Riunioni serali, davanti a un risotto di Anna, in contemplazione di una grande utopia morale che, com'è nelle cose della vita, non si è mai avverata.                                                                                      
Un combattente infastidito del combattimento, a cui però con ferma ostinazione non rinunciava.
Un serio infaticabile studioso infastidito dagli ignoranti ai quali rispondeva con pungente destrezza verbale. Ironicamente insofferente dei rimandi, dei dinieghi, del               
come senon saprei, forse, chissà, vedremo, è difficile, non si capisce… Eppure. 

Uso della parola nuda senza veli, e senza inutili decorative aggiunte.                                        
Uomo di stile in cui la forma è espressione del suo pensiero e del suo comportamento
li attraverso senza urtare il grosso della folla                                                                                        
Di fronte al mito del viaggio, di un viaggio in cui il fisico viene spostato altrove e di cui  molti si inebriano, spesso senza capire le differenze che pur  immobilizzano i  loro occhi, Gilberto ne rovescia il senso e con disprezzo per il movimento che non penetra la diversità, indaga dentro di sé, ricostruisce, immagina, giudica, legge.

 … seguo un'idea lontana/ come un luogo un'isola un sasso/fermi e solidi nel loro limbo inerti

Ha sorretto il suo spirito il grande amore per Loredana e  per  la figlia Paola.                                  
A me, Gilberto ha donato una bella amicizia fatta di attenzione, conoscenza, rispetto: 
una presenza consolatoria nella solitudine.                                                 
Un'Amicizia che ho dolorosamente perduto.
Anita Sanesi

                           *
Una testimonianza di Vincenzo Guarracino


“Noi non siamo vecchi ma solo / diversamente giovani”, dice proprio così uno degli ultimi versi dell’ultimo testo della sua ultima raccolta di Gilberto Finzi Diario del giorno prima, edito da Nomos nel 2012. “Diversamente giovani” oggi, all’indomani della sua morte, avvenuta a Milano in una gelida mattina di Natale del 2014, da aggiornare come “diversamente vivi”. Non è retorica: Gilberto, per chi lo ha conosciuto e apprezzato (amato?) in vita, continua a pronunciare attraverso la sua vasta e complessa opera una fede nella vita («Questa è la vita! L’ebete vita che c’innamora…»), nonostante tutto e comunque essa sia, col suo modo sarcastico di amarla, col suo modo di attraversare i casi della vita, della storia, senza illusioni ma non senza miti. Perché un mito, sì, Finzi lo aveva e ce lo lascia in preziosa eredità: quello dell’intelligenza, acuta, ironica, determinata a sconfiggere ipocrisie.
Un “angelo ironico con la spada sguainata”, lo si definirebbe con le parole con cui Walter Benjamin aveva definito Leopardi: chiuso nella sua corazza (“un’armatura in cui si rispecchia il mondo”) Gilberto con la sua intelligenza ha sempre riguardato tutto, presente e passato, con l’occhio dell’”uomo che giudica” e che “nel centro del futuro” vede solo “il senso oscuro”, una “profonda notte” (non la sua, quella esistenziale, beninteso, ma quella collettiva della perdita del senso), consegnandoci l’idea che ciò che conta sono “i piccoli spazi tra le cose”, la determinazione a giocare le proprie uniche risorse di infinito nel qui-e-ora col proprio “vulcano in cuore”, incuranti dello “scadimento” di valori, del “fango” che progressivamente minaccia. Con lo spirito del Leopardi di Amore e morte, “erta la fronte, armato / e renitente al fato”.

                                 *
Una testimonianza di Daniela e Lidia Riviello
rispettivamente moglie e figlia del poeta lucano

Roma. Gilberto Finzi scriveva che la prosa di Vito Riviello era come attraversata da una prepotenza poetica e fisica tanto da contrastare limiti e trappole di un neo realismo incalzante, come di un orfismo di maniera. Gilberto si occupò del saggio introduttivo alla prima opera di Vito, "Premaman" edito nei primi anni Cinquanta, parlando di 'immemorialità' e di quella magia che nasce dalla memoria.
Lo scorso anno rilasciò al fotografo Dino Ignani una testimonianza audiovisiva su Riviello, per arricchire i materiali del poeta che sono entrati a far parte dell'Archivio del Novecento, presso l'Università La Sapienza di Roma e dove è raccolto un cospicuo numero di lettere inviategli nel corso di parecchi anni. Quel giorno avemmo modo di rivederlo.
Poi leggemmo il bellissimo "Diario del giorno prima", ci scrivemmo nuovamente in seguito alla lettura e ci sentimmo per telefono. Ricordiamo molto spesso quell'incontro così speciale.
Daniela Rampa Riviello e Lidia Riviello


                                     *
Un pensiero di Franco Manzoni
Il poeta Franco Manzoni che di Finzi è stato amico (Gilberto ha fatto anche un’introduzione ad un suo libro), ci ha fatto pervenire questo pensiero che volentieri pubblichiamo.
Questa mattina, alle 8.30, è scomparso il poeta e critico Gilberto Finzi. Che la terra, a cui ritorni, ti accolga con amore nel suo grembo.

                           *
Un ricordo fotografico di Dino Ignani

G. Finzi in una foto di Dino Ignani

Roma, 25 dicembre 2014
Caro Angelo, una gran brutta notizia.
Tra l’altro nella notte è mancato anche Julio Monteiro Martins.
Ti allego tre fotografie di Gilberto Finzi, scegli tu quella che ti sembra più
rappresentativa.
Il mio ricordo sarà l’immagine che sceglierai. Lo fotografai con trasporto perché è
stato moto gentile e disponibile nelle due ore in cui ci siamo conosciuti.
ciao Dino                         
                                           *

Un messaggio di Gio Ferri
Caro Gaccione,
in questi giorni fra le mie reiterate malattie che non vogliono lasciarmi in pace e la morte di Gilberto non sono riuscito a combinare nulla di serio. Scusami. Non so se sai che l'omaggio di una cerimonia laica si terrà al,Cimitero Di Lambrate martedì prossimo alle ore 15,30. Verrà cremato e le ceneri trasferite subito a Mantova.
Il nostro programma è quello di dare breve notizia in TESTUALE 54  ora alla stampa preannunciando il n. 56 a lui dedicato. Scusami se in questi giorni abbastanza tristi e agitati non ti ho risposto subito: ma so che hai dato immediata notizia in ODISSEA
Grazie e un abbraccio.
Gio Ferri
                                      *

Claudia Azzola
Certo, Angelo, prendo nota. L'annuncio mi è arrivato anche da altre parti. Non voglio fare panegirici, perché conosciamo il valore dell'uomo, ma questa è proprio una grossa perdita.
Ciao, Claudia

***
Mirna Miglioranzi
Da poche ore Gilberto Finzi non è più insieme a noi; a noi è rimasto il grande patrimonio dei suoi pensieri poetici. Le poesie degli ultimi anni, quelle di una età non accettata, piene di presagi, la morte è vicina a lui e lui la sente. Vive la contemporaneità con dolorosa chiarezza la vita lo tormenta, gli accadimenti lo fanno soffrire. Scrive il patimento.

