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venerdì 8 maggio 2015

TEATRO
Ha debuttato il 5 maggio in prima nazionale al Teatro Menotti di Milano (Via Ciro Menotti 11) Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee, traduzione di Ettore Capriolo, regia di Arturo Cirillo, in scena nel ruolo di George. Con Milvia Marigliano (nel ruolo di Martha), Valentina Picello (Honey) e Edoardo Ribatto (Nick). Scene Dario Gessati, costumi Gianluca Falaschi, luci Mario Loprevite, regista collaboratore Roberto Capasso, assistente alla regia Giorgio Castagna, assistente scenografo Lucia Rho. Produzione Tieffe Teatro Milano.
Le foto di scena sono di Diego Steccanella


Primo testo in tre atti di Edward Albee, scritto nel 1962, rappresentato per la prima volta il 13 ottobre 1962 al Billy Rose Theatre di Broadway, con la regia di Alan Schneider, la commedia ottiene subito un grande successo di pubblico, tanto da venir replicata per due anni. Dello stesso autore sono degne di nota: A Delicate Balance (1966), Seascape (1975) e Three Tall Women (1991), che gli valsero tre premi Pulitzer.
In Italia, Chi ha paura di Virginia Woolf? è stato messo in scena per la prima volta nel 1963, per la regia di Franco Zeffirelli; poi da molti registi, tra cui, nel 1977, Franco Enriquez, nel 1985 da Mario Missiroli, e nel 2005 da Gabriele Lavia (con Mariangela Melato nel ruolo di Martha e lo stesso Lavia nel ruolo di George). È inoltre da ricordare la riduzione cinematografica del 1966, per la regia di Mike Nichols, interpretata da Elizabeth Taylor e Richard Burton.


Il tragico inno all’amore di Edward Albee
di Chiara Pasetti
«Mi sono assunto il compito di scrivere di voi. Si è così compiuto uno dei miei più grandi auspici, dato che la possibilità di scrivere sulle vostre opere rappresenta per me una vocazione interiore, una festa e una gioia, oltre che un grande e nobile dovere a cui volge la mia passione per la vostra arte». Rainer Maria Rilke a Auguste Rodin


