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giovedì 29 ottobre 2015

L’Europa dei migrantes
di Giovanni Bianchi

Dopo Maastricht
L’Europa del dopo Maastricht è l’Europa dei migrantes. Un’Europa cioè che prova ad andare oltre il drastico giudizio prodiano che suonava: “C’è una dose di schizofrenia nella politica europea: l’analisi guarda al futuro, ma la prassi pensa solo al presente immediato”.
Come al solito il cambiamento di rotta discende da una discontinuità non programmata, perché diventa sempre più evidente che le discontinuità accadono e raramente possono essere previste. Si tratta di un approccio tanto più importante se si tiene conto dell’ultima mappa politica a disposizione: l’enciclica di papa Francesco “Laudato Si’ ”.
Nel testo pontificio l’invito “globale”, insieme teorico e pratico, è fare politica e governare non per rispondere alle emergenze, perché in questo modo, aggiunge il Papa, si cerca di risolvere i problemi creandone degli altri. Si tratta cioè di superare definitivamente non soltanto il trattato di Maastricht (7 febbraio 1992) per la semplice ragione che non può essere la logica economica a determinare la crescita di un nuovo grande soggetto politico mondiale, ma anche di muoversi in coerenza e oltre il minimalismo europeo di Monnet, che già allora faceva osservare che consolidare i singoli Stati dell’Unione è impossibile senza una visione geopolitica adeguata. Ne consegue il senso delle dimensioni che l’Unione deve avere riguardo a se stessa. Possiamo cioè anche diventare “Stati Uniti” d’Europa, ma la differenza l’hanno già indicata gli Stati Uniti d’America definendoci per tempo, con la proverbiale malagrazia di teocon e neocon, “figli di Venere”, diversi dai figli di Marte. Figli di Venere perché l’Europa spende troppo in Stato Sociale e troppo poco in armamenti. E sarà ben osservare subito che si tratta sì di un problema di welfare, ma che attiene alla cittadinanza stessa di questa Europa nel mondo globale: perché il welfare europeo è elemento essenziale della cittadinanza europea, anche per rifugiati ed immigrati. Si pensi soltanto per le vite quotidiane dei nuovi europei al ruolo centrale rivestito dalla Sanità, anche nel nostro Paese. Il sans papier che si infortuna viene comunque curato e ricoverato da una struttura ospedaliera; ed è da rimarcare la circostanza che nessun medico leghista se la sia sentita finora di “fare obiezione”.


Un nuovo protagonismo europeo
Tutto anzi concorre a sottolineare la necessità di un nuovo protagonismo europeo nel mondo: quello che la vicenda ucraina, prima di quella siriana, denuncia come una drammatica necessità. Una spinta tale da mettere in crisi e comunque in tensione la stessa leadership tedesca, i guai della quale hanno radici più lontane della Grecia e di Volkswagen.
Senza proprio risalire ad Adamo ed Eva, si può dire infatti che i dilemmi della leadership tedesca incominciano con il “ruvido” allontanamento di Kohl voluto da Angela Merkel. E forse sarà bene nel contempo non dimenticare che proprio Helmuth Kohl usava ripetere di voler salvare la Germania da se stessa. Allo stesso modo è utile non dimenticare i pieni e i vuoti delle culture politiche del Vecchio Continente. La scarsa voce della tradizione di sinistra in Europa, dove i partiti comunisti avevano lasciato alle socialdemocrazie un protagonismo aborrito. I comunisti infatti -a lungo ammaliati dalle sirene dell’internazionalismo moscovita- si sono mostrati più che tiepidi rispetto all’Europa. Salvo eccezioni, come in Italia quella di Giorgio Napolitano, e salvo aver riconosciuto il peso permanente nella storia europea giocato da Jacques Delors. C’erano oltrecortina infatti quelli che vedevano nell’Unione la Nato, e quindi quelli che poi -ex area Comecon e patto di Varsavia- hanno preferito entrare prima nella Nato che in Europa. I polacchi ne sono l’esempio più eclatante.
Con l’avvertenza, non solo per ragioni di completezza, di non lasciare fuori dal quadro “a sinistra” il contributo creativo dei verdi tedeschi: da Fischer a Kohn-Bendit. Quel Kohn-Bendit che dando l’addio al Parlamento europeo ha dichiarato che “l’Europa ha il cuore freddo”.
Siamo cioè a uno degli innumerevoli casi nei quali il congedo dal Novecento obbliga a ripensare le posizioni dei padri, nel caso specifico, di De Gasperi e Spinelli, entrambi intenti a ripetere che l’Europa doveva pensarsi come una tappa verso il governo mondiale.