 "Sul mio nome già comincia
 ad accumularsi il nero
 del Tempo - chiamo senza risposta,
 affermo o nego vanamente -
 sono un antenato senza gloria,
 un sopravvissuto perlomeno,
 che non ringrazia il cielo per questo
 tenerlo sulla corda tesa della vita."

Sento profondamente questa assenza questa umana voce di uomo ricco di ingegno che aiuta tutti noi che lo abbiamo conosciuto a pensare alla vita con il suo straordinario sguardo.
Grazie di tutto questo con infinita tristezza e grande ammirazione.

***
  



VERTIGINI DI VITA NELLA LUNA NERA (*)
Lettura de L’oscura verdità del nero (e di Altro) di Gilberto Finzi
di Adam Vaccaro


Il verso che dà l’avvio al libro (Garzanti, 1987) tende a una sintesi tematica e stilistica dello svolgimento successivo: “tutto marcisce per un’altra vita” (p.11). Tempo presente del verbo, paratassi scabra, descrittività vestita di obiettività che appare indiscutibile, parascientifica. Lo sguardo e l’occhio sono, in tutta e prima evidenza, quelli delle modalità di linguaggio dell’Io (Mod-Io). Con alone, quindi, di ideologia della verità. Ma è bene procedere con cautela. Perché già il titolo della (prima) sezione – Arcani –  contraddice col suo richiamo a bordi irrazionali e imperscrutabili. Il ritmo, con ripetuti doppi spazi bianchi che intervallano due o più versi, procede infatti in ansimi che qualificano un tessuto testuale pieno di buchi: la serenità non abita qui, tanto meno la gioia. A strattoni esplode la rabbia, e in tinte disperate. Proseguiamo per prime verifiche nella lettura del componimento di p. 11 di cui abbiamo citato l’incipit; che subito seguito da una striscia di bianco, primo significante dell’altro (rispetto al verso), così prosegue:

la rigorosa perdita del pensiero coinvolge
il morbido sfiorire del cuore e del sesso
vivrò per vedere altri morire
altri amare altri sfiorire?

Il rigore descrittivo e il tempo presente scivolano con movimento franoso dal loro ipotetico trono di freddo pensiero; il quale, costretto a denunciare la graduale perdita di sé, cerca appigli in parallele sfioriture affettive e fisiche. Da notare come rigorosa perdita e morbido sfiorire funzionano da reciproci contraltari che si contraddicono (rigorosa/morbido), si specchiano (perdita/sfiorire) e si consolano. In questo intreccio, il richiamo allitterante delle erre di rigorosa perdita può suggerire un sapore di resistenza e fatica che trova riposo, ma anche strazio disperato, in morbido sfiorire. Insomma, il rigore analitico produce, a cominciare dall’area dell’Io, panico che si dilata e cerca (può cercare) consolazioni e morbidezze (solo) ai piani più bassi; anche qui, però, trova solo conferme che tendono a chiudere, anziché ad aprire, il cerchio disperante.
Il movimento rimane ad ogni modo dall’alto al basso, tendente a una sorta di invito a danzare in nero rivolto all’area mentale e alle corrispondenti modalità di linguaggio (Mod-Es) dominate da corporalità e affettività. Tuttavia le Mod-Es operano ancora sotto la superficie del testo: si manifestano in segni di ritorno di rimosso formale, esibito ad es. dalle rinunce a titolazione, maiuscole e punteggiatura. Perciò le Mod-Io resistono e, anzi, rilanciano tentando di coinvolgere le modalità di linguaggio dell’area mentale etica (Mod-Superìo). Infatti, il secondo distico, che segue un altro spazio di lingua tagliata, passa dal tempo presente al futuro. Ma la forma interrogativa segna e conferma ansia montante, che funziona da pneuma (o vuoto/pausa) che attira le Mod-Es.
Quindi, da questo primo assaggio, il piano descrittivo è solo una pedana d’abbrivo; che consente di far risaltare ancor più i crescenti successivi sprofondi d’angoscia, nei quali si evidenzia al centro il rapporto con la Morte o, meglio, il complesso intreccio vita/morte.
Dopo altri due distici di conferma e ulteriore accumulo dei sensi e dei ritmi precedenti, il crescendo angoscioso esplode e raggiunge il climax con i primi due versi dell’ultima strofe, un endecasillabo spezzato in senario e quinario più adeguati a vestire il respiro affannoso e la lacerazione irrisolta:

foglia foglia foglia
merda del tempo

È il primo grumo di indissolubilità vita/morte, in cui le Mod-Es emergono con forza, attraverso la ripetizione e la funzione metonimica del ritmo trocaico, martellante. Il tono di rabbiosa e impotente invettiva esprime però anche una ricerca di qualche forma di uscita da quell’abbraccio; di cui i due versi compongono anche un’immagine spaziale: la vita (del primo) che decade verso l’irreparabile conclusione del secondo.
Il furioso accesso non può frenare la discesa agli inferi, ma subito dopo conferma l’implicita ricerca. Questa trova la sua forma con il terz’ultimo e penultimo verso, dove ricompone ritmi più distesi con persino una qualche cantabilità, da endecasillabo a minore (primo emistichio quinario):

barrica il vento melodiosa magione
verza che spunti verminoso fiore
su terre spente della rovina

E nel sintagma melodiosa magione, cioè la poesia, la spiegazione. È come un recupero di atmosfere familiari cui attingere un minimo di consolazione: lampo di vita che non si arrende, (se è) capace di inventare e diventare luogo di metamorfosi, fiore che rinasce dove tutto marcisce, anche nella terra più spenta della rovina. La tendenza è dunque al tocco del “rovescio del plenilunio“ (p.12), al disegno di un panorama desolato, anzi di una esplicita (con inclusa citazione eliotiana) “terra desolata dal sole e dal nord“ (p.13). Ma qui troviamo il luogo dei luoghi, della complessità e degli, appunto, illuminanti rovesciamenti.
Non a caso la descrizione si riferisce alla “città del lilio“ (ibidem), Mantova, “Manto indovina” (ibidem) che è “l’Acquaferma” (ibidem) della propria origine. E’ in tale metafora di immobile primopunto della propria nascita e del proprio panorama mentale – punto più prossimo e insieme irraggiungibile – che vita e morte trovano il più indissolubile incrocio. Quel punto, dove risiede l’accecante nerità del nostro mistero, è l’arcano di tutti gli arcani: costituisce per ognuno “la città della vertigine (ibidem), sempre presente e sempre passata: è il punto di massima malia, verso cui cerchiamo di ritornare, sempre e quanto più ci avviciniamo alla Fine, o cresce in noi la coscienza di non poterlo (più) fare.
È questo il luogo, per tutti, del potere più oscuro e abbagliante, cui abbiamo bisogno di rivolgerci per illuminare e indovinare il futuro; perché esso possiede in effetti tutti i segreti del nostro successivo cammino, ma mai li svelerà completamente: li lascerà sempre (in parte) coperti come un “un desiderio dentro un’ombra” (ibidem). E qui subentrano snodi cruciali con impliciti inviti al movimento opposto a quello disegnato all’inizio di questa lettura: dal basso verso l’alto. Con successive domande: da dove viene la luce, e dov’è invece l’ombra?


