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martedì 3 febbraio 2015

Se sia possibile una cittadinanza globale
di Giovanni Bianchi

Perché?
Perché il vero problema non è il rapporto con l'Islam, ma se sia possibile una cittadinanza globale e democratica. L'Islam infatti non è una faccenda che competa solo ai musulmani e agli arabi, dal momento che è ancora una volta la realtà di questa globalizzazione a imbarazzarci. Insieme al lavoro culturale (Freud) e politico che essa richiede. Un lavoro che viaggia lungo i confini delle etnie e delle identità, tutte chiamate a un inevitabile meticciato dalle continue migrazioni imposte dal capitale finanziario e dal bisogno di una cittadinanza più piena e più libera nelle masse. Per cui l'unica analisi e l'unico pensiero in grado di non divagare sono quelli che si candidano ad aprire una nuova prospettiva, confrontandosi coraggiosamente con lo spirito del tempo e altrettanto coraggiosamente criticandolo. Quel che importa è dunque la costruzione di una nuova soggettività globale, che non è uniformità, ma come unità e convivenza delle identità, dal momento che dovrebbe essere chiaro che la soggettività non può essere confusa con il soggettivismo. "Interpretare infatti è l'atto stesso attraverso cui il soggetto si costituisce. Indipendentemente dal contesto in cui mette in gioco una tale operazione".

Eppure
Eppure, come già nel dodicesimo e tredicesimo secolo, una grande contaminazione riguarda le culture. C'è sempre un Averroè che si occupa di commentare Aristotele. E una qualche Cordoba si trova in Europa. Quel medesimo capitalismo che ha armato i talebani in Afganistan, suggerendo una via bellica e poi terroristica agli allievi delle Scuole Coraniche, è il medesimo che ha tentato di insinuarsi nelle loro psicologie con gli agi del consumismo. I giovani che partono dalle periferie di Parigi per un indottrinamento che non è certo emulo degli Esercizi Spirituali ignaziani, non sono evidentemente destinati a passare il resto della vita nei campi di addestramento militare e non sono prevedibilmente tutti intenzionati al martirio. È questo il possibile destino di una minoranza davvero esigua tra gli islamici. La nuova globalizzazione -così com’è- seduce la quotidianità. Ben più di un miliardo di islamici in tutto il mondo pensano verosimilmente di continuare a vivere pacificamente la propria religione senza evitare i contatti con le cose buone e i comportamenti progressivi dell’Occidente. Tra gli immigrati solo una parte frequenta la moschea. Ma c'è di più: qualche pronipote di Averroè ha incominciato a riflettere e a scrivere. Il riferimento non è l'aristotelismo, ma l'illuminismo francese. Non ha fin qui infatti registrato soverchia attenzione né pubblicità la Dichiarazione di non sottomissione (a uso dei musulmani e di coloro che non lo sono) di Fethi Benslama, il cui riferimento più esplicito non è il filosofo di Stagira, ma Lacan.
La dichiarazione si presenta infatti come un invito pressante al pensiero, alla parola, alla ricerca, in un'epoca di passioni prevalentemente tristi. In un'epoca tuttavia nella quale il problema del soggetto continua ad essere centrale nel nostro essere e voler essere umani. Nella quotidianità individuale e collettiva, personale e generazionale: che non può darsi senza la presenza -auspicata o esorcizzata- della politica e di una politica responsabile (cioè in grado di decidere) perché consapevole della situazione. Un appello a rimanere svegli (Sentinella, quanto resta della notte?) contro le suggestioni che continuamente ci sviano perché ciò non accada. È davvero quello che abbiamo di fronte il peggiore dei mondi a venire? Dopo la strage di Parigi e dopo la grande manifestazione in difesa della libertà d'espressione, è ancora possibile e in che modo immaginare una convivenza fra culture e religioni diverse? Come concepire il valore della laicità e  come ripensare il ruolo delle religioni nello spazio privato e nello spazio pubblico? Una cittadinanza democratica e globale è il sogno patetico delle anime belle residue?

