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lunedì 22 giugno 2015

LA PROGRAMMAZIONE DIMENTICATA 
di Fulvio Papi


La rubrica della Rai “Storia” è, fra tutte, assieme a “Report”, la trasmissione più intelligente, dove per intelligenza si intende il far comprendere fatti importanti senza esibizioni narcisistiche. Il conduttore interpreta molto bene la sua parte (tuttavia troppi “ma” o “però” svolazzano nel suo lessico), i documenti, nel limite del possibile, sono sempre pertinenti e curati bene, i professori che intervengono, come si conviene, sono sempre magistrali, le loro conoscenze professionali di prima mano, la loro capacità interpretativa sempre equilibrata, e, nella prudenza intellettuale, i loro giudizi storici più che obiettivi (che nella storia è solo un modo di dire) sono pedagogici e istruttivi. È con questo spirito che desidero aggiungere qualche nota alla trasmissione dedicata al generale De Lorenzo, allargando possibilmente la contingenza storica. Intorno alla figura del comandante dell’Arma nel ’62-’64 non credo di sapere niente di più di quanto è stato detto nella trasmissione o quanto ha circolato anni dopo attraverso la famosa inchiesta de  l’Espresso e il suo seguito giudiziario. Tuttavia storicamente mi pare che il problema, che poi ha costituito definitivamente un elemento importante nella vita del nostro paese, sia stato solo sfiorato, nel senso che è stata questa congiuntura che ha messo in primo piano il generale De Lorenzo. Tra il 1962 e il 1964 di fronte all’espansione di quello che allora si chiamava “neocapitalismo”, alla sinistra, non comunista, vi fu la risposta economico-sociale della programmazione economica. La nazionalizzazione dell’energia elettrica, fu un’iniziativa che è comprensibile in questa prospettiva. Anche se non ignoro le critiche di coloro che sottolinearono i notevoli rimborsi da parte dello Stato, a completo vantaggio dei facoltosi rimborsati. La programmazione economica (molto facile come astratto modello intellettuale) è al contrario un’operazione molto complessa tecnicamente che avrebbe dovuto armonizzare l’economia pubblica e quella privata con reciproci vantaggi economici e sociali, senza soffocare per nulla le risorse del mercato. Era un progetto di sviluppo economico e sociale che richiedeva equilibrio, capacità analitica e razionale di sviluppo, rinnovamento spesso degli obsoleti mezzi di produzione, equa distribuzione della ricchezza nazionale tenendo d’occhio, ovviamente, il bilancio dello Stato e sottintendendo l’onestà pubblica. L’impresa, sebbene espressa bene nelle sue finalità, mancava di uno studio sufficientemente approfondito, che si sia posto, senza debiti intellettuali a una tradizione storica, il problema dell’industrializzazione del Sud tenendo conto degli effettivi riflessi sociali e ambientali e, forse anche, delle immanenti possibilità di sviluppo. Col senno di poi però, tutto è più facile. Va invece ricordato che l’idea di una programmazione era obiettivamente facilitata dal fatto che da anni l’IRI comprendeva un insieme di centralità produttive e il 90% delle banche erano irizzate. Chi si trovava a dedicare una parte non indifferente della propria giovinezza proprio a questa prospettiva, se pure in un rango minore, ricorda certamente l’infinita polemica tra Lombardi e La Malfa, entrambi favorevoli alla programmazione, ma il leader socialista sosteneva che il salario doveva essere una variabile indipendente (ribadendo in quel contesto la tradizionale autonomia storica della classe operaia), mentre La Malfa faceva prevalere una razionalizzazione che doveva riguardare ogni fenomeno sociale. È inutile, a distanza di mezzo secolo, distribuire ragioni e torti. La “irrazionalità” storica (che era ben chiara negli anni Venti) aveva fatto giustizia di queste posizioni. Restava tuttavia il ricordo di uomini politici di dimensioni incomparabili rispetto alla bassissima qualità (quando c’è) degli attuali attori politici. Contro la programmazione si mobilitarono tutte le forze che vedevano e facevano vedere in questo progetto una specie di prospettiva sovietica che avrebbe azzerato ogni forma di proprietà privata (del resto garantita dalla Costituzione). Gli storici farebbero bene a fare un’antologia di questa reazione propagandistica che avrebbe mostrato il livello intellettuale del capitalismo italiano (nel quale l’aura di Olivetti sfumava nel nulla, e così quella di Mattei). Qui ricordo solo il titolo a nove colonne