La lettura in profondità del testo tende in effetti a un rovesciamento delle consuete categorie dell’io occidentale. Sono proprio le aree mentali dell’Io (e del Superìo) che diventano fonti di nero; mentre questo può rivoltarsi in luce nei luoghi più tipici del suo regno: corpo e sogni, desideri senza fine e terrori della fine, inarrivabili archetipi di vita e di morte. La conoscenza, insomma, non può venire (solo) da un rigore analitico, ma (di nuovo) da un incrocio col suo contrario: con tutte quelle che appaiono oscurità insuperabili e che non lo sono, se non cadiamo nella presunzione di una soggettività monodeterminata, di dominarle dall’alto.
Il senso emergente dal testo è dunque esattamente contrario a quello apparente. È questo senso che ci porta all’immagine del luogo (di luce) capace di un possibile presagio: “Manto indovina”. Ma la luminazione è problematica e profetica al tempo stesso, perché è da cercare nella sottoimmagine di Acquaferma: metafora non più, solo, del più profondo sé, ma di tutto il mondo contemporaneo.
È solo con questo collegamento che possiamo capire le rabbiose e coatte oscillazioni di fiera in gabbia de “la disordinata dòmina dell’io”(p.34), che dal suo “nero di nera luna”(p.24) vede una “Terra – strafertile morte”(p.23) dove trionfa “il coito nero col Niente”(p.14); è dalla denuncia (che coinvolge quindi l’area mentale del Superìo) di lugubri pratiche e massacri di sogni, che esplode il noi e la profezia disperante: “(non vedremo nessun futuro da qui)” (p.34).
È questo il punto di collegamento di profondità e superficie, di lontano passato e impossibile futuro, coagulato ne “l’oscura verdità del nero”(p.21) di un’acquaferma, da cui è sempre più difficile far partire navi di canto. Da qui prendono infatti forma le sezioni Stanze nere (mentali e poetiche), cui seguono gli squarci con colpi di sbeffeggianti sforbiciate di Misteri o cronache e di Comportamenti, che evidenziano ancor più il corpo a corpo tra questo io e questo Mondo di tempo chiuso: un tempo che rende sempre più difficile “fare bello e caro il non veduto”(p.15), per cui una minima pietas è dovuta (a quell’io): o mio di me non farti più / lo sciocco io del tempo”(p.80). Ulteriore segno della tensione alla ricerca (dentro e fuori di sé) dell’Altro.


Conferma di tutto questo – se pure ce ne fosse bisogno – la troviamo nella nota introduttiva stilata dallo stesso Finzi per la selezione di (19+2) poesie scritte fra il 1953 e 1959, (ri)pubblicate nel 1997 da Vanni Scheiwiller (All’insegna del pesce d’oro) e raccolte sotto il titolo di POESIE LAGHISTE. Ebbene in tale nota Finzi confessa di non essere riuscito a rinunciare a queste poesie perché erano quelle che, rispetto ad altre, incartavano e incarnavano di più “una suggestione quasi ossessiva dell’acqua ferma e di chi, pesce, uccello, o uomo, ci viveva. “Poesie laghiste”, dunque, scritte fra le grandi estati e gli autunni rossi e gialli del triplice lago formato dal Mincio a Mantova…quando la provincia era un’isola, con i suoi pescatori, le lavandaie e i “poveri” degli Anni Cinquanta”.
La presa pressoché in diretta di questa nota con le nervature costitutive del Soggetto Storicoreale (SSR) fornisce il sentore di tutta la complessità che un territorio ha per la costruzione di una mappa mentale. I testi di questa raccolta sono poi preziosi, perché danno conto di tutti i termini – etici, razionali e affettivi – intrecciati in quel primopunto, rimasto e ritrovato poi nei testi del libro che stiamo cercando di penetrare.
Nell’acqua ferma delle Poesie laghiste (ri)troviamo ben di più della metafora di un luogo; ritroviamo la metafora del mondo e di tutto il suo inestricabile intreccio vita/morte: acqua amniotica e marcescenze, fango e sangue, folaghe e cacciatori, partigiani e aguzzini, guerra e pace, amori e campi di concentramento. Tuttavia, inevitabilmente, i colori restituiscono la maggiore levità (non solo per la minore età di chi ne scrive) di quegli anni: anni di minore disponibilità di cose e maggiori speranze. Anni da cui traspare il panorama mentale di un Soggetto Scrivente (SS) che sente “qui ancora a guardia del futuro / lo stento il sonno e il sogno.” (p.47); che annota “Come una vecchia madre” che “la terra trema e si sfoglia” (p.69) e vede già “come corre la sera dietro al sole” (p.64) o come “lungo il corso / del Mincio anche la gloria / ha fermato il suo volo”. Si evidenziano perciò robuste aree dell’Io e del Superìo, che analizzano il presente, lo valutano e guardano al futuro, ma accusano già ventate di disincanto, prendono nota di erosioni e caducità, per cui quell’Acquaferma diventa l’immagine dell’archetipo della Grande madre, di una terra consolante e, insieme, ammorbante. Una doppietà senza uscita, di delizie e fascinata tensione al nero, che rimarrà per sempre l’immagine, non da capire semplicemente da accogliere, di quella che alcuni (come lo psicologo americano James Hillman) chiamano anima.
Anima quindi priva di spiritualismi religiosi, o di sensi animistici da new age e simili; anima che potrebbe trovare corrispondenze in tutt’altri termini e versanti di indagini, quale è quello della metodologia operativa (leggi Scuola Operativa Italiana di Silvio Ceccato e altri), che ha definito il (nucleo) costitutivo di un’identità, rispetto allo sviluppo (o inviluppo) consecutivo successivo. In ogni caso, è in tali luoghi che risiedono le fonti della creatività e dunque della poesia; ritroviamo così, riguardo a quest’ultima, la radice fondante della definizione e dell’invito di Zanzotto: nient’altro che accogliere.
È in tali luoghi che la categorizzazione razionale incontra l’altro da sé, e scopre che il Sé non è una costruzione stabile, ma un campo di circolazione energetica, di cui possiamo fruire solo se lo concepiamo in termini di massima provvisorietà, continuamente morto e rinato, sempre uguale e sempre diverso, da disfare ricostituire e rifare, come il letto, ogni mattina.
Solo nell’accoglimento di tale circolazione, attiva e passiva a un tempo, possiamo trovare attimi di pacificazione e di gioia, di recupero vitale oltre che di ricongiungimento della nostra (piccola) vicenda nella storia più grande e generale. E riusciamo persino a cogliere qualche presagio illuminante, qualche divinazione dalla Manto indovina di ognuno.
I lampi delle possibilità vitali non sono da cercare perciò (solo) tra le elucubrazioni e i razionalismi dell’io: da sole ci dividono e distanziano, assicurandoci tutto il dolore dell’alienazione. Esse risiedono nell’accoglimento e nella fruizione delle apparenti oscurità del corpo, dove è posto lo scrigno della nostra memoria profonda. Quanto più il SS riesce ad aprirlo e a coinvolgerlo fa aumentare la qualità dei testi, perché tocca il segreto del fascino di ciò che da millenni chiamiamo poesia. Che coincide con un logos fantasticante capace di dare forma alla phisis: il linguaggio diventa così luogo di vertigine dolorosa-gioiosa e dell’ossimoro (apparente) di una parola materiale e lirica. È a questo credo si riferisse Leopardi, quando parlava di poesia corporale materiale e fantastica (rispetto a quella metafisica ragionevole e spirituale attribuita ai romantici milanesi), fondata sull’invenzione di analogie tra le cose le più lontane, nascoste e insondabili (Zibaldone).
Tornando alle modalità specifiche della tensione adiacente (tra le lingue del proprio universo mentale) individuata nei testi di Finzi, se questo azzardo interpretativo ha minimi fondamenti, esse devono risaltare e risultare – come per ogni SS – traccia marcante in tutto il percorso di scrittura. Soprattutto se questo percorso è lungo, tali modalità diventano traccia di stile, codice genetico della continuità e dei cambiamenti, persino fonte di presagio per il futuro (del SS). (1)