Le posizioni in campo
Osserva Massimo Cacciari in “Avvenire” di domenica 18 gennaio 2015 che "nelle culture europee la parola "libertà" rinvia immediatamente all'idea di incondizionatezza, alla quale ogni nostra azione viene commisurata. Dentro di noi possiamo essere consapevoli dell'impossibilità di realizzare pienamente quest'idea, eppure non rinunciamo a vivere come se la nostra libertà fosse già, per l’appunto, incondizionata".
Per il sociologo di origine algerina Khaled Fouad Allam sarebbe invece in atto uno scontro fra due tipi di sacralità: uno tradizionale, di cui i terroristi si dicono paladini, e un altro laico e profano. Troppi buchi neri separano ancora Islam e Occidente.
E infatti per Allam "la libertà occidentale presuppone un universalismo illuminista, di matrice settecentesca, che è stato ormai soppiantato da un universalismo di tutt'altro tipo, che definirei "post-occidentale".Non sto dicendo che l’Occidente è finito,  sia chiaro, ma che il contesto è più ampio, più complesso. Non ci si può accontentare di invocare un Islam più laico e, quindi, più libero. Il vero problema è, ancora una volta, quello della secolarizzazione, che per l’Europa non si limita alla rivendicazione del principio di uguaglianza, ma comporta un divorzio profondo fra l’io e la dimensione religiosa, in un percorso di soggettivizzazione per cui la religione, per quanto importante, non è comunque più importante di altri valori. Gli attentati di Parigi, come sappiamo, hanno preso di mira proprio questo sistema di idee e, nel contempo, hanno reso evidente il dramma dell'Islam di oggi".
A questo punto le posizioni possono divaricare proprio intorno al tema epocale della secolarizzazione. Chi la pensa in piena salute e chi al tramonto. Chi, come Paolo Sorbi, usando una celebre distinzione martiniana, fa osservare che un conto è la secolarizzazione, un altro è la secolarità, che comporta il confronto con il principio di realtà. Con l'osservazione generale che la secolarizzazione è un fenomeno globale, dal quale però per il momento l'Islam è rimasto escluso.
Per l'islamista Paolo Branca vale la convinzione che l'Islam sia un organismo in sé sano, ma che ha al suo interno un tumore da estirpare. E aggiunge: " Mi riferisco al cancro del terrorismo, si capisce, e mentre dico questo so benissimo che a far galoppare le metastasi sono stati i milioni e milioni di petrodollari erogati dai governi dell'area mediorientale".
E’ nel groviglio così descritto che le frontiere simboliche si trasformano in frontiere etniche –  nella ex Jugoslavia come in Ruanda – e come sta accadendo in tante parti del mondo.
La semplice e pur intensa trasmissione di nozioni, informazioni e cognizioni tecniche risulta drammaticamente insufficiente, perché nessuno arriverà mai a comprendere l'altro se non all'interno di una dimensione relazionale calda e solidale. Qui si gioca, nelle società liquide come nella crisi degli Stati Nazione, il destino dell'attuale globalizzazione. Qui dobbiamo riproporci l'interrogativo su che cosa sia una cittadinanza globale, che implica convivenza di identità diverse, e non soltanto una omologazione consumistica. Gli stili di vita letti soltanto in questo modo e a questo livello non danno conto delle profonde trasformazioni antropologiche in atto, e neppure di quelle che già si sono prodotte. Non basta girare il mondo e appartenere alla generazione Erasmus.
La contiguità del consumo non è amicizia e non costituisce di per sé cittadinanza. Così pure non basta la retorica delle affermazioni che giudicano le differenze una ricchezza. È vero, ma non è sufficiente. Anche in questo caso è possibile morire d'eccesso analitico (papa Francesco). Sperimentare percorsi d’amicizia e di solidarietà non è un problema teorico né tantomeno un vezzo retorico.

