Papa
Francesco (primo tempo)
I Greci
Come
si possano collegare l'esito del referendum greco sull'Europa e sull'euro con
il messaggio di papa Francesco è un'ipotesi che oltre a risultare spericolata
può far pensare a una contorsione fantascientifica e fantastorica.
Eppure un senso ce l'ha, perché entrambe le prospettive aprono a un discorso
sulla persona. Non sono un tifoso di Tsipras e neppure un denigratore di Schӓuble, rigido difensore
dell’ordoliberalismus. Perché anche
l’ordoliberalismus ha sue ragioni che
buona parte dell'Europa non conosce. L'ansia cioè di evitare quel baratro di
inflazione e disordine amministrativo che condussero la Germania di Weimar in
braccio ad Hitler. Non avendo però messo nel conto né Schӓuble né Angela Merkel
che nell'eurozona quella medesima logica possa produrre condizioni di coltura
del nazismo in aree periferiche come la Grecia. E infatti ripeto che dopo
Tsipras viene Alba Dorata, che non a caso ha votato sì al referendum ed è stata
dal giovane leader greco lasciata fuori dai contatti con l'opposizione prima
della nuova tornata di trattative con i partners europei. Dunque? Dunque il
voto greco ha detto che gli uomini e le politiche non sono riducibili a moneta.
Se ci pensate, questo è il motivo dominante del messaggio di tutta la dottrina
sociale della Chiesa, rimesso agli onori delle cronache da papa Francesco, con
il primato della persona, per il quale il lavoro e l'economia sono al servizio
dell'uomo e non viceversa. È questo del resto l'unico ancoraggio reperibile per
una politica altrimenti senza fondamenti e vogliosa di gestire la scena del
mondo piuttosto che i problemi del mondo. Si sa che il referendum è sotto tutti
i cieli un accorpamento di consensi eterogenei: non importano nel referendum le
alleanze, che spesso non esistono, ma il convergere intorno al tema, il numero
degli elettori e quindi l'esito finale. Così è andata in Grecia e la mossa
politica successiva di Tsipras e Varoufakis, con le dimissioni del ministro dell'economia,
vero colpo di teatro studiato a tavolino, dice l'intenzione e il successo dei vertici greci nell'avere puntato
sulla politica contro la finanza. Quale altra carta gli restava in mano?
Quella accesa dai greci è una piccola
fiamma ateniese e per giunta fumigante, ma può rappresentare un'ultima spiaggia
per una politica non al tutto dimentica del proprio antico primato, non solo,
ma almeno intenzionata a recuperare una qualche dignità nei confronti
dell'abilità ragionieristica dei centri finanziari dominanti. I quali oramai da
tempo hanno nella comunicazione dei telegiornali lo stesso profilo delle più
prestigiose istituzioni politiche.
Cosa dirà Goldman Sachs? In quale
casella ci collocherà e con quale lettera? I suoi giudizi pesano, la sua
immagine conta di più di quella del Parlamento francese e italiano, figuriamoci
di quello d'Atene. Lì stanno i nuovi poteri, non più tanto occulti, e non
importa se dietro s'annida una manica di ladroni che hanno innescato la crisi,
succhiato i soldi pubblici ad Obama ed esportato il contagio in tutto il
vecchio continente.
Probabilmente, almeno nel medio
periodo, il connubio tra democrazia e mercati risulta indissolubile. Puntare
sul recupero di peso e di autorità della politica risulta insieme un atto di
moderazione e di saggezza. Una salvaguardia del welfare europeo, un argine nei
confronti di una struttura dell'economia che aumenta le disuguaglianze e poi
apre Expo per lasciare intendere di essere disponibile a qualche doveroso
aggiustamento.
Per questo i Greci hanno compiuto
un'azione che ci interessa e ci riguarda. E lo hanno fatto un attimo prima che
anche il Partenone fosse lottizzato e messo all’asta, consentendo magari ai
partner tedeschi di completare la collezione già presente nel Pergamon Museum
di Berlino, con pezzi fin qui razziati senza asta e senza mercato.
Chi fin dagli inizi s'è messo e si è
mosso fuori dal coro è proprio il Papa argentino.