Abbiamo già fatto qualche verifica nei testi di più vecchia datazione, ma ulteriori conferme possiamo trarle anche da un testo lontano per oggetto: Dèmone se vuoi (Book Editore, 1994). Testo di efflorescenze amorose, dalle intense connotazioni e risonanze fisiche. L’esondazione della gioia più acuta con esplicite connotazioni sessuali, porta a evidenziare nel SS che “il tuo-mio / ‘io’ è un dinosauro dell’età salgariana” (p.35), con l’immagine conseguente di una benefica riduzione dell’area dell’Io. Eppure questa non demorde: tallona tutti i lampi di vita. Anche nel caldo di un abbraccio porta il suo raggio freddo e verde: “un caldo di rugiada sui tuoi seni e sùbito / un verde pallido di luna colorata / traccia sul sole una notte fonda” (p.34).
Sono le Mod-Io che enumerano, misurano costruiscono sequenze, in particolare rispetto al Tempo (per le Mod-Es il tempo come sequenza notoriamente non esiste, essendo sempre passato e sempre presente); per cui sono esse che rifiutano un termine, una fine: quell’amore “da rosse arterie inventato” (p.38) rischia così di vedere che “il nero-neve abbatte un Eros senza più ali, / un essere ferito, offeso e fatto savio / dal vero battere del Tempo” (p.42); rischia continuamente di essere azzannato e sopraffatto dal pensiero de “…l’ora ultima / il tempo e la morta stagione – che no non / continua il gioco, il bacio, il matto chiude, il nero vince, /…/ ‘ultimo’ è una parola / orribile, ultimo amore mio - / non pronunciamola (ibidem).
Sono le Mod-Io che esprimono il terrore della Morte, anche tra le lenzuola: “nel tuo letto: sogni, spettri, misirizzi, /…/ e infando dolore (a p.81); “la tua nera notte / con l’incubo e il mostro dentro” (p.78); “la Morte è fra noi come un sogno” (p.83).

È opportuno vedere una sequenza particolarmente riuscita di questa sorta di tango macabro tra gioia e io che insegue inseguito dalle sue ossessioni: “svegliandomi da te, con te / al fianco, e chiedendomi dove / dov’è dov’era il limite certo / fra vita e vita – o piuttosto / fra vita e morte – o anche (meglio) fra / due specie di morte o due / estraneità di vita, lì, chiuse le mani / su te – fermo per un attimo (l’attimo / in cui tutto è simile al simile / ma diverso da chi e da cosa) / avvenne che a scendere fu (incredibile) / lo stesso paradiso” (p.28).
È un tessuto testuale di intensità fisica e lirica dominata dalle Mod-Io, che persistono nonostante la riduzione (inevitabile) della loro area mentale, che ansimano e si insinuano nell’Altro: lo testimonia la forma, colma di virgole, incisi e subordinate, tipica di un processo elucubrante; al polo opposto l’attimo in cui avvenne che a scendere fu…lo stesso paradiso: proprio incredibile e bellissima, la vittoria di quell’attimo e della poesia. Da notare che dall’abbrivo di un gerundio, recante il senso presente delle Mod-Io, l’attimo della (vittoria della) gioia deve sprofondare nel passato remoto (tempo delle Mod-Es).


(1) Al fine di fornire almeno qualche elemento del percorso complessivo citiamo la raccolta Costume e pattume (Armando, Roma 1990), che sono importanti perché danno conto specificamente della robustezza e della qualità dell’area del Superìo: densi di passione civile, completano una figura di scrittore che non vuole assolutamente chiudersi nel letterario, interessata anzi a “scoprire un punto di passaggio tra ‘civile’ e ‘letterario’; servendomi da nuovo Calibano, di una certa violenza intellettuale, trattenendola nella scrittura. Puntando con forza contro l’azzeramento culturale degli anni ‘80”. È un libro che mostra una capacità di scrittura a 360 gradi e di un uomo che vuole misurarsi con i mille orrori, tumori e pustole di un tempo sospeso tra velocità, affollamento e smemoratezza.
Ma a questo versante storicosociale occorre aggiungere una estensione altrettanto notevole di saggistica letteraria, aggrumata in testi e interventi vari, prefazioni e traduzioni, Antologie curate da solo o in collaborazione con Altri. Da questo insieme di testi emerge con forza la radicata convinzione che “lo stile è un’identità attraverso il linguaggio”, da cui discende la necessità, per la scrittura in generale e per la poesia in particolare, della “elaborazione di strumenti appositi, che implicano la ricerca (per quell’identità e per la poesia) di una “scienza in sé, di sé (Il prossimo villaggio, intervento al Convegno Letteratura e scienza, organizzato da Testuale e Il Segnale nel 1993, Atti 1995).
Anche come segno contro il giulivo effimero di mille simulacri metropolitani che si affannano a smemorarci e distanziarci dalla nostra vita, segue un elenco selezionato di opere.

