Califfi
C’è qualcosa di islamico nel califfato di
Renzi, ed è il gusto della sottomissione. Non è fascista l'ex sindaco di
Firenze che ha dimenticato La Pira, ma attira i consensi di non pochi italiani
che sotto diverse bandiere sentono l'attrazione del culturame del ventennio.
La
parola sottomissione esprime bene
questo atteggiamento in chi sta sopra e in chi sta sotto. Semplificare aiuta,
prima i concetti e poi la realtà. Il romanzo di Houellebecq è più utile di
quanto si creda. La via al sultanato è incominciata in Italia più di vent'anni
fa: prima Bossi (al posto dei marocchini e dei turchi ha esibito i Celti) e poi
Berlusconi, ex cavaliere, ex gestore dell'harem di Arcore, ex presidente
vincente del Milan europeo, ex tutto: tranne che esule dal proprio
incontenibile narcisismo economico-culturale-politico. E le tombe di Cascella,
sempre a Villa San Martino, saranno il suggello di una dinastia di plastica.
Dunque
nel clash of civilizations è anche
per l'Italia tempo di sultani. Uno, globalizzato a Detroit, lo trovate anche a
Torino. Per lui l’autocritica, se va bene, è la critica delle auto. Non paga le
tasse in Italia e forse il suo giovane amico di Palazzo Chigi dovrebbe
inventarsi una sorta di decima mediterranea per incassare un po' di danaro di pubblica
utilità.
Le
forme del politico -e più ancora quelle del potere- hanno una plasticità
incredibile. Si congedano dal Novecento, ma praticano l'eterno ritorno. Anche
quello dei furbi. Conservano e trasfigurano: e la chiamano innovazione. Le masse applaudono sempre. Le masse sono destinate ad
applaudire. Anche un califfo può risultare innovatore, veloce, al passo coi
tempi, grande comunicatore, benefico. Soprattutto se viene confrontato con gli
stanchi bizantini della democrazia che si crede di sinistra. Per questo la
gente oggi vota un califfo, che è il modo più moderno per applaudirlo e
sottomettersi. Vero a dirsi, un califfo può essere la cosa più dinamica ed
utile a disposizione della governabilità. Delresto la politica non si separa
mai nei leaders dal suo costitutivo relativismo, per il quale uno è più alto
perché gli altri sono più bassi di lui. C'è un realismo e un minimalismo (anche
mediatico) che non deve essere tralasciato; è quello che detta il voto utile.
Non
ci sono le riforme dall'alto, neppure quelle comunicative. Ci vuole ogni volta
il sacrificio, l'umiltà e la generosità di ripartire dal basso. Un nuovo
Costantino (ma chi lo desidera più?) lo puoi immaginare in politica dopo
decenni di catacombe. Ma devi disabituarti a certe comodità igieniche e alle
vellicature del danaro e della fama finta.
Purtroppo
e maledettamente un popolo ha ancora bisogno di punti di riferimento credibili
(testimoni e non testimonials), vati, magari un po' sciamannati, in qualche
caso perfino apparentemente stronzi...
Un popolo non è un elemento della biopolitica, ma una lenta e faticosa
costruzione. Talvolta tragicamente dolorosa. Per quale futuro ideale si sono
giocati la vita i ventenni che abbiamo ricordato dopo settant'anni di 25
Aprile? Invano? Ingenui o generosi? Certamente non narcisi. Domanda plebea:
interessa ancora un popolo? Dicono le studiose americane che i capi postmoderni
surfano (come sulle onde dell'oceano,
con la tavoletta) problemi e difficoltà della stagione del capitalismo
finanziario e consumistico.
Ma
noi abbiamo ancora voglia di bagni e magari -i più robusti- di attraversare a
nuoto lo Stretto, visto che è tramontato il sogno del megaponte concepito dal
primo e oramai vecchio califfo. Insciallah.
Giovanni Bianchi