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venerdì 20 febbraio 2015

Noi e l’Islam
di Giovanni Bianchi

Il problema
Il problema riguarda ancora una volta non tanto chi arriva essendo sopravvissuto ai gorghi del Mediterraneo, all'interno dell'ultima ondata migratoria, ma chi sta sul territorio e dovrebbe accogliere. Perché ogni nuovo arrivo e ogni contatto rimette in discussione la percezione che abbiamo di noi stessi, dell'identità, le relazioni da tempo stabilite. Anche quelle ataviche. E dunque la prima operazione da fare è ancora una volta preliminarmente la costruzione di un punto di vista dal quale guardare agli ospiti ma soprattutto a noi stessi, alle nostre comunità in transizione e che a fatica sanno riconoscersi. L'interrogativo che spesso s'aggira tra di noi è questo: Aveva forse ragione Huntington?
Ma un altro interrogativo si è fatto più pressante e riguarda in particolare la nostra presenza nel Mediterraneo e non soltanto: Perché la politica italiana è assente? Perché cioè oscilla tra il supposto buonismo di "Mare nostrum" e il cattivismo xenofobo da osteria padana di Matteo Salvini? Siamo alla fine diventati potenzialmente e politicamente malvagi?
No. La nostra politica è maledettamente provinciale e per questo non capisce e non incide. Mi torna alla mente il saggio ammonimento di Giancarlo Brasca, amministratore dell'Università Cattolica ai tempi del rettorato di Giuseppe Lazzati: "Vedi, Giovanni, un malvagio lo puoi convertire, ma uno stupido cosa gli fai"?
Troppe cose sono cambiate e cambiate insieme e contemporaneamente. È cambiata la democrazia ed è altrettanto e più cambiata la guerra. Da qui guardiamo con angoscia allo sviluppo dell'Islam. Ha ragione Paolo Branca nell'intervista ad "Avvenire" di un mese fa: "L'Islam è un organismo in sé sano, ma che ha al suo interno un tumore da estirpare. Questo tumore è il terrorismo".

Parigi oh cara

Prendo le mosse per proseguire nella riflessione dalla "marcia repubblicana" dell'11 gennaio scorso. E lo faccio dopo una rilettura della Dichiarazione di non sottomissione pubblicata da Fethi Benslama dieci anni prima (2005). La piazza di quella domenica parigina è risultata oceanica, popolare, decisamente politica perché evidentemente identitaria. La Francia si è ritrovata intorno alla sua religione civile -tuttora popolare e laica- che è l'illuminismo democratico: ossia il senso e la proposta contenuti nella dichiarazione di Benslama. Parigi è tornata per un giorno la capitale del mondo. François Hollande pareva finalmente un leader perché s'era messo i trampoli della politica. La cosa di gran lunga più eloquente è risultata comunque da subito l'assenza americana. Obama e il suo giro stretto pensano a due cose: il Medicare all'interno e la Cina in politica estera. Per questo ai loro occhi miopi l'Europa è finita in un cono d'ombra. E gli italiani? Salvo Romano Prodi, che ha lanciato un allarme preoccupato durante le interviste, parevano tutti in gita scolastica...
E difatti nessuno è stato successivamente invitato alla trattativa con Putin sull’Ucraina. È la nostra tradizione di restare in angolo e fare tappezzeria? Niente affatto. Il problema è che dopo De Gasperi, Mattei, Moro e Andreotti restiamo ancora in attesa di leaders non provinciali. Ci vuole infatti una visione geopolitica aggiornata e non basta parlare l'inglese. È tempo per questo di tornare a rileggere le pagine della dichiarazione di Fethi Benslama. Quale ne è il cuore? Il problema centrale pare a me il rapporto tra le religioni (al plurale, anche se la dichiarazione si occupa di Islam) e la democrazia illuministica, non come regole e procedure, ma come costume, ossia in quanto etica di cittadinanza. Perché? Perché il problema risulta di bruciante attualità?
Perché non c'è oggi cittadinanza globale, ma soltanto società "liquida". Una cittadinanza globale implica infatti il concorso di diverse identità comunitarie. Non solo nazioni. Qui il riferimento alle religioni è centrale. Perché le religioni strutturano ed educano lo spazio privato – ma anche quello pubblico – in collaborazione e in concorrenza con i poteri politici e la forma Stato, che ha interamente sostituito, a far data dal 1915, gli imperi (Austria-Ungheria, Ottomano, Russo) nel governo dei popoli e nella creazione della cittadinanza.
Basterebbe riandare con la memoria al multilinguismo parlato nel parlamento di Vienna, di cui fece parte Alcide De Gasperi, o alla Sarajevo antecedente alla guerra che ha decretato la fine della Jugoslavia.