Poesia: La Nuova Arca, Rizzoli 1965; L’alto Medioevo nel suo più brutale ricorso, ai nostri giorni, “A spese degli Amici” 1970; Morire di pace (autobiografia), Shakespeare & Co., 1977 (Riediz. Campanotto 1992; Tre formule del desiderio, pref. di Giuliano Gramigna, Spirali 1981; L’oscura verdità del nero, Garzanti 1987; Demone se vuoi, Book Ed. 1994; Poesie laghiste (1953-1959), Scheiwiller 1997; Soldatino d’aria, Marsilio 2000.
In inglese: lifeline (Traduz. Vanna Tessier), Snowapple Press, Edmonton (Canada) 1993.
Narrativa: O barare o volare, Garzanti 1977; L'ultimo valzer di Chopin, La Vita Felice 1995 (Traduz. Inglese di Vanna Tessier, The.Last Waltz of Chopin, Snowapple Press, Edmonton, Canada 1999).
Saggistica: Lo Spirito del '45, Giordano 1967; Invito alla Lettura di Quasimodo, Mursia 1972 (6a ediz. 1995); L'utopia letteraria, Marsilio 1973; “La luna e i falò” di Pavese, Mursia I976 (5a Ediz.1997); Poesia in Italia – Montale, Novissimi, PostNovissimi (1959-1978), Mursia 1979; Crepuscolo della Scrittura, Mursia 1991.
Saggistica varia: Costume e pattume, Armando 1990.
Ha curato inoltre l'opera omnia del Nobel S. Quasimodo: Poesie e Dscorsi sulla poesia, Meridiani Mondadori 1971; X ediz. riveduta e ampliata, 1996) e varie opere singole del poeta.
Tra le antologie, da citare i due voll. Novelle italiane -L'Ottocento, Garzanti 1985 e Novelle Italiane -Il Novecento, Garzanti 1991. Numerosi i lavori sulla Scapigliatura e su autori dell’800 e del '900, con due traduzioni.
(*) Cfr A. Vaccaro, Ricerche e forme di Adiacenza, Asefi, Milano 2001                            

mercoledì 24 dicembre 2014

LIBROMONDO: UNA BIBLIOTECA CHE SI ISPIRA
ALLE BANDIERE DI PREGHIERE TIBETANE 


Savona. Franco Falco era un volontario dell’AIFO (Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau) di Savona che si occupava dell’aggiornamento degli insegnanti e organizzava piccoli concorsi per gli alunni delle scuole locali. La formazione alla pace, alla mondialità, all’intercultura, l’informazione sui paesi extraeuropei, dunque, erano i suoi obiettivi primari. Nel tempo, aveva raccolto molto materiale (libri, videocassette, riviste, documenti) e aveva creato un Centro di documentazione, che poi ha preso il nome di LIBROMONDO. Oggi il Centro è ospitato gratuitamente all’interno della Biblioteca del Campus Universitario di Legino a Savona ed è diventato patrimonio dell’Auser di Savona.
Nel corso degli anni, il Centro di documentazione ha aumentato il suo capitale librario perché le Case Editrici, ma anche autori singoli, hanno offerto i loro testi in omaggio. Naturalmente, i doni vengono ampiamente ripagati perché gli studenti delle scuole superiori savonesi e alcuni adulti, di solito gli anziani dell’Auser ma anche qualche insegnante, recensiscono i libri. La recensione viene poi pubblicata su una newsletter quindicinale inviata a un nutrito indirizzario. Tutte le newsletter sono quindi archiviate su vari siti (indicati nella I pagina della newsletter) tra cui www.zacem-online.org, sempre a disposizione di chiunque voglia consultarle.
La newsletter è diventata così strumento informativo per insegnanti, genitori, giovani, anziani, corrispondendo essa stessa allo scopo educativo della Biblioteca. Infatti, la Biblioteca di Libromondo raccoglie solo libri che insegnano la pace, la mondialità, la salvaguardia dell’ambiente, il rispetto dei diritti di tutte le persone umane ovunque siano nate, l’educazione alla legalità e al volontariato.


La Biblioteca non ha alcun tipo di finanziamento (possiede Zero euro), quindi, chi se ne occupa può essere solo volontario e deve avere due grandi passioni: una è credere che i libri possano cambiare la vita  e siano fondamentali nell’educazione delle persone di tutte le età; l’altra è voler operare per un mondo migliore secondo criteri improntati alla dignità di tutti gli esseri umani e all’urgenza di salvare il nostro pianeta dall’evidente distruzione in atto.
La Biblioteca si trova a Savona, quindi, le scuole di Savona, a partire dalle elementari, hanno la possibilità di avere libri in prestito, come pure i singoli cittadini.
Ma tutti e ovunque possono avere contatti con la Biblioteca.
I libri, infatti, catalogati con il sistema SBN nazionale, possono essere richiesti tramite il prestito interbibliotecario. Capita spesso, infatti, che vi si trovino testi utili per tesi di laurea, ad esempio, difficilmente reperibili nelle Biblioteche generiche.
Inoltre, tutti possono inviare libri e notizie (sempre riguardanti i soggetti della Biblioteca stessa) da pubblicare sulla newsletter, oppure suggerire testi interessanti da richiedere alle case editrici. Tutti possono leggere le newsletter, informarsi sui libri recensiti, trarre magari idee per regali utili, invece dei soliti bestseller tanto propagandati dai media.
La mente della nostra Biblioteca è aperta sul mondo, non può rimanere solo un nome sugli scaffali. Deve essere come le bandiere delle preghiere, triangolini di stoffa di cinque colori ( il giallo per la terra; il verde per l’acqua; il rosso per il fuoco; il bianco per lo spazio infinito e il blu per l’aria e il cielo) che sventolano appesi a fili nei paesi buddisti: disseminano i loro pensieri positivi nel mondo e la loro testimonianza di pace interiore.
Renata Rusca Zargar





martedì 23 dicembre 2014

LETTURE

Il presente studio condotto da Federica Giulia Sacchi, giovane studentessa (anche se preferirei nel suo caso usare quello di studiosa), nasce dal laboratorio da me tenuto nel secondo semestre dell’anno accademico 2013-2014 presso la Cattedra di Storia della filosofia del Professor Piero Giordanetti, all’Università degli Studi di Milano. Il laboratorio aveva come tema “Flaubert e il concetto di allucinazione nell’Ottocento, al confine tra arte e scienza”. Ogni studente, al termine del laboratorio, doveva produrre un elaborato su un tema affine all’argomento trattato. Data la profonda e puntuale conoscenza di Federica della lingua inglese, le ho proposto di lavorare sul poema di Shelley Alastor, or the Spirit of Solitude, che lei poteva leggere in lingua originale, comparandolo a un progetto di romanzo da Flaubert mai realizzato, intitolato La Spirale (da me tradotto per il Domenicale del Sole24ore lo scorso anno). La studentessa ha subito accolto con passione e impegno il mio invito, e ne è nato questo studio, che credo sia meritevole di essere conosciuto non solo per l’originalità delle tematiche trattate, che si basano su due scritti meno conosciuti sia di Flaubert che di Shelley, ma anche per la padronanza espositiva e per gli accostamenti inediti che la giovane autrice ha saputo sviluppare. Ho dunque ritenuto che lo spazio di Odissea fosse quello migliore per divulgare il primo (e sono certa non ultimo!) lavoro di questa giovane studiosa, come me appassionata di Flaubert (e non solo...).
Colgo l’occasione per augurare a tutti i lettori di “Odissea” un Natale felice e un Nuovo Anno ricco di emozioni, sorprese e gioia!
Chiara Pasetti


LA SPIRALE COME METAFORA DELLA VITA ONIRICA
E DI ITINERARI SPIRITUALI IN FLAUBERT E SHELLEY 
di Federica Giulia Sacchi


Analisi de “La spirale” di Gustave Flaubert e di “Alastor,
or the Spirit of Solitude” di Percy Bysshe Shelley.