Una democrazia inedita
Una forma della democrazia cioè inedita e la più adatta a rispondere ai quesiti e ai bisogni di una globalizzazione galoppante.  Vale anche la pena rammentare il discorso che Papa Giovanni Paolo II fece in Slovenia nel maggio del 1996: “Questa è l’ora della verità per l’Europa. I muri sono crollati, le cortine di ferro non ci sono più, ma la sfida circa il senso della vita e il valore della libertà rimane più forte che mai nell’intimo delle intelligenze e delle coscienze”.
Sarebbe bene tenerne ancora conto per dedurne un modo nuovo di guardare alle culture e al deposito dell’illuminismo, e conseguentemente agli arnesi di lavoro adatti a ripensare e ricostruire l’Unione. È qui che ci imbattiamo nell’assenza di una visione e di una politica mediterranea senza le quali la costruzione europea manca ad un tempo di fondamenti e di prospettiva. Era sempre il Papa polacco che celebrando il 10 settembre del 1983 i “Vespri d’Europa” nella Heldenplatz di Vienna, proponeva un’Europa dall’Atlantico agli Urali, dal Mare del Nord al Mediterraneo. Quel Mediterraneo negletto che ha strappato a Predrag Matvejevic un’espressione sconsolata del tipo: “Dopo la caduta del muro di Berlino è stata costruita un’Europa separata dalla ‘culla dell’Europa’.”
Dobbiamo ripercorrere un cammino a partire dalle “primavere arabe”, e dal loro spreco, dall’affermazione di papa Francesco che è cominciata la terza guerra mondiale, a capitoli e pezzetti… È in questo quadro che la crisi economica globale e la vocazione dell’Unione Europea chiedono di essere ripensate insieme con uno sguardo in grado di andare oltre le contingenze. Uno sguardo del quale si è mostrato recentemente capace Gian Paolo Calchi Novati, in una conversazione al Cespi di Sesto San Giovanni, proponendo una lunga riflessione a partire dal centenario della Grande Guerra, che ha visto i potenti della terra pronunciare all’unanimità un mea culpa postumo. Resta il fatto che la guerra continua ad apparire la “sola arma a cui pensano i governi e di cui apparentemente dispone la diplomazia”. Solo la Chiesa cattolica e il Vaticano hanno mantenuto una sostanziale coerenza lungo la traiettoria interpretativa che risale all’invettiva di Pio XI contro “l’inutile strage”.
Non fa solo sfoggio di ironia e Calchi Novati quando nota che “le crisi del Medio Oriente non soffrono per una mancata attenzione del resto del mondo, ma per un eccesso di interferenze. Tipico, malgrado il luogo comune corrente, è il caso della guerra civile in Siria”.
Centrale risulta, non soltanto per l’analisi, il ruolo del Medio Oriente. Neppure soltanto per ragioni di geopolitica che lo vedono al crocevia di tre continenti, ma perché con esso si connettono in un senso o nell’altro le varie cause globali: il jihadismo, l’energia, il riarmo nucleare.

Tre faglie
Tre sono le faglie con le quali il Medio Oriente è costretto a misurarsi: l’esplosione in un conflitto armato a tutto campo della storica scissione all’interno dell’Islam fra la Sunna e la Shia. Un conflitto sottostimato nelle sue ragioni per l’abitudine di una vulgata marxista spuria e filistea consueta a ricondurre alle sole ragioni economiche i conflitti e la loro importanza. Dimentichi come siamo in quanto europei non soltanto delle guerre di religione che hanno caratterizzato l’ingresso dell’Europa nell’età moderna dopo la Riforma, ma anche delle ragioni più profonde che hanno determinato il conflitto nei Balcani Occidentali, abituandoci alla  dissoluzione di quella che oramai tutti chiamano ex Jugoslavia.
Dimentichi anche che il settarismo in campo musulmano è stato rinfocolato dalla rivoluzione khomeinista, e più in generale dalla diffusione dell’islamismo a livello di politica come reazione agli insuccessi delle ideologie occidentali e mondane.
Quelle ideologie cui si sono ispirati i movimenti nazionali e lo stesso socialismo dei Paesi in via di sviluppo, conosciuto sotto il nome di ba’th.
Messa nel conto la circostanza che l’arabicità è stata via via soppiantata come fattore di legittimazione dell’Islam, si può facilmente intendere come l’islamismo si stia ponendo a livello globale in un rapporto che oscilla fra istanze nazionali e transnazionali. I tentativi di riedizione di un nuovo califfato poggiano infatti su questa spinta.
E ancora, non è possibile sottovalutare l’importanza come fattore continuo di crisi la controversia permanente Palestina-Israele. Una decolonizzazione avvenuta a metà nei territori arabi che avevano fatto parte dell’Impero Ottomano.
A quasi mezzo secolo dalla guerra dei sei giorni e a più di vent’anni dagli accordi di Oslo (il 13 settembre 1993 Rabin e Arafat si strinsero la mano in una delle fotografie più note del Novecento), siamo tuttora confrontati con la persistente occupazione di terre arabe da parte di Israele, e con i travagliati processi di integrazione del Medio Oriente nel sistema globale.
E pensare che proprio la politica estera italiana fu la più avvertita nei decenni trascorsi intorno al tema del Mediterraneo. Gli incontri promossi a Firenze dal sindaco Giorgio La Pira non furono infatti e non debbono essere considerati una fuga in avanti.
Il cautissimo Aldo Moro aveva l’abitudine di ripetere: non dobbiamo scegliere il Mediterraneo dal momento che ci siamo in mezzo. E quella che può forse essere considerata la personalità politica e imprenditoriale più propulsiva della prima Repubblica, Enrico Mattei, fu in grado non solo di interloquire con i governi mediorientali, ma anche di contribuire a creare in quei Paesi nuova classe dirigente. Insomma l’Europa che si appresta ad accogliere migrazioni bibliche di immigrati dovrebbe non essere smemorata del proprio passato prossimo.