La svolta
Indubbiamente,
e non soltanto a posteriori, la scelta di Francesco, venuto "quasi dalla
fine del mondo", appare una svolta a "U" nel cammino della
Chiesa universale e in particolare romana. Bergoglio del resto ha sorpreso i
fedeli e il mondo con il suo approccio appena nominato dalla loggia di San
Pietro e non ha cessato di stupire. Avendo scelto di non proporre i punti fermi
di una dottrina, ma piuttosto di suscitare interrogativi e speranze nel popolo
di Dio e nel mondo. Una bersaglio non facilmente inquadrabile dalle opinioni
dominanti. Insomma quello che tuttora abbiamo di fronte è il paradosso
Bergoglio. Una osservazione sulla svolta del pontificato. Dove giace cioè
secondo la mia opinione la chiave del mutamento. Una chiave che è tutta nella
decisione che l'ha preceduta. E infatti il gesto inatteso di Benedetto XVI ha
sorpreso non meno del sentiero intrapreso da papa Francesco. Non solo per la
cesura "storica", ma piuttosto per il retroterra culturale che a mio
giudizio rivela. Sono infatti convinto che molto abbia influito sulla decisione
inattesa del Papa tedesco la sua cultura, teologica e politica, nazionale. È
infatti preminente dalla Baviera in su una concezione del potere di stampo
luterano, che mette in rilievo quello che i teologi protestanti soprattutto
hanno definito il "potere demoniaco del potere". Una vulgata che fa
osservare come le tentazioni nel deserto, il passo cioè che tratta l'argomento
del potere in maniera più esplicita, sia presente in tutte e quattro gli
evangeli. Dal potere bisogna guardarsi proprio per il suo potere demoniaco, e
la stessa democrazia non può dimenticare la traduzione di questa visione nel
passo kantiano che evoca l'albero storto della natura umana. Insomma il potere
deve essere esercitato, ma dal potere bisogna anche guardarsi prendendone le distanze.
Affatto
diversa la concezione latina ed italiana, dove il mantra corrente è quello
andreottiano, diventato quasi proverbiale: "Il potere logora chi non ce
l'ha". Detta alle spicce, un cardinale italiano sarebbe stato assai meno
motivato a prendere in esame l'opzione delle dimissioni. Opzione che, difficile
dubitarne, verrebbe presa in seria considerazione dal Papa argentino qualora le
circostanze lo richiedessero. Le osservazioni fin qui riassunte semplicemente
intenzionate a dar conto delle motivazioni della radicalità di una svolta che
nel carisma inatteso di papa Bergoglio -anche senza rifare il verso all'Enciclopedia Britannica, tutto si può
pensare della compagnia ignaziana, salvo una sua non dimestichezza con il
potere e i suoi dilemmi- capitalizza e rilancia una riflessione a lungo
incubata, anche se non maggioritaria probabilmente nell'area della gerarchia
ecclesiastica del vecchio continente.
La prospettiva del giubileo
Quello
allora di cui dobbiamo più diffusamente occuparci è il magistero del vescovo di
Roma alla luce dell'indizione del giubileo dedicato alla misericordia. Provo a
riflettere a partire dalla circostanza che papa Bergoglio ha vissuto con
profonda partecipazione pastorale il default argentino. Con un mutamento di
linea non soltanto pastorale, se sono vere le notizie che lo accreditano come
non propenso a fare proprie le istanze della teologia della liberazione e le
inquietudini del giovane clero deciso a impegnarsi nell'agone politico. Qualcosa
di simile alla notte che provocò la conversione del vescovo Oscar Arnulfo
Romero al capezzale dell'amico gesuita assassinato dagli squadroni della morte
deve essere accaduto nella vicenda del vescovo di Buenos Aires. L'attenzione
alla povera gente, la frequentazione, andandovi con la metropolitana, delle
periferie dei diseredati sono non soltanto un cambio dell'attenzione e degli
strumenti della sociologia della pastorale di Bergoglio, ma anche, penso, la
causa del crearsi in lui di un nuovo punto di vista, che tuttavia non discende
da una nuova grammatica politica, quanto piuttosto da una più radicale lettura
del Vangelo. Qui appare centrale la categoria della misericordia. Credo alludesse a questo un amico che insegna
filosofia estetica quando, alcune sere fa, esclamava: "L'enciclica di
Francesco non considera il capitalismo un destino".
Papa
Francesco non ha nessuna intenzione di ritagliarsi uno spazio tra i
rivoluzionari piuttosto che tra i riformisti o i moderati; il suo intento è
altro e l'orizzonte totalmente altro. La sua critica è tanto più inquietante,
non tanto per l'insistenza, quanto piuttosto per una radicalità che la situa in
un orizzonte diverso da quello delle politiche correnti.
