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lunedì 6 luglio 2015

Papa Francesco (primo tempo)
I Greci
Come si possano collegare l'esito del referendum greco sull'Europa e sull'euro con il messaggio di papa Francesco è un'ipotesi che oltre a risultare spericolata può far pensare a una contorsione fantascientifica e fantastorica. Eppure un senso ce l'ha, perché entrambe le prospettive aprono a un discorso sulla persona. Non sono un tifoso di Tsipras e neppure un denigratore di Schӓuble, rigido difensore dell’ordoliberalismus. Perché anche l’ordoliberalismus ha sue ragioni che buona parte dell'Europa non conosce. L'ansia cioè di evitare quel baratro di inflazione e disordine amministrativo che condussero la Germania di Weimar in braccio ad Hitler. Non avendo però messo nel conto né Schӓuble né Angela Merkel che nell'eurozona quella medesima logica possa produrre condizioni di coltura del nazismo in aree periferiche come la Grecia. E infatti ripeto che dopo Tsipras viene Alba Dorata, che non a caso ha votato sì al referendum ed è stata dal giovane leader greco lasciata fuori dai contatti con l'opposizione prima della nuova tornata di trattative con i partners europei. Dunque? Dunque il voto greco ha detto che gli uomini e le politiche non sono riducibili a moneta. Se ci pensate, questo è il motivo dominante del messaggio di tutta la dottrina sociale della Chiesa, rimesso agli onori delle cronache da papa Francesco, con il primato della persona, per il quale il lavoro e l'economia sono al servizio dell'uomo e non viceversa. È questo del resto l'unico ancoraggio reperibile per una politica altrimenti senza fondamenti e vogliosa di gestire la scena del mondo piuttosto che i problemi del mondo. Si sa che il referendum è sotto tutti i cieli un accorpamento di consensi eterogenei: non importano nel referendum le alleanze, che spesso non esistono, ma il convergere intorno al tema, il numero degli elettori e quindi l'esito finale. Così è andata in Grecia e la mossa politica successiva di Tsipras e Varoufakis, con le dimissioni del ministro dell'economia, vero colpo di teatro studiato a tavolino, dice l'intenzione e il  successo dei vertici greci nell'avere puntato sulla politica contro la finanza. Quale altra carta gli restava in mano?
Quella accesa dai greci è una piccola fiamma ateniese e per giunta fumigante, ma può rappresentare un'ultima spiaggia per una politica non al tutto dimentica del proprio antico primato, non solo, ma almeno intenzionata a recuperare una qualche dignità nei confronti dell'abilità ragionieristica dei centri finanziari dominanti. I quali oramai da tempo hanno nella comunicazione dei telegiornali lo stesso profilo delle più prestigiose istituzioni politiche.
Cosa dirà Goldman Sachs? In quale casella ci collocherà e con quale lettera? I suoi giudizi pesano, la sua immagine conta di più di quella del Parlamento francese e italiano, figuriamoci di quello d'Atene. Lì stanno i nuovi poteri, non più tanto occulti, e non importa se dietro s'annida una manica di ladroni che hanno innescato la crisi, succhiato i soldi pubblici ad Obama ed esportato il contagio in tutto il vecchio continente.
Probabilmente, almeno nel medio periodo, il connubio tra democrazia e mercati risulta indissolubile. Puntare sul recupero di peso e di autorità della politica risulta insieme un atto di moderazione e di saggezza. Una salvaguardia del welfare europeo, un argine nei confronti di una struttura dell'economia che aumenta le disuguaglianze e poi apre Expo per lasciare intendere di essere disponibile a qualche doveroso aggiustamento.
Per questo i Greci hanno compiuto un'azione che ci interessa e ci riguarda. E lo hanno fatto un attimo prima che anche il Partenone fosse lottizzato e messo all’asta, consentendo magari ai partner tedeschi di completare la collezione già presente nel Pergamon Museum di Berlino, con pezzi fin qui razziati senza asta e senza mercato.
Chi fin dagli inizi s'è messo e si è mosso fuori dal coro è proprio il Papa argentino.  

