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mercoledì 3 giugno 2015

Califfi due
di Giovanni Bianchi


Soumission
Ad essere minimamente realisti e sinceri, il problema non riguarda tanto i califfi (ci sono già storicamente stati e continueranno ad esserci) ma la voglia di califfato che percorre i paesi non soltanto islamici. In questo senso Soumission, il libro di Houellebecq, non mi è parso particolarmente interessato al Profeta; il suo intento è analizzare attraverso il racconto romanzato una deriva tutta interna alla Francia, nazione prediletta del cristianesimo. Ad essere più precisi, non solo le religioni che interessano, ma il mutamento di un costume –  civico, culturale e politico – che si nasconde dietro le bandiere della religione.
Si sa che le religioni sono ricchissime di simboli, un vero serbatoio disponibile ad usi diversificati, che attraversano la quotidianità insieme allo spazio pubblico; ma non è neppure questo, mi è parso, quel che interessa a Houellebecq, e a dire il vero neanche a me che lo cito. Non è solo il problema di giovani maghrebini cresciuti nelle periferie: è qualcosa che alberga dentro il cuore della vecchia Europa come nei paesi islamici lungo la riva meridionale del Mediterraneo, dove non a caso, anche come reazione, si sono avute quelle “primavere” che il vecchio continente ha fatto di tutto tranne che capire.
Tradotta in italiano la questione diventa: non è il momento di interrogare gli oroscopi su quale sarà il destino del giovane Renzi, ma di chiederci che cosa il Premier interpreta di un paese comunque cambiato. Come lo interpreta e dove ci condurrà è un problema che viene dopo e che, a livello di analisi, è bene distinguere e tenere separato. Tanto grande è la confusione sotto il cielo che se non si affrontano i temi uno per volta c'è il rischio di darsi ragione con un grande minestrone interpretativo, che alla fine però ci lascia al punto da dove eravamo partiti. C'è un problema di organizzazione del politico e di democrazia davanti a Renzi. Non perché Renzi li metta a rischio, ma perché le fragilità di questa democrazia si sono rese palesi. Le fragilità sono originate dal turbocapitalismo globale, e Renzi è chiamato in causa perché la sua azione di governo non può non tenerne conto. Ossia Renzi non può occuparsi della sola governabilità (nella quale si sente più versato) senza occuparsi e preoccuparsi della democrazia. Ci hanno portato in clinica un paziente malato di polmoni. Ma si scopre alla Tac che anche il fegato è malmesso. Che fare? Se vuoi che viva devi occuparti anche della grana addominale imprevista.
Un recente articolo di Giuseppe Tognon sulla rivista "Appunti di cultura politica" (n. 1, 2015) affronta il problema con un titolo intrigante: "Sopravviverà il PD a Renzi"? È già un passo avanti, dal momento che l'occhio e l'accento vengono posti sull'organizzazione politica piuttosto che sul carisma del personaggio. Tognon, uno degli allievi prediletti di Pietro Scoppola, fotografa il renzismo con una macchina fotografica, splendida e tuttora efficiente, la cui marca è senz'altro il “cattolicesimo democratico”: una ditta gloriosa, alla quale mi pregio di appartenere, ma fuori uso. Il suo è anche il mio punto di vista. E devo dire che Tognon si muove in maniera analoga alla mia, dal momento che, pare a me, più analizza il cattolicesimo democratico di questa fase che l'inquilino di Palazzo Chigi.