Pour la psychologie moderne, la spirale est une image reliée au «processus d’individuation». La recherche spiralique, le plus souvent sous la forme d’une descente, marque le point dans la vie humaine où l’être n’arrive plus à poursuivre tous le chemin de la jeunesse. Toutes le forces prospectives se trouvent frappées de paralysie ou de mort, e la vie ne peut se continuer que si l’homme entreprend une plongée dans sa propre profondeur. […]
Ainsi une renaissance de l’homme est possible par la mort de un partie de son être antérieur.La spirale est l’expression de ce chemin qui va de la vie à la mort pour entrer à nouveau dans la vie.[i]

Applicare questa descrizione psicanalitica del simbolo della spirale, simbolo così evocativo e ricco di implicazioni, alla letteratura, non potrebbe essere più illuminante: nel mezzo del cammino della sua vita, Dante intraprende un viaggio attraverso il tempo e lo spazio nelle viscere della terra che si snodano con la forma di una spirale discendente, per poi risalire verso il cielo seguendo il percorso di una spirale ascendente. Al termine di questo viaggio il poeta è cambiato, una parte di sé è morta ogni volta che ha perso i sensi, e la sua consapevolezza è cambiata essendo passato dalla vita alla morte, e nuovamente alla vita. Victor Hugo dice che la sua poetica fa riferimento a forme e a croci così come a spirali nelle quali si inscrivono le sue visioni[ii]; per Baudelaire e Mallarmé, la spirale sarà vertigine e caduta dell’essere[iii], nonché figura su cui comporre la struttura per le poesie[iv]. Per Edgar Allan Poe si tratta addirittura di una caduta vertiginosa che «amène le silence e la mort»[v].  Gustave Flaubert, autore del sogno e dell’illusione, ha fatto delle implicazioni di questo simbolo[vi] la base dell’ispirazione del plan di un romanzo (mai terminato): un romanzo metafisico[vii] in cui il piano della realtà e quello del sogno si intersecano in un moto vertiginoso e privo di limiti che porta alla conoscenza superiore. Come scrive Chiara Pasetti:

Il protagonista del plan è un pittore, che nel passato aveva avuto l’abitudine dell’hashish ma all’inizio della storia vuole a poco a poco liberarsi da questa dipendenza per riuscire ad abbandonarsi alle sue visioni senza aiuti artificiali. Dotato di ipersensibilità e di un’immaginazione prodigiosa, arriva lentamente a uno stadio di «sonnambulismo permanente», in cui, perennemente allucinato, può passare dal sensibile allo spirituale, dalla vista alla visione.[viii]

V. Hugo "Le Phare des Casquets" 1866

In questo plan riconosciamo delle tematiche e delle caratteristiche che non solo sono tipiche della letteratura romantica, ma che sembrano risentire dell’influenza di un grande poeta, Percy Bysshe Shelley, e in particolare del suo celebre poemetto Alastor, or The Spirit of Solitude. In quest’opera il protagonista non è Alastor, spirito maligno e geniale, ma un poeta, un giovane che incarna le sembianze dell’eroe romantico, solitario e devoto a Madre Natura:

There was a Poet whose untimely tomb
No human hands with pious reverence reared,
But the charmed eddies of autumnal winds
Built o'er his mouldering bones a pyramid
Of mouldering leaves in the waste wilderness:—
A lovely youth,—no mourning maiden decked
With weeping flowers, or votive cypress wreath,
The lone couch of his everlasting sleep:—
Gentle, and brave, and generous,—no lorn bard
Breathed o'er his dark fate one melodious sigh:
He lived, he died, he sung, in solitude.
Strangers have wept to hear his passionate notes,
And virgins, as unknown he passed, have pined
And wasted for fond love of his wild eyes.
The fire of those soft orbs has ceased to burn,
And Silence, too enamoured of that voice,
Locks its mute music in her rugged cell. […]

Rembrandt "Filosofo in meditazione" 1632

Il poeta «when early youth had past» (e dunque, per tornare a Kellen, nel punto della vita in cui l’uomo decide di intraprendere la ricerca «spiralique») decide di partire per un viaggio per scoprire le verità più arcane che la Natura cela. Il luogo da esplorare per farlo è l’Oriente: la descrizione dei luoghi che il poeta visita – le antiche rovine di Atene, Tiro, Gerusalemme e Babilonia – ha una carica mistica che Shelley si cura di non tralasciare, attraverso un repertorio d’immagini che comprende obelischi di alabastro, templi distrutti, sfingi mutilate e demoni di marmo. Aver visto «the thrilling secrets of the birth of time» è il primo passo del poeta verso la conoscenza. Il pittore protagonista del plan di Flaubert possiede anch’egli «una sensibilità esagerata, una grande facoltà di comprensione, è molto buono, servizievole»[ix], e ha già viaggiato in Oriente; l’autore aggiunge poi che ci sarà un grande ballo in una città «(il paese d’Al) che riassume Babilonia e la Cina. – Molto vecchia, sproporzionata per quartieri differenti»[x] come scrive Anne Green:

Image ambiguë, car au plan des symboles, Babyone évoque le triomphe passager d’un monde matériel et sensible qui n’exalte qu’une partie de l’homme, et, en conséquence, le désintègre, tandis la Chine impliquerait plutôt la reconnaissance d’une vénérable et antique sagesse.[xi]

Alla luce di questa analisi risulta davvero fondamentale sottolineare la problematicità che la semplice annotazione «il paese d’Al» comporta. In Alastor il poeta si trova nella valle del Chashmire quando un sogno cambia il suo modo di vedere le cose: la visione di una vergine velata che parla in modo solenne porta con sé la promessa della rivelazione al mondo sovrannaturale. Èuna vera e propria allucinazione quella che si impossessa del poeta, un’allucinazione che comprende la vista di fiamme insieme alla percezione di musica, brezza e del battito del cuore della “veiled maid”:

[…] He dreamed a veilèd maid
Sate near him, talking in low solemn tones.
Her voice was like the voice of his own soul
Heard in the calm of thought; its music long,
Like woven sounds of streams and breezes, held
His inmost sense suspended in its web
Of many-coloured woof and shifting hues.
Knowledge and truth and virtue were her theme,
And lofty hopes of divine liberty,
Thoughts the most dear to him, and poesy,
Herself a poet. Soon the solemn mood
Of her pure mind kindled through all her frame
A permeating fire: wild numbers then
She raised, with voice stifled in tremulous sobs
Subdued by its own pathos: her fair hands
Were bare alone, sweeping from some strange harp
Strange symphony, and in their branching veins
The eloquent blood told an ineffable tale.
The beating of her heart was heard to fill
The pauses of her music, and her breath
Tumultuously accorded with those fits
Of intermitted song. Sudden she rose,
As if her heart impatiently endured
Its bursting burthen: at the sound he turned,
And saw by the warm light of their own life
Her glowing limbs beneath the sinuous veil
Of woven wind, her outspread arms now bare,
Her dark locks floating in the breath of night,
Her beamy bending eyes, her parted lips
Outstretched, and pale, and quivering eagerly.
His strong heart sunk and sickened with excess
Of love. […]