Il testo di Benslama 
Lo psicoanalista franco-tunisino Fethi Benslama non ha paura osservare che l'Islam è “la posta in gioco centrale della guerra che si svolge da ormai una trentina d'anni: una guerra il cui scopo è di potere definire ciò che "Islam" significa, onde poter parlare in suo nome. Perché parlare “nel nome di” conferisce un potere sovrano”.
L’origine del libro? Anche in questo caso Benslama non è reticente: "Il testo che segue è stato redatto su richiesta di un gruppo di lavoro composto dai firmatari del “Manifesto delle libertà”, nel quale delle donne e degli uomini chiamavano tutti quelli che si riconoscevano sia nei valori della laicità che nel riferimento all'Islam come cultura a uscire dal loro isolamento e a opporsi all'ideologia dell'islamismo". Il testo della dichiarazione inizia infatti definendo minacciosa un'invocazione che corre il mondo: "nel nome dell'Islam". E sembrerebbe perfino muoversi in una piattaforma che non ignora la visione “armata” di Huntington che aveva per tempo messo in guardia dallo scontro di civiltà. Mentre, nota ancora Benslama in apertura, "siamo stati testimoni del processo di brutale azzeramento prodotto dalle devastazioni economiche, sociali, culturali e spirituali nella maggior parte delle società islamiche". Una lunga scia si estende "in maniera pressoché ininterrotta dal Marocco all'Indonesia: massacri e assassini, torture e reclusioni, spartizioni e banditidismi, arcaiche vendette e umiliazioni, anzi, in certi casi, crimini di guerra e genocidi". E di tutto ciò l’origine non è ignota, almeno all’Autore: "Uscite da una setta che predica un puritanesimo intransigente(il wahhabismo), capace di ripudiare anche gli sprazzi di gioia, le petro-famiglie hanno diffuso, attraverso i movimenti che loro stesse hanno generato, una concezione letterale della religione, l'ossessione d’un dio oscuro che esige  sacrificio e purificazione in ogni ambito dell'esistenza umana, ritenuta fondamentalmente impura. Essi hanno innalzato la vitrea cloaca dietro la quale una parte dei giovani non ha più ormai che degli occhi irritati per guardare il mondo da quaggiù; loro hanno invertito il senso della promessa progressista: la speranza non è più rivolta verso il futuro, ma verso un passato ingiustamente passato, al quale occorre ritornare. Questi puritani d'Arabia hanno divorato l’avvenire".
Non a caso già in Algeria (molti ricordano lo splendido film sui monaci scomparsi) appare chiaro come non si trattasse soltanto del massacro di intere popolazioni civili, ma, "molto peggio, dei supplizi che testimoniavano un desiderio di distruggere degli esseri in quanto tali, dove crudeltà e sessualità si mischiavano indistricabilmente tra loro". E infatti ci sono i racconti dei sopravvissuti, nei quali i pretesi resistenti islamici hanno inflitto sofferenze insostenibili a bambini, donne, uomini, per poter godere d'un potere illimitato su di loro, fino a ridurli a brandelli di carne da macelleria, come se avessero voluto far regnare la notte d’un dio del nulla e ricondurre allo stato di cose le creature umane.
"Il supplizio dei monaci di Tibérine mostra che per loro non ha nessuna importanza la funzione e la parola, ogni gola è da sgozzare, ogni carne è buona per essere fatta a pezzi. Occorre chiedersi in questo caso, così come in altri, come una civiltà possa alimentare simili demoni sterminatori. La barbarie non può essere un fatto accidentale".
Tenendo in conto la circostanza che l'offerta d'una completa realizzazione anticipata grazie al tramite delle nozze con la morte può trovare orecchie attente e numerosi acquirenti.