Ci vuole la telecamera
In effetti per fare un ritratto di Renzi più che la macchina fotografica serve la telecamera; più dell'istantanea la sequenza. Con quelle del resto si esercita da tempo con grande acume e pari successo il comico Crozza, da annoverare non proprio tra i critici benevoli e tantomeno tra i
propagandisti. Crozza ha puntato Renzi fin dall'inizio, mettendo a nudo gli aspetti marinettiani del discorso, e direi che la sua analisi settimanale mi ha fatto pensare alle diagnosi del linguaggio moroteo tentate da Pier Paolo Pasolini.
La prima cosa che mi pare necessario mettere in chiaro è che Renzi, nonostante il suo scoutismo, nonostante l'origine partitica e fiorentina (è uno dei successori del sindaco La Pira) non mi pare interessato alla realizzazione di una cultura cattolico-democratica. Sia che la conosca e l'abbia vissuta, sia che generazionalmente la ignori.
Altro è il piglio, altri i riferimenti, altro l'atteggiamento. Esplicitamente il modo di proporsi può richiamare quello di un serial televisivo con la partecipazione di Fonzie, piuttosto che lo sguardo spiritualmente ispirato, il rapido gesticolare e il discorso tutto anacoluti di Giorgio La Pira. Ognuno, si sa, è figlio del suo tempo. E nel suo tempo può trovarcisi bene oppure criticarlo. È questo il tempo del mito Ferrari e di Marchionne. La Pira se ne sarebbe tenuto discosto. Renzi non nasconde il proprio entusiasmo automobilistico. Il vecchio sindaco cercava saggezza e attenzione agli ultimi; il suo penultimo successore sembra preferire il plauso e il successo. Mi pare più che legittimo. E tuttavia per uno cresciuto con il culto della critica costruttiva il giovane Premier sembra non tanto interessato a cambiare l'onda, ma a surfarla (con la tavoletta del surf, come quelli che praticano l'oceano e i suoi marosi). Diciamo dunque che neppure dal punto di vista balneare è un vir mediterraneus (come La Pira appunto, Fanfani, Moro, Bettino Craxi). Per lui il Mediterraneo è Med, come per gli americani e gli inglesi. Come credo lo sia anche per alcuni suoi ministri che, come già mi è capitato di osservare, hanno speso alcune mattinate a dichiarare guerra alla Libia.



Sopravviverà il PD a Renzi?
Sopravviverà il PD a Renzi? È questo l'interrogativo del denso saggio di Giuseppe Tognon. L’incipit è di tutto rispetto: "Al cuore del problema della sopravvivenza economica e finanziaria dell'Italia ve n’è uno, tutto politico, che è il futuro del PD. Il partito oggi guidato da Renzi è il possibile motore di una nuova scomposizione e riaggregazione della politica italiana che consenta al nostro paese di rimanere al centro di una prospettiva europea".
Sottoscrivo e faccio mia l'impostazione e la sintesi. Anche perché, pur conscio della dissoluzione del primato della politica, non mi sono ancora rassegnato al venir meno di un ruolo della politica nella stagione del turbocapitalismo, e credo che il partito, se non come luogo, almeno come miraggio, è l'obiettivo cui puntare; il partito come il luogo dal quale esercitare un punto di vista complessivo sulla fase e le sue crisi.
In tutto ciò la storia del nostro paese viene descritta da Tognon come dominata da un movimento pendolare, tra il ricorso alle svolte autoritarie, oppure il ricorso a un progressivo allargamento della base di consenso dei governi attraverso pratiche trasformistiche o consociative. Nell'un caso e nell'altro stiamo parlando non di una fisiologia, ma di due patologie simili, se non proprio uguali e contrarie. Quel che non troviamo sotto i nostri cieli e nella nostra storia è dunque una democrazia compiuta e tantomeno una democrazia dell'alternanza, che fu il miraggio non dimenticato dell'Ulivo prodiano. In tal modo le formule politiche degli ultimi cinquant'anni non sono riuscite a superare la crisi della forma partito o tantomeno la crisi finanziaria e morale dello Stato. Non saprei dire se rispetto alle vicende della società liquida e dello Stato minimo si tratti di un anticipo o piuttosto di un ritardo rispetto al resto dei paesi europei. Si aggiunga una cattiva circolazione delle élites come patologia influenzale di un ceto politico che, proprio per questo, non è mai riuscito a diventare sul serio classe dirigente.
Non ci è concesso di ripercorrere tutte le trasformazioni della partitocrazia nazionale. Tognon addita nel momento presente "l'identificazione della premiership con la leadership del partito di maggioranza relativa". L’osservazione non mi pare contestabile.
Qui incomincia il discorso sulle potenzialità e più ancora sulle responsabilità del PD. Non a caso Ilvo Diamanti lo definisce "partito presunto" ed anche PDR, ossia "partito di Renzi".  Quel che importa acquisire è che l'avvento di Renzi alla segreteria e poi a Palazzo Chigi costituisce comunque una discontinuità rispetto alla "ditta" di Bersani e compagni. Personalmente ho salutato con favore la discontinuità, e proprio per questo consento nel dire che si tratta di due partiti diversi e dissimili. Con novità sorprendenti anche se non sempre positive. Renzi ha conquistato il partito attraverso le primarie, e tuttavia siamo riusciti in Italia a destrutturare in soli i cinque anni e a rendere poco credibile uno strumento -le primarie appunto- che negli Stati Uniti ha spessore democratico e partecipativo secolare. Prima di prender parte e schierarmi mi pare allora intellettualmente serio riconoscere la discontinuità e quindi la differenza. Per questo mi infastidiscono le analisi partigiane dell'una e dell'altra parte che, in nome del tifo sportivo applicato alla politica, conducono pseudoanalisi fatte di continue rimozioni, dove la critica non si esercita e l'autocritica è ridotta a critica delle auto...