Trovo
nei dibattiti amici e studiosi noncredenti che manifestano ad alta voce, tra il
serio ed il faceto, l'intenzione di convertirsi. Se la cosa da un lato mi fa
piacere, dall'altro un poco mi irrita: dopo aver speso un libro qualche
decennio fa per attaccare gli "atei devoti" sul versante della
destra, non mi andrebbe a genio di rifare la medesima operazione questa volta
sul lato sinistro.Ci sono un rispetto e perfino una devozione che poco hanno da
spartire con la fede. Il vero credente può essere un mistico, non un devoto,
tanto meno incline alle devozioni che promuovono commercialmente pellegrinaggi
di successo. Dio va cercato, non posseduto. Compito dell'uomo è cercarlo; sarà
lo Spirito a operare a modo suo e a modo dell'uomo la conversione. Non valeva
soltanto per Pietro Scoppola il giudizio di Paolo VI: "Scoppola è un
cristiano a modo suo".
Non
la sicurezza di una dottrina, ma l'onestà di una ricerca. Devozione e dottrina
possono addirittura risultare sostitutive dell'Altissimo: materiali teorici per
la costruzione dell’idolo. Dice l'Antico Testamento che Dio ama essere battuto
dai suoi figli. Personalmente non ne sono al tutto sicuro. È uno dei miei
motivi del contendere con Dio, perché ho imparato dalle avversità della vita e
dalla parola rivelata che con Dio è anche bene litigare.
Quel
che devi evitare di mettere in mezzo sono gli idoli, tanto più se religiosi, se cattolici,
se pii. L'idolo benedetto e a fin di bene (questo era il vitello d'oro di
Aronne nel deserto) è più insidioso dell’idolo blasfemo, e ho ragione di
credere che Dio lassù s'arrabbi di più.
L'ateo
che cerca non patteggi; spinga fino in fondo la propria incredulità e la
propria ricerca. Con onestà incessante. Con una presa di responsabilità non
reticente. Sarà l’Altro a venirgli incontro. Il contrario della laicità non è
la fede, ma l'idolatria. Sia chiaro: non solo negli scritti oramai copiosi, ma
anche nelle prediche mattutine nella parrocchia di Santa Marta -delle quali i
quotidiani fanno lodevolmente il resoconto quasi ogni giorno- il Papa non si
astiene da giudizi taglienti e circostanziati. Già prima di pubblicare
l'enciclica ecologica, Francesco aveva dichiarato, proprio in termini di
misericordia, che Dio perdona sempre, gli uomini qualche volta, la natura mai.
Non era una giaculatoria ad uso di "Italia Nostra" o del WWF. Ma
piuttosto, come s'usa tra gli uomini di Spirito e i consiglieri di coscienze,
un giudizio sapienziale. Qualcosa che attiene a una categoria centrale nel
pensiero della Compagnia di Gesù e sicuramente centralissima nella vasta
pubblicazione del cardinale Carlo Maria Martini: il discernimento. È ovvio che da una visione siffatta possano discendere
comportamenti politici conseguenti, ma si tratta di traduzione data soltanto
alla responsabilità di chi si impegna in quella che conviene chiamare con
Machiavelli realtà effettuale.
Le icone della misericordia
La
Scrittura e in particolare il Nuovo Testamento (ma anche l'Antico, molto più di
quanto si lasci credere) hanno figure, o meglio ancora icone, che illustrano il tema della misericordia.
Si
pensi al Ritorno del figliol prodigo
dipinto da Rembrandt, dove il grande pittore fiammingo per meglio simboleggiare
lo spirito d'accoglienza del padre nei confronti del figlio che era andato per
il mondo a sperperare la propria parte di eredità con gozzovigliatori e
prostitute, lo dipinge nell'abbraccio con una mano maschile e l'altra
femminile, ad indicare la totalità esuberante dell'accoglienza. Più nota la
parabola del Buon Samaritano. Un samaritano dunque, e non un israelita devoto.