G. B. Piranesi "Carceri d' Invenzione" 1761

Il giovane eroe percepisce che in quel momento ha acquisito un livello di conoscenza superiore, tesa all’Infinito, all’Assoluto e al sovrannaturale: raggiunta questa consapevolezza non potrà più vedere le cose con gli stessi occhi e vivere come se non fosse successo. Sarebbe dunque ragionevole pensare che, in quanto unione di Cina e Babilonia, “il paese d’Al”, il luogo esotico del mondo immaginario del pittore, si chiami così per creare un rimando al momento in cui l’eroe dei versi di Shelley si è staccato dal mondo sensibile, proiettandosi verso quello soprannaturale, ispirato dal demone Alastor con un’allucinazione, e iniziando così una vita divisa tra la ricerca del sogno e la realtà.
Mentre il giovane poeta non riuscirà più a ricadere volontariamente nello stato di trance che gli ha procurato quella visione, il pittore del plan ha capito come provocarsi le allucinazioni soltanto annusando il barattolo che contiene l’hashish, ma soprattutto capirà che potrà ottenere la felicità nella vita immaginaria del sogno solo attraverso il sacrificio nella vita reale, “più lui sarà sciagurato nei fatti, più sarà felice nel sogno”. Come scrive Anne Green:

A première vue, les ricompenses esquissées par Flaubert restent à un niveau superficiel. S’évadant de ses déceptions quotidiennes, le hèros semble se rèfugier dans un vie fantastique et orientale évoquée par de menus détails stéréotypés.[xii]

Come invece possiamo osservare dall’esplicitazione dello scopo finale del racconto, ossia «provare che la felicità sta nell’immaginazione»[xiii], il ruolo della vita nel sogno, e del sogno stesso, è molto più profondo. Per citare Giorgi, ci troviamo di fronte a un sogno che ha una funzione moralizzatrice:

[…] Flaubert si preoccupa di stabilire un intimo rapporto tra gli eventi della vita reale e quelli della vita immaginaria. Si ricava chiaramente dal Plan che il protagonista non riesce ad aprire la porta dei sogni allorché è tormentato dal rimorso, ma che, in compenso, l’operazione gli riesce assai agevole quando ha la coscienza tranquilla. I sogni hanno dunque una influenza moralizzatrice sulla vita, giacchè il pittore deve agire in un certo modo per poter approdare allo stato onirico, e, d’altra parte la vita ha una diretta influenza sul sogno giacché le visioni allucinate del protagonista […] sono sempre trasfigurazioni degli eventi reali.[xiv]

Dicevamo che il giovane poeta di Alastor, contrariamente al pittore, non trova il modo di procurarsi le allucinazioni, e anzi vive il resto del viaggio nel ricordo vivido della visione della donna velata che gli ha mostrato l’ingresso alle porte dell’ignoto, cercando di ritrovarla senza però riuscirvi. Possiamo dunque affermare che il pittore di Flaubert sia un personaggio che ha imparato dal poeta di Shelley a governare il sogno – seppur tramite il sacrificio. Possiamo aggiungere che anche la vita del poeta si articola in una spirale, ma essa non è tra la vita reale e allucinatoria, bensì tra la vita reale e la ricerca perenne di quella allucinatoria. Il poeta cerca allora di capire la Natura e i suoi misteri, tuttavia il nuovo livello di consapevolezza raggiunto fa sì che l’eroe cominci a pensare che l’unico modo di riavvicinarsi al «Vero»[xv] sfiorato nella visione sia la morte. Proseguendo nel suo vagare incontra una piccola imbarcazione, «little shallop» vicino alla riva. Vi si avvicina, come guidato da un impulso irrefrenabile alla ricerca di quel sogno:

[…] Startled by his own thoughts he looked around.
There was no fair fiend near him, not a sight
Or sound of awe but in his own deep mind.
A little shallop floating near the shore
Caught the impatient wandering of his gaze.
It had been long abandoned, for its sides
Gaped wide with many a rift, and its frail joints
Swayed with the undulations of the tide.
A restless impulse urged him to embark
And meet lone Death on the drear ocean's waste;
For well he knew that mighty Shadow loves
The slimy caverns of the populous deep. […]


L’immagine della spirale si fa ricorrente nella descrizione dell’imbarcazione vittima della tempesta: folate di vento scritte come «whirlwind», gorghi marini descritti come «whirpool» e l’immagine efficacissima delle creste delle onde paragonate a «serpents struggling in a vulture’s grasp». La vicinanza del poeta alla morte fa sì che egli riesca a percepire la verità della Natura, l’infinito e il soprannaturale attraverso l’immaginazione. Sotto lo sguardo della luna esclama:

[…] "Vision and Love!"
The Poet cried aloud, "I have beheld
The path of thy departure. Sleep and death
Shall not divide us long!" […]


Attraverso la morte dunque, si ricongiunge all’assoluto, alla consapevolezza della verità e supera l’empasse della visione, non il sonno (dunque le visioni attraverso il sogno che non riusciva a governare) e nemmeno la morte che ormai è pronto ad abbracciare lo dividono dalla felicità della verità. È interessante notare che questo passaggio definitivo avviene proprio sotto i raggi della luna, l’astro che più di ogni altro, da Dante, ad Ariosto, a Leopardi, suscita un sentimento di colloquio e di confidenza. Non solo la luna è l’astro narrante «che racconta del cosmo e della sua armonia»[xvi], de tempo, dello spazio e delle sue profondità, «l’astro dove, da sempre, scienza e immaginazione si incontrano»[xvii], ma è anche un astro mistico per i popoli e per le religioni: per gli Egizi il Sole e la Luna viaggiano in cielo su due barche, e il quindicesimo giorno di ogni mese l’imbarcazione della luna viene assalita da una scrofa che la ferisce e la uccide, procurandole quindici giorni di agonia e pallore. Poi però la luna rinasce e il ciclo ricomincia[xviii]. La fascinazione di Flaubert nei confronti della luna viene esplicitata non nel plan, ma nella Salammbô: la luna è una Dea, e con la sua luce divina illumina e impreziosce tutto. Salammbô le è devota e le si rivolge così:

Con quale leggerezza ruoti, sostenuta dall’etere impalpabile! Esso si leviga intorno a te, ed è il suo moto a dispensare i venti e le rugiade feconde. A seconda che tu cresca o decresca, si fanno più grandi o più piccoli gli occhi dei gatti e le macchie delle pantere. Le spose urlano il tuo nome nelle doglie del parto! Tu fecondi le conchiglie! Fai ribollire i vini, fai imputridire i cadaveri! Formi le perle in fondo al mare!
E tutti i germi, o Dea! fermentano nelle oscure profondità delle tue umidità.
Quando tu appari, sulla terra si diffonde la quiete; si formano i fiori, si placano i flutti, gli uomini affaticati giacciono con il petto rivolto verso di te, e il mondo, con i suoi oceani e le sue montagne, si riflette nelle tue immagini come un uno specchio. Tu sei bianca, soave, luminosa, immacolata, ausiliatrice, purificatrice, serena.[xix]

