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lunedì 5 ottobre 2015

ANTONIO MOLINARI: UN PROLETARIO, UN ANTIFASCISTA,
MA SOPRATTUTTO UN UOMO RETTO

Il giovane Antonio Molinari con sua moglie

Di quanti militanti, di antifascisti, di uomini del popolo che hanno dato un notevole contributo alla causa della giustizia, dell’uguaglianza, della libertà non abbiamo memoria, proprio perché semplici proletari, di condizioni umili e spesso privi della possibilità di scrivere e dunque di lasciare tracce del loro operato, dei notevoli sacrifici sopportati e delle angherie subìte? Questi uomini e queste donne lasciate nell’oscurità della storia sono centinaia e centinaia di migliaia. Sono il sale della terra, ma la Storia non se ne occupa. Sono come gli oscuri schiavi che hanno costruito piramidi e cattedrali con il loro sangue, bonificato terre con la loro fatica, ma la Storia celebra i Faraoni, i Re, i Condottieri, i Porporati, i Leader e così via. Eppure senza di loro, ogni sforzo sarebbe stato vano, e sarà così in ogni tempo.
Noi amiamo questi uomini e queste donne che hanno dato senza pretendere nulla per sé. Hanno obbedito alla loro moralità e alle loro coscienze; ai loro ideali e al loro profondo senso di umanità. Erano uomini retti, umani, e obbedivano prima di tutto a questi sentimenti primigenii, fatti di rettitudine e di umanità. Questi sentimenti venivano prima di ogni altra seppur nobile motivazione, e rappresentano il confine necessario fra la pratica degli aguzzini, degli oppressori, dei carnefici, e chi a questa lurida logica di morte si oppone. Sempre dobbiamo differenziarci da costoro, e mostrare che il nostro valore della vita non è uguale al loro. Perché come ha scritto il giovane scrittore anarchico Stig Dagerman, “chi costruisce prigioni si esprime meno bene di chi costruisce la libertà”. Mai, dunque, “perdere la tenerezza” come scriveva Guevara, altrimenti diventiamo simili a coloro che vogliamo combattere.
Il significato profondo di questo toccante, commovente ricordo del militante comunista Antonio Molinari, tracciato dal figlio Emilio, sta proprio nello straordinario valore umano di questa figura, che non viene meno neppure nei momenti più bui e duri della sua esistenza. Neppure nei confronti dei suoi nemici e di quanti sono lontani dalle sue vedute ideali. L’eroismo non è fatto solo di azioni eclatanti, di momenti epici: ci sono gesti mille volte più educativi ed esemplari nella loro umanità, che si incidono così profondamente nelle coscienze e le modificano in meglio per sempre. Quello che ci racconta Emilio del suo sfortunato padre, scomparso alla giovanissima età di 46 anni (il figlio era poco più che un bambino), sta proprio in questa lezione di umanità. In fondo non sono vissuti assieme che pochi anni, il tempo di un sospiro; e tuttavia la sua giovane vita ne è stata influenzata per sempre. Se ora, ad una età così tarda, il figlio ha sentito il bisogno di ricercarne le tracce anche politiche e di offrircene i dati anche pubblici, perché noi potessimo condividerli, è perché quel filo, quel legame interrotto 68 anni fa, in realtà non si era spezzato. Nelle scelte di quel giovane ribelle antifascista, c’erano le premesse di quelle che poi sarebbero state quelle di Emilio. È lungo quel solco che è scivolata la vita del figlio, lungo quella idealità, quella moralità. Buon sangue non mente, dice la saggezza popolare. “Odissea” è onorata di ospitare questo ricordo e di condividerlo con i suoi numerosi lettori. Queste vite ci appartengono, vite di uomini non illustri che per noi valgono invece mille volte più di tante altre immeritatamente celebrate. Siamo noi che dobbiamo onorarle e siamo noi che dobbiamo custodirne la memoria. Ben vengano dunque altre ricerche in questo senso, e che il Pantheon delle loro oscure, umili, indispensabili vite, sia il cuore di ognuno di noi. (A.G.)

                                                               ***

Mio Padre è morto nel 1947, ed io avevo 7 anni, ma so da sempre che in quel poco tempo, mi ha comunicato una passione e consegnato una memoria storica. La sua memoria e quella di uomini del suo tempo e di quelli che l’hanno preceduto. Ha così poco vissuto con me, eppure ha influenzato enormemente la mia vita, quella di mia sorella, quella di mio fratello che non l’ha mai conosciuto e quella di tutti i suoi familiari. Ci sono i racconti di mia madre e di mia sorella, ma soprattutto delle mie zie, di mia zia Maria in particolare, sulla miseria della sua infanzia, la sua gioventù, il carcere e le botte, il suo confine all’Isola di Lipari e il suo fare il comunista nel buio ventennio. E poi ci sono i miei ricordi. Forse non mi bastava tutto ciò, forse volevo a 76  anni, ritrovarlo o cercare le conferme del suo passaggio su questo mondo. Così il Casellario Politico dell’Archivio di Stato da me consultato, mi rimanda una sua immagine quasi inedita per me e anche una pagina di storia. Immagine e storia, vere e umanizzate, più dei racconti e dei ricordi stessi. Poche e scarne pagine dove affiorano i tratti di un proletario, nel senso che questo termine doveva avere negli anni 20 del '900.

La scheda del Casellario Politico di Antonio Molinari con la foto frontale e di profilo

Fascicolo numero 19548:
Antonio Molinari di Emilio Molinari e di fu Clementina Bassani, nato il 1901 a Villanova sul Lambro, abitante a Ponte Lambro: “Comunista, schedato, confinato politico”.
Seguono i connotati: occhi, naso, barba, baffi, viso, colorito, altezza, segni particolari e...“abbigliamento abituale da operaio”. Poi due foto segnaletiche della questura di Milano, un viso antico e alcune pagine, burocraticamente scritte da un funzionario che ne descrive l'arresto, la personalità e la sentenza, seguite dai fogli tutti eguali dei rapporti periodici di polizia, (quattro righe ogni pagina), che testimoniano il suo comportamento. Poche pagine e poche parole perché non c'è nulla da raccontare dell’operaio muratore Antonio Molinari, non ha notorietà alcuna... non ha cariche, non è un comunicatore, è quasi analfabeta…
Così negli atti.
Cenno biografico al giorno 5/8 – 1927:
“Durante l'età giovanile ha condotto vita scapestrata ed indisciplinata e, quando dopo la guerra, la gioventù operaia fu attratta dalle false ideologie comuniste predicate nelle pubbliche piazze da improvvisati tribuni della plebe, egli incoscientemente venne avvolto e trascinato dalla marea rossa di allora, divenendone gregario più per fanatismo giovanile che per convinzione di fede.
Frequentò le prime classi della scuola elementare e la sua cultura è molto limitata, come la sua influenza sui compagni.
È stato poco amante del lavoro; non ha tenuto mai conferenze per mancanza d'istruzione e non ha coperto cariche sociali né amministrative nel partito comunista. Dopo l'avvento del fascismo al potere egli si dimostrò avverso al regime e quale sovversivo mal visto dall'ambiente di Linate al Lambro, perché non trascurava di affermarsi tale in ogni pubblica dimostrazione di carattere nazionale. La notte del 20/21 gennaio c.a, venne sorpreso in viale Umbria assieme ad altri sovversivi a stampigliare sui muri la iscrizione di VIVA LENIN ed arrestato da vigili notturni, fu trovato in possesso di una rivoltella, che portava abusivamente. La perquisizione eseguita nella di lui abitazione condusse al sequestro di un ritratto di Matteotti, di vari manifestini sovversivi e di una tessera rilasciatagli dalla Confederazione del Lavoro ed altra dal Comitato della IIIa Internazionale.
Con sentenza del 31 gennaio il locale pretore lo condannò per tale reato a mesi due di arresto. In seguito di che, per disposizione, egli venne assegnato al confine di polizia per la durata di un anno ai sensi dell'articolo 184 della nuova legge di PS. Con ordinanza emessa dalla locale Commissione Provinciale e fu destinato alla colonia di Lipari.”
Il seguito delle pagine sono appunto tutte eguali, ripetitive. Sono i giudizi mensili di chi lo controllava: “Continua a dichiararsi comunista, ma tiene una buona condotta…”
Mia madre raccontava che periodicamente arrivava in casa un milite, ma che con il tempo era diventato quasi un conoscente, accettava un bicchiere di vino, si sedeva, chiacchierava e se ne andava… Tutto qui, ma oggi sapere che mio padre nel 1927 scriveva su di un muro di viale Umbria Viva Lenin e portava in tasca una pistola è come se mi fosse restituito con il fascino di una storia anarchica, comunista, brechtiana.
Penso che tutto ciò avveniva proprio mentre il fascismo introduceva le leggi speciali, incarcerava e aveva da poco ucciso Matteotti (di cui tiene la foto in casa). Anche la tessera della IIIa Internazionale ha questo fascino perché questa organizzazione era stata appena costituita.
Anche quel suo aver condotto in gioventù vita scapestrata, indisciplinata… e poco amante del lavoro…. entra nei miei sentimenti con un senso diverso da come l’intendeva chi lo scrisse.
Già… come poteva essere se non “scapestrata” e “scioperata” la vita di un giovane muratore di Ponte Lambro a cui avevano tolto persino l’infanzia perché a 8 anni e per via della miseria l’avevano mandato a fare il garzone dei muratori e a portare secchi di malta su per le scale…o di un ragazzo che ha vissuto dentro i terremoti della prima guerra mondiale, della rivoluzione d’Ottobre, del biennio rosso 19/21 e poi delle squadracce fasciste?
E come poteva vivere, nei lunghi anni del fascismo un muratore schedato e comunista? Che aveva imparato a leggere e scrivere al confino grazie al compagno Sanna, un intellettuale comunista, che ricorderà per tutta la vita e che come una reliquia conserverà il libro che gli regalò: “La madre” di Massimo Gorky. Poteva solo vivere testimoniando con dignità il suo essere un comunista non “per fanatismo giovanile”.
Rifiutando la tessera del partito fascista. Sposarsi con una operaia della Borletti, mettere al mondo una figlia, mia sorella, venire licenziato dalla Montecatini di Linate, cercare continuamente lavoro, restare vedovo, risposarsi con un'altra operaia della Borletti e fare un altro figlio, (il sottoscritto) e poi alla fine della guerra, un altro il figlio, concepito nella vittoria sul fascismo e sulla monarchia. Un figlio e una vittoria, che non ebbe il tempo di conoscere e assaporare.
Che altro poteva fare per 20 anni se non inventarsi nei comportamenti della normalità quotidiana, della “buona condotta”, il suo essere un esempio comunista?
Come i tanti altri operai, impossibilitati dal poter essere quadri militanti di un partito lontano e clandestino, con una rete di comunicazioni quasi inesistente, attraversato da lacerazioni, sospetti e dai settarismi dello stalinismo, credo potesse solo non nascondere le proprie idee e dimostrare la sua diversità con comportamenti che suscitassero il rispetto degli altri.
Come raccontano mia madre e mia sorella: ricevere labili informazioni clandestine dal partito, incamerarle e tradurne le idee in occasioni di discussione con: gli amici, gli abitanti di Baggio o Ponte Lambro, quanti lavorano con lui alla Montecatini, abitano nello stesso caseggiato o incontra all’osteria o al gioco delle bocce.
Già…è questo che leggo in quei rapporti ripetitivi. Dichiararsi sempre comunista, mostrare rettitudine e onestà, esaltare il senso della comunità, sia essa di caseggiato o di lavoro, la disponibilità ad aiutare e organizzare risposte collettive alle necessità quotidiane dei vicini di casa, degli amici o dei compagni di lavoro, anche quelli fascisti, mettendo a disposizione il suo saper fare di tutto: dal muratore al carpentiere al fabbro all’imbianchino. E parlare ai giovani di Baggio che bazzicavano casa nostra, come Albico Albino che poi diventò un Gap e fu torturato e ucciso.
I miei ricordi, di difficile separazione dai racconti, cominciano nel 1943 e finiscono nel ’47 alla sua morte. Ricordo la guerra, i bombardamenti del 1944, la resistenza, l’immediato dopo guerra.
Ho un ricordo di uomini in fuga che si nascondevano in casa nostra prima di partire per le montagne: partigiani, ebrei, persino un disertore tedesco che si era consegnato alla resistenza.
Ricordo i volantini che tutta la famiglia era impegnata a piegare, e che la compagna Speroni, la vicina di casa che lavorava alla Borletti, veniva a ritirare per portare in fabbrica.
Antonio Molinari
Già... Borletti e Montecatini. Due fabbriche che ritornano sempre nella vita di mio padre, di mia madre, di tutti i Molinari e anche della mia, dal momento che entrai nella scuola aziendale della Borletti a 10 anni e ne uscii dopo 24.
Perché a Milano era così la vita dei proletari; si sviluppava attorno ad una o due fabbriche...dalla nascita alla pensione. Ricordo ancora che mio padre sparì di casa poco prima del 25 aprile e lo rivedemmo con il mitra in spalla sul camion degli insorti che andavano ad occupare la caserma Perucchetti in fondo a via Gulli. Ora nel ripensarlo leggo nel suo modo di essere antifascista, come in quello di migliaia di anonimi compagni che hanno resistito per 20 anni, qualcosa su cui la mia generazione, settaria e feroce nel manifestare il proprio antifascismo, dovrebbe riflettere. 
Quei comunisti contrastarono il fascismo stando semplicemente in mezzo alla gente come esempi di vita. Come organizzatori di comunità, capaci di parlare a tutti anche ai “nemici” che erano tanti. Mio padre lo ricordo così: che insegna, durante gli ultimi anni di guerra, agli inquilini del nostro caseggiato: “l'arrangiarsi collettivo e solidale”.
A fare gli orti collettivi, a costruire i pollai e a non praticare o a subire la borsa nera ma ad organizzare le delegazioni che per tutti girassero per le cascine a procurarsi il cibo o la legna da ardere. Lo ricordo una notte, alla luce delle lampade ad acetilene, alla testa degli abitanti di via Gulli, impegnati a tagliare gli alberi di Piazzale Siena, farli a pezzi, dividerseli equamente e portarli nelle case, con il tacito accordo dei militi che si presero la loro parte. Lo ricordo con i bombardamenti assicurarsi che tutti fossero nel rifugio e poi correre dalle “suorine” del convento di fronte a casa per tranquillizzarle, lui, da loro conosciuto come il comunista. Che organizzava la carovana degli sfollati serali della via, verso il riparo nella cascina Ghisolfa dove abitavano i parenti della sua prima moglie. Ricordo il suo cantare canzoni che mi comunicavano storie della prima guerra mondiale, del lavoro in miniera e tutto il dolore di una generazione.
Ricordo il suo “canto libero” nell'ultima estate del ’47, mentre la bicicletta sembra volare sulla strada sterrata, tra le rogge di Quinto Romano, io sto sulla canna di quella bicicletta e il suo canto mi arriva su di un motivo simile alla Marsigliese: “O vigliacchi scendete dal trono, deponete le vostre corone, al grido di rivoluzion... marciam... marciam...”. Non ho più sentito cantare quella canzone da nessuno.È rimasta mia, di mio fratello, di mia madre. Nostra... da cantare quando la miseria del dopo guerra cercava di umiliarci, come l'inno di un resistente, troppo vecchio e troppo padre di famiglia per andare in montagna o nei Gap, troppo tempo vissuto come una minoranza politica tra la gente. Troppo lontano dal mito delle armi della Resistenza che oggi celebriamo. Troppo immerso nel popolo per essere feroce, tanto da mettersi, dopo la liberazione, davanti ai suoi stessi compagni venuti a prendere il fascista Calissoni un vicino di casa e dire loro: “lui ha sempre saputo chi nascondevo e quello che facevo in casa mia e non mi ha mai denunciato”.
Solo ora ripenso a questo antifascismo sconosciuto, che ha agito a lungo per convincere prima di sconfiggere. Solo adesso capisco che forse è in questo modo, ora che ombre inquietanti si avvicinano, che dovremmo manifestare un nuovo antifascismo. Cercando di parlare a tutti e non di impedire di parlare a qualcuno. Mio padre non ha potuto vivere né la vittoria né il declino della sua resistenza. Ha avuto solo la soddisfazione di diventare capo della commissione interna della sua vecchia fabbrica, la Montecatini di Linate e di animare la Cooperativa di Ponte Lambro. Muore e qui comincia un altra resistenza epica quanto l'altra, come dice mio fratello. È quella di mia madre, un’operaia che ha preso il posto di suo marito alla Montecatini, vedova di un comunista, con figli piccoli da far diventare uomini... con la memoria. Ma questa è un altra pagina.
Emilio Molinari