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lunedì 29 giugno 2015

È OBBLIGATORIO PENSARE
di Fulvio Papi
Fulvio Papi (Foto Fabiano Braccini) 2014
"Archivio Odissea"
Un tempo, quando dalle Università, i giovani pensavano di poter cambiare il mondo con metodi più o meno accettabili, le multinazionali occupavano appunto il mondo con metodi “pragmatici” che raramente rispettavano l’ambiente. Il che dà sempre l’idea di quanto possa essere lontana dalla realtà effettuale, la figura grata, che in maniera immaginaria (che non vuole affatto dire vana, ma, appunto, immaginaria) si può costruire di se stessi e del proprio ruolo nel mondo. Allora capita di sentire ripetere spesso l’arduo sintagma “vietato vietare”. L’ultimo Freud andava in cantina, e la concezione della “libido” con una corsa vertiginosa era la promessa della felicità. D’altra parte non era la prima volta che si credeva possibile la felicità universale, ma allora si era più prudenti perché queste aspettative per lo più appartenevano a un genere letterario. Oggi tra i quattro amici (che, in un altro tempo, giovani più caritatevoli dicevano che “vivevano di ricordi”) talora capita di scambiare la proposizione: nel nostro tempo pare sia “vietato vietare”. Il sintagma può sembrare paradossale in un tempo in cui ogni giorno, nella consuetudine delle varie circostanze, ci scambiamo sempre informazioni che sono un sapere accumulato in anni dalle varie discipline scientifiche e dalle tecnologie che hanno mutato i metodi di lavoro e il modo stesso di stare temporalmente e spazialmente nel mondo. Anzi, siamo molto intelligenti, abili e sapienti. Non c’è azione minimamente organizzata che non richieda queste abilità. In termini dell’antica filosofia siamo veramente “l’intelletto agente”. So benissimo che questo intelletto adopera la “terra” come fosse una risorsa infinita, l’aria come fosse il respiro di divinità immortali, ecc. ecc. Senza aver predisposto alcuna strategia discorsiva credo di aver introdotto almeno un aspetto del “pensare” che nella filosofia greca era l’uomo (l’essere uomo delle poleis) e la natura, e oggi è l’insieme di relazioni che costituiscono il reticolo storico della nostra contemporaneità. Non è che non esista più un oggetto del pensiero, è che è già pensiero saperlo trovare. È tuttavia un oggetto così difficile da tenere insieme, anzi impossibile, che si potrebbe dire che è solo un’idea teorica preliminare per riuscire a pensare. Pensare vuol dire uscire dal guscio nel quale siamo stati messi, con la migliore buona volontà, quando abbiamo cominciato a parlare. Un banale esempio di “pensiero”: tutti sanno che cosa è una mela. Ma il pensiero è esigente e si domanda: che tipo di mela, che tipo di agricoltura, con quale forza lavoro, come arriva sul mercato, quali sono i costi di produzione, quali i profitti relativi alla circolazione, ecc. ecc. Questo esempio è poco più che una banalità. Ma se ci interroghiamo su fenomeni grandiosi del nostro tempo, quali i processi di immigrazione, allora il pensiero è costretto a tenere conto di una pluralità di elementi di fatto: condizioni oggettive, forme di soggettività, sovvertimento di ordini economici e sociali, tradizioni religiose, lavoro, territorio, risorse. So bene che tutto questo lavoro intellettuale (che è pensiero) non cambia per nessuno la sua situazione materiale, ma è indispensabile per affrontare seriamente questo che è un fenomeno di civiltà. Un vero pensiero, quando c’è, aiuta ad uscire da una valorosa buona volontà. È il suo naturale sviluppo. Per chi invece ritiene che il mondo sia fatto di spazi privati, vale la formula “vietato pensare”. E non si può dare loro del tutto torto perché pensare un problema non vuol dire “guardare” il problema, ma talora mettersi in gioco nel problema stesso. E questo, al fine, può essere anche molto difficile. Tuttavia penso che, con i prossimi diversi equilibri del pianeta, sarà una condizione di civiltà che chi verrà dopo di noi dovrà affrontare. L’immigrazione, in questa prospettiva, è solo un prologo.