 La svolta
Indubbiamente, e non soltanto a posteriori, la scelta di Francesco, venuto "quasi dalla fine del mondo", appare una svolta a "U" nel cammino della Chiesa universale e in particolare romana. Bergoglio del resto ha sorpreso i fedeli e il mondo con il suo approccio appena nominato dalla loggia di San Pietro e non ha cessato di stupire. Avendo scelto di non proporre i punti fermi di una dottrina, ma piuttosto di suscitare interrogativi e speranze nel popolo di Dio e nel mondo. Una bersaglio non facilmente inquadrabile dalle opinioni dominanti. Insomma quello che tuttora abbiamo di fronte è il paradosso Bergoglio. Una osservazione sulla svolta del pontificato. Dove giace cioè secondo la mia opinione la chiave del mutamento. Una chiave che è tutta nella decisione che l'ha preceduta. E infatti il gesto inatteso di Benedetto XVI ha sorpreso non meno del sentiero intrapreso da papa Francesco. Non solo per la cesura "storica", ma piuttosto per il retroterra culturale che a mio giudizio rivela. Sono infatti convinto che molto abbia influito sulla decisione inattesa del Papa tedesco la sua cultura, teologica e politica, nazionale. È infatti preminente dalla Baviera in su una concezione del potere di stampo luterano, che mette in rilievo quello che i teologi protestanti soprattutto hanno definito il "potere demoniaco del potere". Una vulgata che fa osservare come le tentazioni nel deserto, il passo cioè che tratta l'argomento del potere in maniera più esplicita, sia presente in tutte e quattro gli evangeli. Dal potere bisogna guardarsi proprio per il suo potere demoniaco, e la stessa democrazia non può dimenticare la traduzione di questa visione nel passo kantiano che evoca l'albero storto della natura umana. Insomma il potere deve essere esercitato, ma dal potere bisogna anche guardarsi prendendone le distanze.
Affatto diversa la concezione latina ed italiana, dove il mantra corrente è quello andreottiano, diventato quasi proverbiale: "Il potere logora chi non ce l'ha". Detta alle spicce, un cardinale italiano sarebbe stato assai meno motivato a prendere in esame l'opzione delle dimissioni. Opzione che, difficile dubitarne, verrebbe presa in seria considerazione dal Papa argentino qualora le circostanze lo richiedessero. Le osservazioni fin qui riassunte semplicemente intenzionate a dar conto delle motivazioni della radicalità di una svolta che nel carisma inatteso di papa Bergoglio -anche senza rifare il verso all'Enciclopedia Britannica, tutto si può pensare della compagnia ignaziana, salvo una sua non dimestichezza con il potere e i suoi dilemmi- capitalizza e rilancia una riflessione a lungo incubata, anche se non maggioritaria probabilmente nell'area della gerarchia ecclesiastica del vecchio continente.


La prospettiva del giubileo
Quello allora di cui dobbiamo più diffusamente occuparci è il magistero del vescovo di Roma alla luce dell'indizione del giubileo dedicato alla misericordia. Provo a riflettere a partire dalla circostanza che papa Bergoglio ha vissuto con profonda partecipazione pastorale il default argentino. Con un mutamento di linea non soltanto pastorale, se sono vere le notizie che lo accreditano come non propenso a fare proprie le istanze della teologia della liberazione e le inquietudini del giovane clero deciso a impegnarsi nell'agone politico. Qualcosa di simile alla notte che provocò la conversione del vescovo Oscar Arnulfo Romero al capezzale dell'amico gesuita assassinato dagli squadroni della morte deve essere accaduto nella vicenda del vescovo di Buenos Aires. L'attenzione alla povera gente, la frequentazione, andandovi con la metropolitana, delle periferie dei diseredati sono non soltanto un cambio dell'attenzione e degli strumenti della sociologia della pastorale di Bergoglio, ma anche, penso, la causa del crearsi in lui di un nuovo punto di vista, che tuttavia non discende da una nuova grammatica politica, quanto piuttosto da una più radicale lettura del Vangelo. Qui appare centrale la categoria della misericordia. Credo alludesse a questo un amico che insegna filosofia estetica quando, alcune sere fa, esclamava: "L'enciclica di Francesco non considera il capitalismo un destino".
Papa Francesco non ha nessuna intenzione di ritagliarsi uno spazio tra i rivoluzionari piuttosto che tra i riformisti o i moderati; il suo intento è altro e l'orizzonte totalmente altro. La sua critica è tanto più inquietante, non tanto per l'insistenza, quanto piuttosto per una radicalità che la situa in un orizzonte diverso da quello delle politiche correnti.