Debutto in prima nazionale al Menotti di Chi ha paura di Virginia Woolf?, che vede Arturo Cirillo alla regia e in scena nel ruolo di George, Milvia Marigliano nel ruolo di sua moglie Martha, e Edoardo Ribatto e Valentina Picello nei ruoli di Nick e Honey, l’altra coppia protagonista. Un gruppo di attori, eccettuata Valentina che si è unita successivamente, che avevano già lavorato insieme per Lo zoo di vetro di Tennessee Williams, e l’affiatamento era evidente.
Lo spettacolo si svolge nel salotto dei coniugi di mezza età Martha e George, che a tarda notte ospitano una coppia più giovane, Nick e Honey, e danno il via a un lento gioco al massacro, di se stessi prima ancora che degli altri, incentrato sui loro rimorsi e rimpianti, le rivendicazioni, le delusioni e le angosce, le paure, reali o fantasmatizzate. Un flusso di coscienza che ha l’aspetto di una seduta psicanalitica in cui ognuno si trova allo specchio con se stesso, con un proprio “doppio”, e con un proprio nemico. Curioso che Albee abbia scelto il titolo, Chi ha paura di Virginia Woolf?, che gioca sulle parole lupo (wolf) e il cognome della scrittrice (Woolf), dopo aver letto la frase, scarabocchiata con il sapone, proprio sullo specchio di un bar. Il titolo, canticchiato in scena numerose volte, ispirato all’aria «chi ha paura del lupo cattivo?», fornisce numerose chiavi di lettura. Innanzitutto la paura, tema ricorrente nel testo. Paura di amare, paura di non essere amati, paura di non amare, paura di vivere, paura di invecchiare, paura di morire. Martha, la bravissima Milvia Marigliano, fulcro della storia da cui si dipanano le situazioni e le emozioni più forti, da lei dolorosamente rappresentate con grande maestria e realismo, sembra una donna ormai disillusa dalla vita e dal suo «opprimente» matrimonio. È piena di rancore nei confronti di suo marito, l’istrionico e talentuoso Cirillo, che qui si costringe in abiti borghesi da docente universitario, non rinunciando però alla sua vena (presente effettivamente in George, sebbene non scopertamente) più astratta e onirica. Gli rinfaccia di tutto, vomitandogli addosso uno «schifo» che alberga prima di tutto dentro di sé. Ma in realtà le parole che Martha rivolge al marito, urlate e sprezzanti, ironiche e umilianti, consapevolmente cariche di astio, si perdono in un’unica lunga sinfonia indistinta, e quelle che restano maggiormente sono le più disperate, espressione di una profonda lacerazione e solitudine, che suonano come un tragico e tristissimo inno all’amore. Davanti a loro, i giovani sposi Nick e Honey, inizialmente disgustati da tanto dolore e disprezzo, che lentamente tuttavia si lasciano sempre più coinvolgere dai loro giochi sadici e crudeli, come stregati da un malvagio incantesimo che li tiene inchiodati al divano per tutta la notte, bevendo alcol e scoprendo moltissime zone d’ombra di se stessi e del loro, per nulla felice, matrimonio. Davanti a una luna (di miele-Honey, o di fiele?) che alla fine, dopo l’esplosione delle coscienze e il collasso (simbolicamente rappresentati sul palco da una pedana «sismica e sconnessa» che si rompe, si sposta, slitta, modifica gli assetti iniziali) tramonta, per lasciare posto a un’alba che ricompone, riavvicina, sistema, facendo tornare tutto come è sempre stato. L’altro tema contenuto già nel titolo è quello del gioco: è un gioco di parole, come sono giochi di parole quelli detti e agiti dai personaggi, e il più delle volte sono giochi lugubri (sopra a tutti, quello che riguarda un immaginario figlio morto della coppia Martha-George, e di un figlio mai nato della coppia Nick-Honey). E la mente va al «gioco del rocchetto», celebre «psicodramma» freudiano che si riporta al fenomeno, perfettamente espresso nel testo di Albee e dai quattro attori in scena, della coazione a ripetere. Con tale espressione il fondatore della psicoanalisi ha voluto indicare tutte quelle tendenze inconsce che, spingendo l’individuo a ripetere comportamenti schematici o modi di pensare costitutivi di esperienze conflittuali, costringono «a ripetere il rimosso come esperienza attuale, anziché ricordarlo come un brano del passato». Questo è ciò che continuano a fare i protagonisti, che come quattro bambini bisognosi di sublimare esperienze dolorose, si “divertono” a ripetere i loro (terribili, in questo caso) giochi. E alla fine, come ogni gioco che si rispetti, anche i loro rivestono una funzione essenzialmente catartica, di liberazione delle frustrazioni e delle angosce, funzione e risultato che si svela e si realizza in chiusura (non senza una certa dose di dolcezza, la sola espressa fino a quel momento), lasciando tutti un po’ cambiati, e in fondo sempre uguali. Edoardo Ribatto è molto efficace nel suo ruolo di maschio avvenente, che fa da contraltare (e da rivale) alla mediocrità di George, Valentina Picello fa un uso sapiente ed elegante del corpo, con il quale comunica sia le emozioni più scoperte sia quelle più nascoste di una donna giovane alle prese con il proprio vissuto angoscioso e carico di nevrosi. Milvia Marigliano e Arturo Cirillo emergono, grazie al talento e a un testo a loro congeniale, con struggente violenza, per la grande capacità di tenere altissima la tensione dall’inizio alla fine, e costringendo lo spettatore a immedesimarsi almeno un po’ in questo (loro e nostro) «gioco lugubre».
S. Dalì "Gioco lugubre" 1929

«Il grottesco mi assordava le orecchie e il patetico si torceva in convulsioni davanti ai miei occhi. Da tutto questo traggo una conclusione: non bisogna mai temere di essere esagerati»(Gustave Flaubert)  

Fino al 24 maggio (dal martedì alla domenica) al Teatro Menotti (via Ciro Menotti 11). Per info e prenotazioni: www.teatromenotti.org Ufficio stampa teatro Menotti: stampa@tieffeteatro.it

Arturo Cirillo è nato a Castellammare di Stabia nel 1968. Dopo aver studiato danza, sia classica che contemporanea (formazione che si nota nell’utilizzo consapevole, misurato e sempre armonioso del corpo), si è diplomato come attore all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma nel 1992. Negli ultimi tempi ha messo in scena, sempre con ottimi riscontri di critica e pubblico, Lo zoo di vetro, dal testo di Tennessee Williams, da lui diretto e interpretato (nel ruolo di Tom), insieme a Milvia Marigliano, Edoardo Ribatto e Monica Piseddu, La gatta sul tetto che scotta, sempre di Williams, regia di Cirillo, con Vittoria Puccini e Vinicio Marchioni, e Scende giù per Toledo, testo di Giuseppe Patroni Griffi, di cui ha firmato anche in questo caso la regia ed era il solo (bravissimo) interprete. Per saperne di più: