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lunedì 18 maggio 2015

Califfi

C’è qualcosa di islamico nel califfato di Renzi, ed è il gusto della sottomissione. Non è fascista l'ex sindaco di Firenze che ha dimenticato La Pira, ma attira i consensi di non pochi italiani che sotto diverse bandiere sentono l'attrazione del culturame del ventennio.
La parola sottomissione esprime bene questo atteggiamento in chi sta sopra e in chi sta sotto. Semplificare aiuta, prima i concetti e poi la realtà. Il romanzo di Houellebecq è più utile di quanto si creda. La via al sultanato è incominciata in Italia più di vent'anni fa: prima Bossi (al posto dei marocchini e dei turchi ha esibito i Celti) e poi Berlusconi, ex cavaliere, ex gestore dell'harem di Arcore, ex presidente vincente del Milan europeo, ex tutto: tranne che esule dal proprio incontenibile narcisismo economico-culturale-politico. E le tombe di Cascella, sempre a Villa San Martino, saranno il suggello di una dinastia di plastica.
Dunque nel clash of civilizations è anche per l'Italia tempo di sultani. Uno, globalizzato a Detroit, lo trovate anche a Torino. Per lui l’autocritica, se va bene, è la critica delle auto. Non paga le tasse in Italia e forse il suo giovane amico di Palazzo Chigi dovrebbe inventarsi una sorta di decima mediterranea per incassare un po' di danaro di pubblica utilità.
Le forme del politico -e più ancora quelle del potere- hanno una plasticità incredibile. Si congedano dal Novecento, ma praticano l'eterno ritorno. Anche quello dei furbi. Conservano e trasfigurano: e la chiamano innovazione. Le masse applaudono sempre. Le masse sono destinate ad applaudire. Anche un califfo può risultare innovatore, veloce, al passo coi tempi, grande comunicatore, benefico. Soprattutto se viene confrontato con gli stanchi bizantini della democrazia che si crede di sinistra. Per questo la gente oggi vota un califfo, che è il modo più moderno per applaudirlo e sottomettersi. Vero a dirsi, un califfo può essere la cosa più dinamica ed utile a disposizione della governabilità. Delresto la politica non si separa mai nei leaders dal suo costitutivo relativismo, per il quale uno è più alto perché gli altri sono più bassi di lui. C'è un realismo e un minimalismo (anche mediatico) che non deve essere tralasciato; è quello che detta il voto utile.
Non ci sono le riforme dall'alto, neppure quelle comunicative. Ci vuole ogni volta il sacrificio, l'umiltà e la generosità di ripartire dal basso. Un nuovo Costantino (ma chi lo desidera più?) lo puoi immaginare in politica dopo decenni di catacombe. Ma devi disabituarti a certe comodità igieniche e alle vellicature del danaro e della fama finta.
Purtroppo e maledettamente un popolo ha ancora bisogno di punti di riferimento credibili (testimoni e non testimonials), vati, magari un po' sciamannati, in qualche caso perfino  apparentemente stronzi... Un popolo non è un elemento della biopolitica, ma una lenta e faticosa costruzione. Talvolta tragicamente dolorosa. Per quale futuro ideale si sono giocati la vita i ventenni che abbiamo ricordato dopo settant'anni di 25 Aprile? Invano? Ingenui o generosi? Certamente non narcisi. Domanda plebea: interessa ancora un popolo? Dicono le studiose americane che i capi postmoderni surfano (come sulle onde dell'oceano, con la tavoletta) problemi e difficoltà della stagione del capitalismo finanziario e consumistico.
Ma noi abbiamo ancora voglia di bagni e magari -i più robusti- di attraversare a nuoto lo Stretto, visto che è tramontato il sogno del megaponte concepito dal primo e oramai vecchio califfo. Insciallah.

Giovanni Bianchi