Trovo nei dibattiti amici e studiosi noncredenti che manifestano ad alta voce, tra il serio ed il faceto, l'intenzione di convertirsi. Se la cosa da un lato mi fa piacere, dall'altro un poco mi irrita: dopo aver speso un libro qualche decennio fa per attaccare gli "atei devoti" sul versante della destra, non mi andrebbe a genio di rifare la medesima operazione questa volta sul lato sinistro.Ci sono un rispetto e perfino una devozione che poco hanno da spartire con la fede. Il vero credente può essere un mistico, non un devoto, tanto meno incline alle devozioni che promuovono commercialmente pellegrinaggi di successo. Dio va cercato, non posseduto. Compito dell'uomo è cercarlo; sarà lo Spirito a operare a modo suo e a modo dell'uomo la conversione. Non valeva soltanto per Pietro Scoppola il giudizio di Paolo VI: "Scoppola è un cristiano a modo suo".
Non la sicurezza di una dottrina, ma l'onestà di una ricerca. Devozione e dottrina possono addirittura risultare sostitutive dell'Altissimo: materiali teorici per la costruzione dell’idolo. Dice l'Antico Testamento che Dio ama essere battuto dai suoi figli. Personalmente non ne sono al tutto sicuro. È uno dei miei motivi del contendere con Dio, perché ho imparato dalle avversità della vita e dalla parola rivelata che con Dio è anche bene litigare.
Quel che devi evitare di mettere in mezzo sono gli  idoli, tanto più se religiosi, se cattolici, se pii. L'idolo benedetto e a fin di bene (questo era il vitello d'oro di Aronne nel deserto) è più insidioso dell’idolo blasfemo, e ho ragione di credere che Dio lassù s'arrabbi di più.
L'ateo che cerca non patteggi; spinga fino in fondo la propria incredulità e la propria ricerca. Con onestà incessante. Con una presa di responsabilità non reticente. Sarà l’Altro a venirgli incontro. Il contrario della laicità non è la fede, ma l'idolatria. Sia chiaro: non solo negli scritti oramai copiosi, ma anche nelle prediche mattutine nella parrocchia di Santa Marta -delle quali i quotidiani fanno lodevolmente il resoconto quasi ogni giorno- il Papa non si astiene da giudizi taglienti e circostanziati. Già prima di pubblicare l'enciclica ecologica, Francesco aveva dichiarato, proprio in termini di misericordia, che Dio perdona sempre, gli uomini qualche volta, la natura mai. Non era una giaculatoria ad uso di "Italia Nostra" o del WWF. Ma piuttosto, come s'usa tra gli uomini di Spirito e i consiglieri di coscienze, un giudizio sapienziale. Qualcosa che attiene a una categoria centrale nel pensiero della Compagnia di Gesù e sicuramente centralissima nella vasta pubblicazione del cardinale Carlo Maria Martini: il discernimento. È ovvio che da una visione siffatta possano discendere comportamenti politici conseguenti, ma si tratta di traduzione data soltanto alla responsabilità di chi si impegna in quella che conviene chiamare con Machiavelli realtà effettuale.

Le icone della misericordia
La Scrittura e in particolare il Nuovo Testamento (ma anche l'Antico, molto più di quanto si lasci credere) hanno figure, o meglio ancora icone, che illustrano il tema della misericordia.
Si pensi al Ritorno del figliol prodigo dipinto da Rembrandt, dove il grande pittore fiammingo per meglio simboleggiare lo spirito d'accoglienza del padre nei confronti del figlio che era andato per il mondo a sperperare la propria parte di eredità con gozzovigliatori e prostitute, lo dipinge nell'abbraccio con una mano maschile e l'altra femminile, ad indicare la totalità esuberante dell'accoglienza. Più nota la parabola del Buon Samaritano. Un samaritano dunque, e non un israelita devoto. Il quale, a differenza dei rappresentanti della religione dell’Altissimo che pure erano discesi prima di lui il lungo la strada che mena da Gerusalemme a Gerico, si distrae dal proprio itinerario, tralascia le proprie occupazioni (non quindi un produttore compassionevole) soccorre il malcapitato, ne paga le cure e la pigione alla locanda, e non si interroga una sola volta sulla personalità del beneficato e sul suo diritto o merito ad essere soccorso, uno derubato e percosso dai briganti e che potrebbe benissimo essere dedito a deviazioni sessuali o a una modalità di vita definita "alla corinzia", un greco già in allora taroccatore di bilanci. La misericordia cioè è fuori dagli schemi perché non è calcolabile, non si amministra dopo avere letto le statistiche ed essersi confrontata con la crescita, il benessere, il welfare e il Pil. (E qui va pur detto che la retorica politica raggiunge uno dei suoi culmini nel famoso discorso sessantottino di Bob Kennedy alla Kansas University.)
La politica cioè non può non interrogarsi sulla misericordia, a partire tuttavia da una distanza che le chiarisce quanto sia altro da sé. Bisogna decidersi a dire che il paradosso di Papa Francesco rovescia la prospettiva. Sarà prevedibilmente così con l'annunciato anno giubilare; è già stato così all'apertura dell’Expo. Ho assistito davanti al televisore all'inaugurazione dell'Expo  di Milano. Tutti hanno fatto benissimo la loro parte. Matteo Renzi, come sempre in queste occasioni, è risultato impareggiabile. Ha illustrato le ragioni riuscite dell'ottimismo contro la battuta in ritirata dei soliti gufi. È riuscito perfino a mandare fuori giri per le corse future Giuliano Pisapia, con una scappellata da standing ovation all'antica sindaca Moratti.
Da ex segretario del PD milanese potevo considerarmi soddisfatto. Ma spenta la tv, finito l'evento e visitata all'Expo, ricordo ancora perfettamente il senso del breve intervento in videoconferenza di papa Francesco, tutto il resto l'ho dimenticato. E accaduto soltanto a me? Papa Bergoglio ci ha ricordato che importano i volti, e che sotto quei volti troppo spesso c'è ancora uno stomaco vuoto. Eccolo il paradosso: perché un Papa che preferisce la profezia e la testimonianza alla politica riesce a fare discorsi che ci paiono più politici e duraturi, tali da inquietare e mettere sotto scacco gli eventi della politica? Un Papa che a detta di tutti "buca" il teleschermo e che ha confidato di non guardare la tv da 25 anni, "per un fioretto", e che quindi non si mette in posa, non è comme il faut secondo il format degli eventi politici correnti. Dov'è allora il limite della politique évenementielle
Credo che l'interrogativo non riguardi soltanto i comunicatori. Riguarda questa politica, la sua cogenza e la sua durata. Azzardo un'ipotesi, sulla quale da tempo vado riflettendo. Mi esprimo ancora una volta alle spicce e alla plebea: questa politica si occupa non tanto del mondo, quanto dalla sua rappresentazione.

Il solito problema del punto di vista
Surfare, il nuovo verbo coniato dalle giovani sociologhe americane, è la metafora (ovviamente veloce) in grado di dare conto del ritmo e della natura delle politiche in atto. Indica l'atto di chi su una tavoletta sa stare in equilibrio sulle immense onde dell'oceano. Né può ad un reduce del cattolicesimo democratico sfuggire in proposito il riproporsi di alcuni stilemi e qualche reminiscenza (inconscia) di un italico marinettismo di quasi un secolo fa.
Ma continuiamo a viaggiare per metafore con l'intento di sistemarle all'interno di un puzzle che aiuti a costruire una improbabile mappa delle politiche odierne e i suoi cartelli indicatori. Volendo quindi dare a ciascuno il suo è opportuno ricordare che la metafora "società liquida" discende da Zygmunt Bauman. Che alla società liquida corrisponde la politica senza fondamenti (Mario Tronti), populismi ed ex-popoli compresi. E perfino la cosiddetta anti-politica, il cui confine con la politica è da sempre poroso (Hannah Arendt).
Si può anche utilmente aggiungere che alla società liquida fanno riferimento i partiti "gassosi" (Cacciari) e che ai partiti gassosi corrisponde il dispiegarsi di politiche in confezione pubblicitaria, nel senso che evitano la critica del prodotto da piazzare ed hanno progressivamente sostituito la propaganda politica di un tempo per veicolare il messaggio pubblicitario utile a suscitare non tanto senso di appartenenza, quanto piuttosto un'emozione imparentata con il tifo sportivo. Quel che dunque manca in queste politiche è soprattutto un punto di vista dal quale osservare la realtà, anche se ci imbattiamo in una condizione inedita nella quale i conti prima che con la realtà vanno fatti con la sua rappresentazione. La rappresentazione cioè ha sussunto in sé il mondo intero e le politiche chiamate a descriverlo e sempre meno a cambiarlo. Ma sarebbe fuori strada chi pensasse che il problema sia soltanto e essenzialmente teorico. È invece anzitutto, come sempre quando si parla di politica, un problema urgentemente pratico. Ha ragione papa Francesco quando afferma che i fatti valgono più delle idee. Dostoevskij nell’Idiota sostiene a sua volta: "Ci si lamenta di continuo che in questo paese manchino gli uomini pratici. Di politici, invece, ce ne sono molti".
Come sempre l'ironia aiuta e svolge una preliminare funzione abrasiva, anche se è sempre papa Francesco ad avvertirci di evitare l'eccesso diagnostico, perché anche di sola diagnosi si muore. Riusciamo a prescriverci ogni volta, dopo la diagnosi, almeno un'aspirina?
Dunque, come affrontare il tema con uno sguardo non congiunturale?
Papa Francesco ha più volte ricordato che i fatti valgono più delle idee. Eppure talvolta non c'è niente di più pratico che un pezzo di teoria. Ne era convinto anche Alex Langer, il più grande tra i verdi italiani, che ad un convegno s'impossessò rapidamente dell'intervento di un militante il quale aveva osservato che quando ci dicono che molti nel mondo non hanno da mangiare, non si tratta di mangiare di meno, ma di pensare di più.
La politica è liquida perché il capitalismo finanziario e consumistico sta portando a termine la trasformazione del mondo come propria rappresentazione: un'operazione interessante e in parte utile, comunque da capire. Non ci chiediamo se il Paese sia vivibile (e come) o più giusto, ma come possa essere competitivo e politicamente scalabile. Lo sguardo di una critica radicale viene così escluso. La politica è liquida perché anche le ultime radici vengono strappate. Tutta la politica italiana è oramai senza fondamenti, non solo Beppe Grillo e Casaleggio.


Il suicidio delle culture
Tutto il riformismo col quale ci stiamo confrontando parte dalla confusa consapevolezza di questa condizione, ossia parte da una obiettiva ottica di competitività costretta a considerare immodificabili, grosso modo, le regole del gioco reale. Quelle che stanno dietro la rappresentazione e la determinano. Le regole del gioco le detta cioè lo statuto vincente del capitalismo globale, finanziario e consumistico. È così, per tutti e dovunque, piaccia o non piaccia. Era così perfino nel Vaticano di papa Benedetto. È la rappresentazione che garantisce la natura del mondo, non viceversa. E più di un esperto si è spinto a dire che la politica è chiamata a governare le emozioni degli elettori, non i problemi dei cittadini. Siamo ancora una volta all'ostracizzato, e da me invece citatissimo, mantra del Manifesto del 1848: Tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria. Anzi, si è dissolto. E noi ne contempliamo la rappresentazione. Anzi, la viviamo. Viviamo tra macerie scintillanti e ologrammi che camminano e manifestano sulla piazza di Madrid. In un pomeriggio Matteo Renzi decide l'ingresso del PD nella famiglia socialdemocratica europea, ma non taglia nessun nodo gordiano. Matteo ha anche buona vista e vede che il nodo non c'è più. E che le remore di Rosy Bindi e Beppe Fioroni erano fantasmi tenuti in vita per lucrare una rendita di posizione non soltanto elettorale. Allo stesso modo Matteo Salvini passa dal federalismo secessionista della piccola patria di Umberto Bossi al nazionalismo centralistico e anti-europeo di Marine Le Pen. La rappresentazione globale infatti  svela la dissoluzione delle vecchie culture politiche, e quindi le rende inefficaci, zoppicanti, fastidiose al grande pubblico, impresentabili. Nessuno le ha uccise. Ha ragione Toynbee: si sono suicidate. Le politiche che da esse discendevano si sono fatte conseguentemente liquide. La fine della politica non è ancora decretata, ma ha cessato d'essere un'ipotesi di scuola. Il "primato della politica" è invece defunto, per tutti. Anche se vigorosi reduci in carica paiono non essersene accorti. Intorno al primato della politica si raccoglievano tutte le culture del Novecento e tutto l'arco costituzionale del nostro Paese. Tangentopoli più che una corruzione inguardabile è una sepoltura malinconica, che manda l’odore del cadavere di Lazzaro prima della resurrezione. C'è in giro ancora qualche richiamo della foresta, ma le foreste non ci sono più, per nessuno.
È la rappresentazione che garantisce la natura del mondo, non viceversa. E più di un esperto si è spinto a dire che la politica è chiamata a governare le emozioni degli elettori, non i problemi dei cittadini. Siamo ancora una volta all'ostracizzato, e da me invece citatissimo, mantra del Manifesto del 1848: Tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria. Anzi, si è dissolto. E noi ne contempliamo la rappresentazione. Anzi, la viviamo. Viviamo tra macerie scintillanti e ologrammi che camminano e manifestano sulla piazza di Madrid. In un pomeriggio Matteo Renzi decide l'ingresso del PD nella famiglia socialdemocratica europea, ma non taglia nessun nodo gordiano. Matteo ha anche buona vista e vede che il nodo non c'è più. E che le remore di Rosy Bindi e Beppe Fioroni erano fantasmi tenuti in vita per lucrare una rendita di posizione non soltanto elettorale. Allo stesso modo Matteo Salvini passa dal federalismo secessionista della piccola patria di Umberto Bossi al nazionalismo centralistico e anti-europeo di Marine Le Pen. La rappresentazione globale infatti  svela la dissoluzione delle vecchie culture politiche, e quindi le rende inefficaci, zoppicanti, fastidiose al grande pubblico, impresentabili. Nessuno le ha uccise. Ha ragione Toynbee: si sono suicidate. Le politiche che da esse discendevano si sono fatte conseguentemente liquide. La fine della politica non è ancora decretata, ma ha cessato d'essere un'ipotesi di scuola. Il "primato della politica" è invece defunto, per tutti. Anche se vigorosi reduci in carica paiono non essersene accorti. Intorno al primato della politica si raccoglievano tutte le culture del Novecento e tutto l'arco costituzionale del nostro Paese. Tangentopoli più che una corruzione inguardabile è una sepoltura malinconica, che manda l’odore del cadavere di Lazzaro prima della resurrezione. C'è in giro ancora qualche richiamo della foresta, ma le foreste non ci sono più, per nessuno.

Evangelii gaudium
Non a caso questo Papa, profetico e pratico, hai iniziato il suo magistero universale non con un'enciclica, ma con una esortazione apostolica. La Evangelii gaudium è una sorta di biglietto da visita, insieme corposo e facilmente leggibile. A dar conto delle osservazioni fin qui proposte è sufficiente credo la prima parte del n. 54.
Scrive Francesco: "In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della "ricaduta favorevole", che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell'indifferenza".
La convinzione diffusa che qui viene rifiutata e quasi messa alla berlina è quella che discende dal celebre passo di Adam Smith con il quale si dichiara che l'interesse generale e in particolare la "ricaduta favorevole" discendono dal fatto che il macellaio e il birraio pensano a fare il proprio interesse. E, come è risaputo, una qualche mano invisibile provvederà a sistemare le cose. Attitudine che Stiglitz ha ridefinito come economia del trickle down, e che qui papa Francesco traduce secondo un lessico che gli è diventato insieme abituale ed innovativo. Va da sé che il "Financial Times" si sia precipitato a dire che l'esortazione apostolica risultava "socialista", dimostrando peraltro poca fantasia dal momento che il medesimo aggettivo era stato usato all'apparire della "Populorum Progressio" (26 marzo 1967) di papa Montini. Tentativi insieme reiterati e patetici che mi fanno ritornare a un giudizio di Michael Novak dopo la pubblicazione della "Centesimus Annus" (primo maggio 1991), che lo portò ad affermare piuttosto spericolatamente che secondo l'enciclica la formula poteva essere: "Socialismo no. Capitalismo forse". Ci pensò il Papa polacco a fare platealmente smentire la sintesi dall'Accademia delle Scienze Vaticane.