Il quale, a differenza dei rappresentanti della religione dell’Altissimo che
pure erano discesi prima di lui il lungo la strada che mena da Gerusalemme a
Gerico, si distrae dal proprio itinerario, tralascia le proprie occupazioni
(non quindi un produttore compassionevole) soccorre il malcapitato, ne paga le
cure e la pigione alla locanda, e non si interroga una sola volta sulla
personalità del beneficato e sul suo diritto o merito ad essere soccorso, uno
derubato e percosso dai briganti e che potrebbe benissimo essere dedito a
deviazioni sessuali o a una modalità di vita definita "alla
corinzia", un greco già in allora taroccatore di bilanci. La misericordia
cioè è fuori dagli schemi perché non è calcolabile, non si amministra dopo
avere letto le statistiche ed essersi confrontata con la crescita, il
benessere, il welfare e il Pil. (E qui va pur detto che la retorica politica
raggiunge uno dei suoi culmini nel famoso discorso sessantottino di Bob Kennedy
alla Kansas University.)
La
politica cioè non può non interrogarsi sulla misericordia, a partire tuttavia
da una distanza che le chiarisce quanto sia altro da sé. Bisogna decidersi a
dire che il paradosso di Papa Francesco rovescia la prospettiva. Sarà
prevedibilmente così con l'annunciato anno giubilare; è già stato così
all'apertura dell’Expo. Ho assistito davanti al televisore all'inaugurazione
dell'Expo di Milano. Tutti hanno fatto
benissimo la loro parte. Matteo Renzi, come sempre in queste occasioni, è
risultato impareggiabile. Ha illustrato le ragioni riuscite dell'ottimismo contro
la battuta in ritirata dei soliti gufi. È riuscito perfino a mandare fuori giri
per le corse future Giuliano Pisapia, con una scappellata da standing ovation all'antica sindaca
Moratti.
Da
ex segretario del PD milanese potevo considerarmi soddisfatto. Ma spenta la tv,
finito l'evento e visitata all'Expo, ricordo ancora perfettamente il senso del
breve intervento in videoconferenza di papa Francesco, tutto il resto l'ho
dimenticato. E accaduto soltanto a me? Papa Bergoglio ci ha ricordato che
importano i volti, e che sotto quei volti troppo spesso c'è ancora uno stomaco
vuoto. Eccolo il paradosso: perché un Papa che preferisce la profezia e la
testimonianza alla politica riesce a fare discorsi che ci paiono più politici e
duraturi, tali da inquietare e mettere sotto scacco gli eventi della politica?
Un Papa che a detta di tutti "buca" il teleschermo e che ha confidato
di non guardare la tv da 25 anni, "per un fioretto", e che quindi non
si mette in posa, non è comme il faut secondo
il format degli eventi politici correnti. Dov'è allora il limite della politique évenementielle?
Credo
che l'interrogativo non riguardi soltanto i comunicatori. Riguarda questa
politica, la sua cogenza e la sua durata. Azzardo un'ipotesi, sulla quale da
tempo vado riflettendo. Mi esprimo ancora una volta alle spicce e alla plebea:
questa politica si occupa non tanto del mondo, quanto dalla sua
rappresentazione.
Il solito problema del
punto di vista
Surfare, il nuovo verbo coniato dalle giovani
sociologhe americane, è la metafora (ovviamente veloce) in grado di dare conto
del ritmo e della natura delle politiche in atto. Indica l'atto di chi su una
tavoletta sa stare in equilibrio sulle immense onde dell'oceano. Né può ad un
reduce del cattolicesimo democratico sfuggire in proposito il riproporsi di
alcuni stilemi e qualche reminiscenza (inconscia) di un italico marinettismo di
quasi un secolo fa.
Ma
continuiamo a viaggiare per metafore con l'intento di sistemarle all'interno di
un puzzle che aiuti a costruire una improbabile mappa delle politiche odierne e
i suoi cartelli indicatori. Volendo quindi dare a ciascuno il suo è opportuno
ricordare che la metafora "società liquida" discende da Zygmunt
Bauman. Che alla società liquida corrisponde la politica senza fondamenti
(Mario Tronti), populismi ed ex-popoli compresi. E perfino la cosiddetta
anti-politica, il cui confine con la politica è da sempre poroso (Hannah
Arendt).