A questo punto Benslama introduce la nozione di "modernismo incolto". Si tratta della "trasformazione tecnica ed economica di uno spazio di vita, senza i mezzi per rendere intellegibile il  reale di questa trasformazione, tale per cui gli umani che lo abitano diventano analfabeti del loro stesso mondo e lo subiscono come un vortice d'assurdità".
Resta ancora da osservare che attraverso il disprezzo di sé e della propria vita l'oppresso disperato si colloca sul medesimo terreno del suo oppressore. E così "si distrugge per distruggere, distrugge perché lo si distrugga".
Questo ingranaggio non è tuttavia l'esito di una fatalità, ma di una macchinazione compiuta dai governanti degli Stati detti "musulmani". Nel luogo dello Stato essi hanno insediato una macchina per produrre terrore e piacere. Il diritto e la democrazia restano ad uso "meramente endogamico". E il tutto si concentra nella "dissoluzione del politico nello spirito di corpo".
È in questo quadro -dove l'Islam non è solo il nome di una religione ma anche quello di una civiltà costituita da una molteplicità di culture e da una diversità umana irriducibile- che la richiesta che sia resa giustizia all’eguaglianza di tutti gli uomini, l'esigenza del diritto di avere dei diritti, l'appello a una democrazia a venire "non possono essere dissociati dall'immenso lavoro sulla loro cultura che i musulmani sono chiamati a mettere in atto. Ecco perché, come l'Europa non è solo una questione degli europei, così l'Islam non è una cosa esclusiva dei musulmani".
L’Islam infatti non è soltanto il nome di una religione, ma anche quello di una civiltà costituita in un mondo globale che è insieme il mondo reale e la sua rappresentazione.
Ma esso si evidenzia e fa problema anche per alcuni vistosi ritardi rispetto alla modernità: l'esclusione legalizzata, l'istituzione dell'ineguaglianza, “l'avvilimento legittimato delle donne dalla legge teologica”. Un ruolo non secondario gioca da questo punto di vista il velo, che per Benslama è "per la donna, l’antisegno da ostentare in quanto percepita come “male necessario”." Un giudizio davvero durissimo dall'interno del mondo islamico.


Che ne è dello Stato islamico?
Non meno drastico il giudizio sulle forme del politico e statuali. "Il mondo musulmano si è liberato dalle forze esterne del colonialismo per precipitare poi sotto il giogo della tirannia politica dell'unità e della sua stessa realtà interna". Fino alla tragica impasse dell'Egitto, dove l'inettitudine di Morsi ha riaperto il varco alla dittatura militare. Perché i conti non fatti con l'illuminismo pesano nella vita pubblica come in quella familiare. Così come quei conti non fatti pesano anche nel cattolicesimo.
Dove ad essere messo in gioco non è tanto l'Islam come religione quanto come cultura, dal momento che "la libertà di ciascuno non è possibile che assieme a quella degli altri".
Fa riflettere l'osservazione di Benslama: "Il fatto che nella civiltà musulmana non sia mai apparso l'equivalente, o qualcosa di simile, del concetto di cittadino, e degli effetti che ne derivano nella storia, è l’indice di una faglia sistemica che resta a tutt’oggi da analizzare, al di fuori di ogni schematismo e anacronismo". Anche se la possibilità dell'impossibile è l'orizzonte weberiano di qualsiasi politica, quelle islamiche incluse. In esse vanno precisati gli obiettivi di una laicità, che ovviamente non si propone la distruzione dell'autorità religiosa. Vanno altresì precisati gli obiettivi della libertà, come pure della fraternità: la terza e più negletta parola di un Ottantanove che -non va dimenticato- ha visto la ghigliottina al lavoro nei confronti dei preti vandeani, i cui lontani antenati avevano usato i roghi degli inquisitori contro eretici e infedeli. Ma è pur vero che le diverse religioni e le diverse civiltà imparano l'una dall'altra dai rispettivi errori e perfino dalle tragedie.