L’invocazione della principessa è molto eloquente e precisa nell’elencazione di tutte le caratteristiche dell’astro a cui è devota, e nelle sue parole possiamo trovare, almeno in parte, alcune delle ragioni per cui il giovane poeta lascia la terra guardando la luna[xx].
Nel plan, invece, anche Flaubert pone l’accento come Shelley sulla tematica della morte una volta raggiunta la conoscenza. Per ben due volte annuncia quale sia lo scopo del romanzo, ovvero «provare che la felicità sta nell’immaginazione» e che

La felicità consiste nell’essere Folle (o ciò che così viene chiamato) cioè nel vedere il Vero, l’insieme del tempo, l’assoluto – [xxi]

L’eroe del poemetto di Shelley è di fatto un folle che raggiunge l’assoluto tramite l’immaginazione che gli viene eccitata dalla vicinanza alla morte.
Anche il pittore del plan raggiunge il Vero  dopo «molto tempo per arrivarci – sono state necessarie delle prove e delle culture» e anche il pittore è destinato alla morte. Flaubert scrive:
Cominciare con una lettera finale dell’eroe, che riassuma la sua opinione su tutto e annunci il suo Suicidio. È il suo testamento. (Lì ci vuole un po’ di storia) -poi si presenta un’occasione per fare del bene- e l’azione si avvia.[xxii]
Coloro che raggiungono l’assoluto, che toccano con mano la Verità e la felicità non sono destinati a vivere in armonia con esse: come nell’antica Grecia coloro che vedevano gli Dei morivano subito dopo perché la vista del divino non era sostenibile per i mortali, l’acquisizione di una coscienza superiore non sembra essere sostenibile da parte degli eroi, o meglio, forse lo è soltanto se perpetrata all’interno dei binari di realtà e immaginazione della spirale.






Note al testo
[i] Keller: 243.
[ii] Keller: 197.
[iii] Keller: 198.
[iv] Vediamo in particolare l’analisi che Giorgetto fa del pantoun di Baudelaire Harmonie du soir: «Nel poema si attua infatti lo sviluppo di due temi paralleli attraverso l’incrociarsi del movimento rotatorio ascensionale di due versi ripetuti (il secondo e il quarto di ogni strofa diventano rispettivamente il primo e il terzo della seguente). La struttura a spirale della pièce si identifica così perfettamente con i movimenti elicoidali che il suo contenuto ci suggerisce».
[v] Keller: 208.
[vi] Le spirali tornano in Salammbô a p. 146 come uno stormo di corvi che “a volte di colpo si rompeva, disegnando in lontananza grandi spirali nere” e a p. 10 come spirali bianche di fumo.
[vii] Pasetti: 51.
[viii] Pasetti: 51.
[ix] Flaubert, trad. Pasetti: 51.
[x] Flaubert, trad. Pasetti: 51.
[xi] Green: 123.
[xii] Green: 126.
[xiii] Flaubert, trad. Pasetti: 51.
[xiv] Giorgi: 38-39.
[xv] Flaubert, trad. Pasetti: 51
[xvi] Greco: Prologo.
[xvii] Greco: Prologo.
[xviii] Greco: 36.
[xix] Flaubert: 40.
[xx] Una ricerca più approfondita su questo tema risulterà più appropriato in un’altra sede.
[xxi] Flaubert, trad. Pasetti: 51.
[xxii] Flaubert, trad. Pasetti: 51.


Riferimenti Bibliografici

Bonaccorso, G. (1981), L’oriente nella narrativa di Gustave Flaubert – Parte Prima, Vol. II, L’influenza dell’oriente ne “L’education”, in “Trois contes” e “Bouvard e Pécuchet”, Messina: Edizioni Dott. Antonino Sfameni.

Flaubert, G. (2002), Salambò, Trad. E. K. Imberciadori, Milano: Garzanti;
(2013), La Spirale, Trad. C. Pasetti, Il Sole 24 Ore, n. 302, 3 novembre 2013, p. 51.

Giorgi, G. (1969), Stendhal, Flaubert, Proust (proposte e orientamenti), Varese: Istituto Editoriale Cisalpino.

Greco, P. (2009), L’astro narrante – La Luna nella scienza e nella letteratura italiana, Milano: Springer.

Green, A. (1991), “Les spirales de Flaubert” in Création littéraire et tradition ésotériques, Actes du Colloquie International de Pau, pp. 119-129.

Keller, L. (1966), Piranése e les romantiques français – le mythe des escaliers an spirale, Paris: Librairie José Corti.

Pasetti, C. (2013), “Una vertigine metafisica”, Il Sole 24 Ore, n. 302, 3 novembre 2013, p. 51.

Pietromarchi, L. (1990), L’illusione orientale – Gustave Flaubert e l’esotismo romantico, Milano: Studio Guerini.

Shelley, P. B. (1816),Alastor, or the Spirite of Solitude, disponibile in http://www.poetryfoundation.org/poem/174380


Federica Giulia Sacchi
Nata a Milano nel 1990
Grazie alla grande passione per la letteratura decido di frequentare il liceo classico A. Manzoni di Milano e in seguito decido di dedicare i miei studi alle humanae litterae iscrivendomi alla facoltà di lettere moderne all'Università Statale. Mi interessano letteratura italiana contemporanea, letteratura francese dell’Ottocento, dal cinema, teatro e arte dell’Ottocento. Ho viaggiato negli Stati Uniti, in Inghilterra e Francia, sia per fare esperienze formative, sia per studio. Mi sono laureata con una tesi in storia del cinema e sto scrivendo la mia tesi magistrale sull’odepòrica del ‘700.

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Nota alla tavola del Piranesi detta "Il ponte levatoio
Le Carceri sono l’espressione più compiuta della vena visionaria di Piranesi, e non a caso influenzeranno gli scrittori romantici e simbolisti. L’ottimo studio di Luzius Keller (di cui si auspica una traduzione italiana) Piranèse et les romantiques français. Le mythe des escaliers en spirale (edizioni Corti, 1966) mostra come con Piranesi al tema delle scale si aggiunga quello della spirale, che si imprimerà fortemente nell’immaginario degli scrittori del XIX secolo, inaugurando un filone che da Balzac a Mallarmé, passando attraverso Musset, Nodier, Gautier, Hugo e Baudelaire, farà della spirale il simbolo della profondità dell’animo umano, e l’espressione di una vertigine ontologica, di una discesa e di una caduta assoluta dell’essere. In questo ampio quadro tracciato da Keller, tuttavia, Flaubert con il suo plan de La Spirale non viene inserito (semplice oblio, o scelta precisa, poiché le spirali di Flaubert, essendo orientate sia verso il basso -la caduta nell’abisso-, sia verso l’alto -la ri-salita-, acquistano un significato diverso rispetto a quello attribuito loro dagli altri autori dell’epoca?) Chiara Pasetti