Si
può anche utilmente aggiungere che alla società liquida fanno riferimento i
partiti "gassosi" (Cacciari) e che ai partiti gassosi corrisponde il
dispiegarsi di politiche in confezione pubblicitaria, nel senso che evitano la
critica del prodotto da piazzare ed hanno progressivamente sostituito la
propaganda politica di un tempo per veicolare il messaggio pubblicitario utile
a suscitare non tanto senso di appartenenza, quanto piuttosto un'emozione imparentata con il tifo
sportivo. Quel che dunque manca in queste politiche è soprattutto un punto di vista dal quale osservare la
realtà, anche se ci imbattiamo in una condizione inedita nella quale i conti
prima che con la realtà vanno fatti con la sua rappresentazione. La rappresentazione cioè ha sussunto in sé il
mondo intero e le politiche chiamate a descriverlo e sempre meno a cambiarlo. Ma
sarebbe fuori strada chi pensasse che il problema sia soltanto e essenzialmente
teorico. È invece anzitutto, come sempre quando si parla di politica, un problema urgentemente pratico. Ha
ragione papa Francesco quando afferma che i fatti valgono più delle idee.
Dostoevskij nell’Idiota sostiene a
sua volta: "Ci si lamenta di
continuo che in questo paese manchino gli uomini pratici. Di politici, invece,
ce ne sono molti".
Come
sempre l'ironia aiuta e svolge una preliminare funzione abrasiva, anche se è
sempre papa Francesco ad avvertirci di evitare l'eccesso diagnostico, perché anche di sola diagnosi si muore.
Riusciamo a prescriverci ogni volta, dopo la diagnosi, almeno un'aspirina?
Dunque,
come affrontare il tema con uno sguardo non congiunturale?
Papa
Francesco ha più volte ricordato che i
fatti valgono più delle idee. Eppure talvolta non c'è niente di più pratico
che un pezzo di teoria. Ne era convinto anche Alex Langer, il più grande tra i
verdi italiani, che ad un convegno s'impossessò rapidamente dell'intervento di
un militante il quale aveva osservato che quando ci dicono che molti nel mondo
non hanno da mangiare, non si tratta di mangiare di meno, ma di pensare di più.
La
politica è liquida perché il capitalismo finanziario e consumistico sta
portando a termine la trasformazione del mondo come propria rappresentazione:
un'operazione interessante e in parte utile, comunque da capire. Non ci
chiediamo se il Paese sia vivibile (e come) o più giusto, ma come possa essere
competitivo e politicamente scalabile. Lo sguardo di una critica radicale viene
così escluso. La politica è liquida perché anche le ultime radici vengono
strappate. Tutta la politica italiana è oramai senza fondamenti, non solo Beppe
Grillo e Casaleggio.
Il suicidio delle culture
Tutto
il riformismo col quale ci stiamo confrontando parte dalla confusa
consapevolezza di questa condizione, ossia parte da una obiettiva ottica di
competitività costretta a considerare immodificabili, grosso modo, le regole
del gioco reale. Quelle che stanno dietro la rappresentazione e la determinano.
Le regole del gioco le detta cioè lo statuto vincente del capitalismo globale,
finanziario e consumistico. È così, per tutti e dovunque, piaccia o non
piaccia. Era così perfino nel Vaticano di papa Benedetto. È la rappresentazione
che garantisce la natura del mondo, non viceversa. E più di un esperto si è
spinto a dire che la politica è chiamata a governare le emozioni degli
elettori, non i problemi dei cittadini. Siamo ancora una volta
all'ostracizzato, e da me invece citatissimo, mantra del Manifesto del 1848: Tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria.
Anzi, si è dissolto. E noi ne contempliamo la rappresentazione. Anzi, la
viviamo. Viviamo tra macerie scintillanti e ologrammi che camminano e
manifestano sulla piazza di Madrid. In un pomeriggio Matteo Renzi decide
l'ingresso del PD nella famiglia socialdemocratica europea, ma non taglia
nessun nodo gordiano. Matteo ha anche buona vista e vede che il nodo non c'è
più. E che le remore di Rosy Bindi e Beppe Fioroni erano fantasmi tenuti in
vita per lucrare una rendita di posizione non soltanto elettorale. Allo stesso
modo Matteo Salvini passa dal federalismo secessionista della piccola patria di
Umberto Bossi al nazionalismo centralistico e anti-europeo di Marine Le Pen. La
rappresentazione globale infatti svela
la dissoluzione delle vecchie culture politiche, e quindi le rende inefficaci,
zoppicanti, fastidiose al grande pubblico, impresentabili. Nessuno le ha
uccise. Ha ragione Toynbee: si sono suicidate. Le politiche che da esse
discendevano si sono fatte conseguentemente liquide. La fine della politica non
è ancora decretata, ma ha cessato d'essere un'ipotesi di scuola. Il
"primato della politica" è invece defunto, per tutti. Anche se
vigorosi reduci in carica paiono non essersene accorti. Intorno al primato della
politica si raccoglievano tutte le culture del Novecento e tutto l'arco
costituzionale del nostro Paese. Tangentopoli più che una corruzione
inguardabile è una sepoltura malinconica, che manda l’odore del cadavere di
Lazzaro prima della resurrezione. C'è in giro ancora qualche richiamo della
foresta, ma le foreste non ci sono più, per nessuno.