La morfologia
Salvatore Natoli ha il grande merito di avere riproposto come primario e imprescindibile il tema dell'antropologia degli italiani. Dopo Leopardi, dopo Prezzolini, dopo Guido Dorso.
La questione del partito infatti non può prescindere dall'antropologia del popolo italiano, e a sua volta l’antropologia del popolo italiano non può prescindere dalla morfologia dell'organizzazione politica, sociale ed amministrativa.
Ripeto che un popolo non è un bruto dato della biopolitica, ma una faticosa costruzione storica, culturale ed etica. Essendo i tentativi in questa direzione non andati storicamente a segno, ci siamo da gran tempo rassegnati a definire il meglio di noi stessi come "antitaliani". Ernesto Galli della Loggia muove tutto sommato in questa direzione quando parla di fine della patria. Tognon vede bene quando addita come compito quello di "ricostruire una morfologia democratica della nazione". Credo che questo non sia soltanto compito di un leader, ma di una intera classe dirigente e degli strumenti collettivi che questa è in grado di instaurare e dirigere. Qui giace il problema del partito, dei nuovi partiti, o di altri organismi con altro nome che ne sostituiscano i migliorino le funzioni. Per non fare confusione è da tempo che vado sostenendo che sarebbe opportuno definire l'operazione con il termine democratico e popolare di "motociclismo"... Tenendo conto delle antropologie (Nord e Sud uniti nella lotta), della finanziarizzazione globale della vita quotidiana, dell'impatto del Vaticano, dell'infiltrazione islamica e greco ortodossa, della robotizzazione in espansione, del dilagare delle comunicazioni di massa e della rete…
Mutando la nostra vita quotidiana muta anche lo spazio pubblico e soprattutto la sua percezione. I partiti sono in crisi perché la società si è fatta baumannianamente liquida e si va rapidamente trasformando in gassosa. Riecco il mio mantra marxiano: Tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria. Il problema allora non è disboscare la vecchia amministrazione, i suoi impacci, i suoi corporativismi, gli ottomila Comuni, i suoi evidenti clientelismi, che fanno sì che la vera peste più che il vecchio governo sia costituita dal perpetuarsi del sottogoverno. Il problema è decidere o non decidere di dare forma democratica al nuovo civile e al modo col quale si è andato trasformando. Anche nella società postliquida i partiti sono destinati a restare e a comportarsi come i canali attraverso i quali la società civile si fa Stato. E il quadro non si semplifica se si pone mente all'evoluzione non tutta positiva – è un eufemismo – del mondo complesso del volontariato. Uno sguardo ai guasti di "Roma capitale" non deve soltanto sconcertare, ma spronare a trovare rimedi e soluzioni. In fondo i padri inglesi con il bicameralismo non fecero altro che geometrizzare le forze in campo ordinandole secondo un criterio democratico. È possibile e forse doveroso sbaraccare le vecchie geometrie, ma questa è solo la prima parte -distruttiva- di un'operazione di rinnovamento, di innovazione e, meglio ancora, di trasformazione. Ma chi incrociasse le braccia a questo punto per rimirare soddisfatto la propria opera sarebbe come un Padreterno fiero di avere realizzato un eden totalmente vuoto e corso da tutti i venti impetuosi ed esterni. Insomma un'operazione modernizzatrice, all'interno del binomio a mio giudizio indissolubile "governabilità e democrazia", non può prescindere da una parte costruttiva e ricostruttiva delle forme della democrazia in sintonia con un le trasformazioni della nuova società civile. Qui si pone ancora una volta il problema del partito o dei suoi succedanei. Si chiami pure "partito della nazione": non mi oppongo, ma faccio osservare che il termine "motociclismo" da me suggerito suscita minori memorie controverse e risulta più rispettoso dell'imperativo categorico della necessaria "velocità" dell'azione di governo. Resta aperto ancora, e spalancato, tutto il tema dei fondamenti. In nome di che cosa pensare, programmare, fare tutto ciò? E, per converso, è possibile continuare all'infinito a prescindere dalla ricerca di un qualche fondamento e ovviamente da una discussione intorno ad esso? Quale deriva aspetta una democrazia che antepone il fare al pensare, la velocità alla discussione ponderata? È possibile quella che è stata recentemente definita "la democrazia dell'istante"? Non credo di potermi indissolubilmente legare con quanti sono ansiosi di trovare una soluzione in quanto cattolici. Mi sento fortemente motivato a cercare la soluzione a partire dal mio cattolicesimo quotidiano, sulla cui pratica lascio all'Altissimo il giudizio conclusivo, ma non mi sento affatto sollecitato a ricercare una soluzione "cattolica" o all'interno del perimetro di quanti si definiscono cattolici.