Il caso italiano

Vale quindi la pena di tornare a riflettere sui casi italiani e sulla nostra storia. Di Porta Pia s'è già detto in altra occasione. Si tratta questa volta di fare i conti con il cosiddetto "brigantaggio", autentica guerra di secessione delle regioni meridionali nei confronti dello Stato unitario, con le masse e le truppe sanfediste che issavano il vessillo dei Borboni e perpetuavano la fedeltà papalina. Tuttavia non è necessario aver letto i testi di De Martino sulle superstizioni del Mezzogiorno per intendere il fenomeno. La religione fornisce i simboli e la colla, ma è un disegno strategico e quindi politico ad animare le lotte.
Così come uno non deve aver fatto studi accurati su Ginevra e il risveglio protestante svizzero per capire il progetto di Cavour su "libera Chiesa in libero Stato". Insomma, tocca alla religione fornire i simboli e completare l'orizzonte dell'immaginario di massa, ma la molla sul terreno risponde alle esigenze della strategia politica e geopolitica.
Per questo, per intendere e fronteggiare il terrorismo islamico, sarà bene sforzarsi di ottenere uno sguardo "europeo". Un'Europa chiamata cioè a guardare diversamente sia alla Russia come alla Turchia. Un'operazione facilitata da una più attenta riscoperta delle nostre radici europee, composte insieme da radici cristiane, ebraiche ed islamiche.
Vale forse la pena citare ancora una volta l'interessante ricerca di Asìn Palacios sui rapporti tra Dante e il mondo islamico, ed in particolare sulle affinità e i rimandi della Divina Commedia rispetto ai transiti maomettani nell'aldilà. Ma, dato uno sguardo non troppo rapido né superficiale alla storia, si tratta di prendere conto delle difficoltà in atto.
Dopo l'attacco alla drogheria kosher di Parigi, gli ebrei di Francia hanno accelerato l'operazione del fare bagagli, con meta Israele, New York, il Canada e la Nuova Zelanda. Come pure le operazioni di organizzazione di una armata ebraica. La stessa sindrome e gli stessi preparativi stanno serpeggiando anche nelle comunità israelitiche italiane.
A ben intendere, più che degli islamici, gli ebrei del vecchio continente diffidano degli europei. I Lager infatti li hanno costruiti gli ariani e non gli islamici, e li ha supportati  la Francia di Vichy. È interessante in proposito la ricostruzione che sta al fondo del bel romanzo di David Foenkinos, Charlotte, che ricostruisce con arte e grande maestria la vicenda di una giovane ebrea berlinese invano emigrata a Nizza. (Interessante anche come l'autore riconosca un ruolo politicamente lungimirante e umanitario alle autorità di occupazione italiane rispetto all'ottusità supina delle autorità francesi.)

Cos'è il terrorismo islamico?


È risaputo che gli islamici sono mondi incredibilmente plurali e molto più intenti ad ammazzarsi tra loro. Circostanza che rende errata la chiave di interpretazione che oppone il mondo islamico al mondo occidentale, quasi fossero due monoliti. Un dato oggettivo, non sempre veicolato dall'informazione, è che le guerre si combattono anzitutto tra musulmani e che le vittime dei conflitti sono quasi tutte musulmane. Il mattatoio siriano, come quello libico, ma anche quello iracheno e, prima di tutti, quello somalo sono testimonianze irrefutabili.
Siamo oramai a quattro anni dal fiorire delle primavere arabe che hanno contribuito – non comprese e male interpretate – al proliferare di spazi di decomposizione di ogni forma Stato; un processo che si sviluppa contemporaneamente alla convulsione dei traffici petroliferi e criminali. Dietro le quinte (ma neppure tanto) la contesa feroce tra Arabia Saudita e Iran. Così ci imbattiamo in gruppi jihadisti armati da Ryad contro al-Asad, in alleanza con la Turchia che costituisce il passaggio obbligato verso i campi d'addestramento militare dell’Isis. Gruppi che una volta armati e messi in campo, si sono poi scelti le rispettive strade e i propri obiettivi sfuggendo al controllo dei mandanti.
I Sauditi dal canto loro hanno anche sponsorizzato il colpo di Stato di al-Sisi in Egitto, che ha provveduto a massacrare e marginalizzare i fratelli musulmani che, radicati nel sociale, hanno comunque costituito una resistenza nei confronti del nuovo terrorismo.
La confusione è tale che in Siria Stati Uniti e Iran paiono costituire la medesima armata, con gli iraniani che funzionano da fanteria e gli americani da aviazione… La rivista "liMes" se ne è occupata dell'ultimo numero con l'abituale e documentata informazione.
L'altro grande attore regionale è evidentemente la già citata Turchia, che sconta d'altra parte un'atavica diffidenza nei suoi confronti del mondo arabo. Erdogan ha trovato un accordo con i curdi di Barzani e gestisce una condizione dalla prospettiva indefinibile e perfino contraddittoria rispetto all'atteggiamento tradizionale del governo di Ankara, che fino all'altro ieri definiva in maniera davvero anodina le popolazioni curde, tutte raccolte sotto l'etichetta di "turchi delle montagne".  È così che i turchi strizzano l'occhio a Putin per fare da scudo a un gasdotto tra Russia e Europa come alternativa a South Stream. Atteggiamento che non ha mancato di indispettire il Congresso americano, dove qualcuno si è spinto a chiedere la cacciata della Turchia dalla Nato, proponendo un regalo di dimensioni ciclopiche per l'avversario neozarista Putin. Ma i giochi sono evidentemente troppo complessi e troppi per essere seguiti...

L’Isis

È in questo quadro che si muove la banda feroce di al-Baghdadi che, a dispetto delle macabre esibizioni eversive, finisce per recitare una funzione di conservazione dei regimi vigenti. Cosa che consente di spostare le tensioni in altri punti strategici, dei quali il più caldo al momento è indubbiamente l'Ucraina, considerata dalla Russia di Putin una sorta di marca di confine per il nuovo impero. Ovviamente Gli Stati Uniti difficilmente possono tollerare che, sconfitta l’Urss, la Russia recuperi un ruolo di potenza globale. E qui nasce l'iniziativa di tamponamento verso il nuovo espansionismo zarista, nella quale gli Stati Uniti sono accompagnati da quella "nuova" Europa che è entrata nell'Unione pensando e preferendo la Nato: l'Europa anglo-baltico-polacca. Le armi di pressione sono davvero varie e forse infinite: a partire dal crollo del prezzo del petrolio che ha messo in ginocchio l'economia russa, con il rublo dimezzato, l'inflazione vicina al 20% e la perdita di tre punti di Pil.
Tutte ragioni che hanno spinto il governo del nuovo zar a improvvisare un'intesa geopolitica con la Cina. Ma chi sono, in questo quadro, i terroristi?
Secondo gli analisti più accreditati essi appaiono poco interessati alle lotte degli islamici e degli arabi già in campo da tempo. Non si curano infatti dei palestinesi e non si occupano di islamizzare la società, ma di esercitare piuttosto il loro protagonismo e il martirio a livello globale. È non a caso l'identikit dei tre terroristi parigini: i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly.
Tutto in effetti nel mondo islamico appare autonomo e frammentato. E deve piuttosto considerarsi un riflesso occidentale quello di parlare di "comunità islamica", con un'espressione impropria e un intento, anche in Italia, che rappresenta il tentativo disperato di dare un centro a una realtà storicamente senza centro.
Nessuno può scomunicare un altro islamico e non esistono partiti musulmani sui territori europei: non in Francia, in Italia e in Germania.
Secondo Olivier Roy siamo piuttosto di fronte a una rottura generazionale che mette alle corde le nostre alleanze occidentali. Dal momento che siamo alleati con i regimi arabi che alimentano il jihadismo (Arabia Saudita, Turchia, l'Egitto di al-Sisi). Mentre non si conosce un solo terrorista di matrice persiano-sciita che abbia preso di mira l'Europa.
In secondo luogo il terrorismo è un pericolo permanente, al punto che Mario Graziano osserva che "il terrorismo è la continuazione della disperazione politica con altri mezzi".
Quel pericolo permanente che papa Francesco ha evocato nella dichiarazione in cui parlava di una terza guerra mondiale, facendo inconsapevolmente eco ad analisi analoghe condotte mezzo secolo fa da Carl Schmitt.
Non sarà dunque il risentimento e neppure la rabbia vendicativa a trarci d'impaccio. E neppure il vezzo di cavalcare spregiudicatamente l'onda di chi è interessato più ai sondaggi elettorali che alla sconfitta del terrorismo.