È
la rappresentazione che garantisce la natura del mondo, non viceversa. E più di
un esperto si è spinto a dire che la politica è chiamata a governare le
emozioni degli elettori, non i problemi dei cittadini. Siamo ancora una volta
all'ostracizzato, e da me invece citatissimo, mantra del Manifesto del 1848: Tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria.
Anzi, si è dissolto. E noi ne contempliamo la rappresentazione. Anzi, la
viviamo. Viviamo tra macerie scintillanti e ologrammi che camminano e
manifestano sulla piazza di Madrid. In un pomeriggio Matteo Renzi decide
l'ingresso del PD nella famiglia socialdemocratica europea, ma non taglia
nessun nodo gordiano. Matteo ha anche buona vista e vede che il nodo non c'è
più. E che le remore di Rosy Bindi e Beppe Fioroni erano fantasmi tenuti in
vita per lucrare una rendita di posizione non soltanto elettorale. Allo stesso
modo Matteo Salvini passa dal federalismo secessionista della piccola patria di
Umberto Bossi al nazionalismo centralistico e anti-europeo di Marine Le Pen. La
rappresentazione globale infatti svela
la dissoluzione delle vecchie culture politiche, e quindi le rende inefficaci,
zoppicanti, fastidiose al grande pubblico, impresentabili. Nessuno le ha
uccise. Ha ragione Toynbee: si sono suicidate. Le politiche che da esse
discendevano si sono fatte conseguentemente liquide. La fine della politica non
è ancora decretata, ma ha cessato d'essere un'ipotesi di scuola. Il
"primato della politica" è invece defunto, per tutti. Anche se
vigorosi reduci in carica paiono non essersene accorti. Intorno al primato
della politica si raccoglievano tutte le culture del Novecento e tutto l'arco
costituzionale del nostro Paese. Tangentopoli più che una corruzione
inguardabile è una sepoltura malinconica, che manda l’odore del cadavere di
Lazzaro prima della resurrezione. C'è in giro ancora qualche richiamo della
foresta, ma le foreste non ci sono più, per nessuno.
Evangelii gaudium
Non
a caso questo Papa, profetico e pratico, hai iniziato il suo magistero
universale non con un'enciclica, ma con una esortazione apostolica. La Evangelii gaudium è una sorta di
biglietto da visita, insieme corposo e facilmente leggibile. A dar conto delle
osservazioni fin qui proposte è sufficiente credo la prima parte del n. 54.
Scrive
Francesco: "In questo contesto,
alcuni ancora difendono le teorie della "ricaduta favorevole", che
presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce
a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa
opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia
grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e
nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli
esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che
esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è
sviluppata una globalizzazione dell'indifferenza".
La
convinzione diffusa che qui viene rifiutata e quasi messa alla berlina è quella
che discende dal celebre passo di Adam Smith con il quale si dichiara che
l'interesse generale e in particolare la "ricaduta favorevole"
discendono dal fatto che il macellaio e il birraio pensano a fare il proprio
interesse. E, come è risaputo, una qualche mano invisibile provvederà a
sistemare le cose. Attitudine che Stiglitz ha ridefinito come economia del trickle down, e che qui papa Francesco
traduce secondo un lessico che gli è diventato insieme abituale ed innovativo. Va
da sé che il "Financial Times"
si sia precipitato a dire che l'esortazione apostolica risultava
"socialista", dimostrando peraltro poca fantasia dal momento che il
medesimo aggettivo era stato usato all'apparire della "Populorum Progressio" (26 marzo 1967) di papa Montini. Tentativi
insieme reiterati e patetici che mi fanno ritornare a un giudizio di Michael
Novak dopo la pubblicazione della "Centesimus
Annus" (primo maggio 1991), che lo portò ad affermare piuttosto
spericolatamente che secondo l'enciclica la formula poteva essere: "Socialismo no. Capitalismo forse".
Ci pensò il Papa polacco a fare platealmente smentire la sintesi dall'Accademia
delle Scienze Vaticane.