Nuove insorgenze
Sta dilagando quella che giustamente è stata definita la lettura bipolare dei fatti: ottimisti contro "gufi". Continuo a proclamare la mia estraneità alla categoria dell'ottimismo, che considero categoria psicologica, che poco ha a che vedere con la storia e le sue contraddizioni. Mi dichiaro anzi una volta ancora discepolo di padre David-Maria Turoldo, che certamente non ha lesinato nella propria grande produzione poetica i toni apocalittici, ma che ha sempre additato un orizzonte e predicato la forza della speranza.  La speranza non ha nulla da condividere con l'ottimismo, e quando Mounier ha voluto recuperare il senso dell'ottimismo si è trovato costretto a coniare l'espressione inabituale di "ottimismo tragico". Insomma, ci vuole determinazione e speranza per affrontare una grave malattia. Ci vuole un medico capace e un abile chirurgo. A migliorare il tono del paziente e l'atmosfera della clinica può concorrere sia l'infermiere che raccoglie i desideri per il prossimo menù come l'estetista: tutto ciò aiuta, ma la cura ha bisogno di ben altre medicine. È in questo quadro che mi pare che la politica "cattolica" siano rimasti a farla don Ciotti con Libera e Alex Zanotelli con le sue battaglie nel napoletano sull'acqua da ri-pubblicizzare obbligando il Parlamento a discutere una legge di iniziativa popolare. Altrove si fanno convegni, tanto ricchi di intenzioni quanto sequestrati ad ogni risultato. E comunque neppure essi mi pare vadano scoraggiati.

Il voto
In conclusione e rebus sic stantibus, io continuo a votare e a far votare Renzi. Questo non mi tranquillizza sui suoi obiettivi e sulla sua statura; dice piuttosto il disastro del personale politico italiano corrente. Ne è banco di prova la scuola e la sua riforma. Non entro nei dettagli, neppure appoggiandomi su una lunga carriera di insegnante. Pongo semplicemente un paio di domande. A chi deve somigliare la scuola? All'azienda o alla democrazia?
Le aziende sono un modello affermato da secoli e quindi da considerare e al quale ispirarsi per talune pratiche, sia per le nostre nude vite nel privato, come anche nello spazio pubblico. Ma l'azienda non è il luogo della democrazia, dei sentimenti; raramente lo è degli affetti.
Penso per converso che la scuola non possa essere neppure il luogo degli incentivi. Che gli insegnanti meritino -finalmente anche in Italia- stipendi dignitosi è altra cosa rispetto a quella logica del merito, monetaristicamente valutato e promosso, che considera l'incentivo economico in grado di produrre innovazione e motivazione appropriata.

Rifletto di fronte al computer su una lontana scelta. Ero tornato a metà degli anni sessanta dall'aver svolto il mio servizio alla patria nel corpo degli Alpini. Il problema del lavoro era ineludibile e imminente essendo nel frattempo venuto a mancare mio padre. Mi venne offerto un posto interessante e ben remunerato nell'ufficio pubblicitario di una grande azienda alimentare italiana. Riflettei, ma alla fine decisi (mi ero laureato in Scienze Politiche) di presentarmi a un concorso di abilitazione per l'insegnamento di storia e filosofia. Tutto era entrato nella scelta tranne che l'incentivo economico, anche se il percepire uno stipendio era comunque condizione necessaria e attentamente valutata per campare l'esistenza e  metter su famiglia. Pensare che ogni professione abbia come asse centrale la remunerazione economica è uno dei guasti più profondi di questa inarrestabile finanziarizzazione della vita quotidiana. Altro è il diritto a una remunerazione dignitosa, altro è pensare che la scelta professionale di ogni esistenza sia determinata dal criterio dell'avidità. Infine la memoria deve essere rinfrescata, anche con il ricordo di quelli che furono i cosiddetti "decreti delegati" e le molteplici forme di partecipazione che hanno attraversato prima la scuola pubblica e poi quella privata, suscitando l’interesse e la partecipazione di studenti, genitori, insegnanti. Nessun continuismo. Ma guardare avanti con un piccolo ricordo del passato aiuta a capire, anche se non rende più pesante la busta paga.