Gli angoli

Vi sono lampadine che non debbono essere spente perché in qualche modo mandano sprazzi di luce sul panorama. Vi sono soprattutto angoli di visuale dei quali è opportuno far tesoro se non si vuol cedere al rischio di letture troppo parziali perché strabiche e distorte.
Provo quindi a indicarne qualcuno qui di seguito: angoli di visuale emersi nel corso dei dibattiti cui ho preso parte recentemente sull'Islam.

Primo. È bene non considerare banale la "classica" diagnosi di Huntington, che non va confuso con Oriana Fallaci. Così pure sarà bene rammentare che l'Islam ignora la crisi europea del Seicento e la configurazione dello Stato.
Noi occidentali ed europei chiamiamo Stati gli Emirati, che sono soltanto un accrocchio di tribù islamiche, molto versate nel business e nel lusso, oltre che nella manutenzione di una rigida ortodossia, ricca di elementi oltranzisti.
Secondo. Simone Weil aveva il coraggio di affermare che Omero è meglio di Roma: perché in Roma il diritto occulta la crudeltà della violenza (non vanno dimenticate le spietate crocifissioni), mentre Omero la svela.
Terzo. Un dato estremamente significativo è occultato da un'informazione malamente orientata e sicuramente interessata. Un miliardo e mezzo gli islamici; solo il 20% sono arabi, e non tutti gli arabi sono islamici. Per cui, dire islamici in generale non significa nulla.
L'Islam è figlio dell'Oriente e dell'Occidente. Figlio dell'Occidente in maniera tale da esserci parente. E, come dice il proverbio, i parenti sono come le scarpe, che più sono strette più fanno male...
Quarto. Le contraddizioni sono sovente molto vicine a noi. Essere croati nella ex Jugoslavia significa essere invariabilmente cattolici, mentre essere serbi significa essere ortodossi.
Al contrario, da tempo, il nostro essere italiani non è più legato all'essere cattolici.
Quinto. Ogni giorno islamici muoiono per mano di islamici. E non fanno notizia.
Ecco perché gli islamici sono i primi ad essere interessati alla violenza islamica e alle sue radici. La violenza cui assistiamo oggi non è stata usata nemmeno in Algeria nei confronti dei colonialisti.
Liberali e socialisti c'erano nel mondo islamico e sono stati fatti fuori con la connivenza dei gruppi di potere dell'Occidente.
Sesto. La prima guerra mondiale non è l'ultima delle guerre d'indipendenza italiane per le terre irridente, come sta scritto sui testi scolastici, ma la fine degli Imperi: Austria-Ungheria, Russia e l'impero Ottomano.
Settimo. Per l'Islam la vera terra promessa è il mondo. Per l'ebraismo la terra è quella tra il Libano e il Giordano.
Ottavo. Parrebbe che per essere progressisti ci si debba alleare con il peggio delle culture degli altri... S’impone perciò una revisione dei concetti di dialogo e di tolleranza.
Significativo come allenamento e palestra è il duetto ricordato da Stefano Levi Della Torre. Quando nel dopoguerra, per coniugare dialettica e tolleranza, un partigiano delle formazioni di Giustizia e Libertà e un partigiano comunista si esercitavano a sostenere l'uno le ragioni dell'altro: per provare finalmente a capirsi e ad accogliersi nell'attenzione reciproca.
Un percorso originale alla democrazia, dal momento che la democrazia non è un metodo ma un universo di valori dove condividiamo il medesimo percorso verso il bene comune.
Al di fuori di questo orizzonte sembrano collocarsi il "vero" Islam e la "vera" ortodossia di ogni altra religione.
Ogni volta che un "vero" siffatto viene così presentato è bene sospettare.
Nono. E infine una metafora. La metafora degli storni che disegnano bellissime figure nel cielo di Roma, fuori dalla stazione Termini. Quei medesimi storni disegnano però altrettanti voli esteticamente pregevoli nel cielo di certi quartieri romani, dove gli abitanti sono costretti ad aprire l'ombrello per evitare di essere imbrattati dai bombardamenti aerei di questi simpatici uccelli pur così bravi nelle figurazioni in cielo...
L’avvertenza è di occuparsi ogni volta anche del rovescio di una figura e di una questione.