di un giornale della sera che diceva: “Vi portano via la casa”). Forse capita oggi con una tassazione iniqua che fa crollare tutto il mercato immobiliare. Anche oggi mi capita di pensare che una programmazione economica elastica ed equilibrata avrebbe potuto garantire per il paese il suo equilibrio e il suo sviluppo fuori da un capitalismo assistito (o autoassistito) e una demagogia intesa come rendita elettorale e come schegge dogmaticamente grossolane di altri tempi. Se poi da un filosofo si vuole sapere qualcosa di più proprio per quanto riguarda la filosofia, è facile mostrare che era il tempo dell’affermazione della filosofia scientifica opposta allo storicismo. La violenta, proprio violenta, reazione alla programmazione che pareva (dico pareva poiché, nonostante Giolitti all’economia, le cose stavano così) il motivo centrale del primo centro-sinistra, scatenò una violenta campagna contro il governo. Sollecitato in direzione dalle riforme dei socialisti di sinistra, e navigante in una prassi quotidiana di un’amministrazione ovvia che secondo i “governativi” doveva essere lodata senza riserve dai nostri giornali, Nenni, vice-presidente del Consiglio, amava dire che il suo giorno migliore era il lunedì quando non veniva pubblicato l’Avanti! Diretto da Riccardo Lombardi impegnato per le riforme senza troppe cerimonie. A distanza di mezzo secolo penso che queste polemiche, non prive di importanza e di senso, fossero tuttavia marginali. Immagino invece l’offensiva conservatrice che riuscì a trovare tutti i canali e tutti i mezzi per influire sulla DC contro il suo stesso governo mostrandolo come preludio di un’età bolscevica. Ovviamente non conosco gli argomenti interni al partito di maggioranza e tanto meno quelli tra i massimi dirigenti, Moro e Nenni, che per linee interne dovevano risentire non poco dell’opposizione al centro-sinistra. Induttivamente sono certo che, dopo la banale caduta del primo centro-sinistra, la DC, per rifare un’identica formula di governo, propose ai socialisti di mettere in soffitta i progetti delle riforme e varare “le più spirabil aure” della “governabilità”. Questa era certamente la situazione nella quale il presidente della Repubblica, esponente della più radicale destra DC, fece valere tutta la sua autorità per varare un altro governo per chiudere d’autorità la prospettiva del centro-sinistra. Anche dall’Arma vi fu la garanzia che, in caso di una rivolta sociale nei confronti di questa linea politica, era in grado di controllare l’ “ordine pubblico”. Anche in questi termini mi pare che si possa parlare di un possibile colpo di stato. I suoi effetti politici si fecero ovviamente sentire nelle trattative Moro-Nenni per il secondo centro-sinistra. La “governabilità” fu l’ideologia trionfante di quella complessa congiuntura. Recentemente Pieraccini, che ricordo come mediocre direttore dell’Avanti!, ha scritto in un libro di ricordi che la minoranza di un partito -il Psi- che aveva il 14 per cento dei voti voleva imporre alla DC il socialismo in Italia. Può essere che questo fosse il percorso onirico di qualche giovane inesperto, ma la programmazione economica era la razionalizzazione del mondo economico, la ottimizzazione sociale del mercato, il controllo della spesa pubblica. L’applicazione della cultura politica alla realtà sociale ed economica: esattamente quanto si è rovesciato negli anni successivi. È stata una breve parentesi dimenticata poi dal progressivo diluvio neoliberista proveniente dall’area anglo-americana. Tuttavia va ricordato con assoluta chiarezza che l’industria di stato andava male non perché “di stato”, ma perché di un partito, la DC, che aveva occupato lo Stato, e per la demagogia del più forte partito della sinistra. Il risultato erano quelle ricapitalizzazioni che hanno disastrato, (oltre a diverse iniziative “mafiose” o corporative), il bilancio dello Stato. Il presidente della Banca d’Italia, Visco, ha detto molto giustamente che il bilancio dello Stato andava curato anni fa, mentre adesso richiede misure discutibili. E ho sentito anche un celebre commentatore (non certo della tradizione di sinistra) dire che la privatizzazione dell’IRI probabilmente è stato un errore. Può darsi che la necessaria durezza del quadro storico dica che, infine, ho parlato di un sogno politico dato la situazione reale del paese e la potenza delle sue forze avverse. Ma questi giudizi non miei, sono veri, e mi danno, indirettamente, un cenno di verità.