Le sorprese
Perfino talune rilevazioni circa il Dna di questi Paesi risultano insieme sorprendenti ed istruttive. Nella vicina Tunisia (11 milioni di abitanti) i rilievi sul genoma della popolazione dicono di una popolazione composta per il 15% di arabi, per il 35% di berberi, per il 30% di europei (circa il 25% di italiani) e per il 20% di uomini provenienti dall’Africa Nera e dall’Egitto. Proprio l’impeto delle ultime immigrazioni dovrebbe spingerci a consultare con più attenzione gli studi di Le Goff relativi all’Europa. Furono i geografi greci a consegnare agli uomini del medioevo europeo un bagaglio di cognizioni tuttora attuali. Nel processo di cristianizzazione campeggia ovviamente Sant’Agostino. E prima di lui Girolamo: la sua Bibbia latina si imporrà a tutto il medioevo. Le Confessioni agostiniane risulteranno un modello per la soggettività europea. La Città di Dio, testo scritto dopo il sacco di Roma di Alarico e dei suoi Goti nel 410 -un episodio che aveva terrorizzato le vecchie popolazioni romane e le nuove popolazioni cristiane- dà conto dei timori e del terrore dello spirito del tempo. Dopo Agostino, quelli che potremmo chiamare, sempre con Le Goff, i “fondatori culturali”: Boezio, al quale il medioevo deve tutto quello che saprà di Aristotele fino alla metà del secolo XII. La logica vetus. Quindi Cassiodoro, Isidoro di Siviglia, Beda. Gregorio Magno, il grande riformatore. Con il governo di vescovi e monaci si instaurerà in tutta Europa una nuova misura del tempo e la riorganizzazione dello spazio, tali da tenere in conto le trasformazioni operate da una quotidianità e da una convivenza caratterizzate da meticciati molteplici.
L’Europa dei guerrieri e dei contadini. L’Europa delle molte controversie, a partire da quella intorno all’anno mille come data di partenza della cristianità medievale.
Sono Scandinavi, Ungheresi e Slavi a contribuire a quest’Europa meticcia. Con una pace monitorata dalla Chiesa. Il medioevo dei cosiddetti “secoli bui” è infatti corso da energie che attraversano molteplici accoglienze, vicinanze, confronti. Il villaggio si raccoglie intorno alla chiesa e al cimitero. E sempre il medioevo proverà a rafforzare anche i rapporti tra i vivi e i morti: tra il mondo e l’altro mondo, perché i due mondi si tengono nel vissuto della “comunione dei santi”.
Non tutto è dunque inedito.(Ma bisognerebbe studiare.) E non ci stiamo provando per la prima volta. Quali dunque i compiti di questa Europa?
Secondo Romano Guardini l’Europa ha il compito della critica della potenza. Quest’Europa che ha sul suo volto i segni del passato, ma negli occhi il futuro dell’Angelus di Benjamin.
Tutto concorre a dire, di fronte ai timori xenofobi e ai rigurgiti paurosi delle piccole patrie, che non è logico dimenticare, soprattutto nella stagione della globalizzazione, l’ammonimento minimalista di Jean Monnet: i Paesi europei sono troppo piccoli per garantire ai loro popoli la prosperità e lo sviluppo necessari, e devono costituirsi in una federazione.
Devono cioè tessere la tela di una cittadinanza reale all’altezza di se stessi e della stagione storica attraversata dalle sfide della globalizzazione: vedi caso, il sogno e il progetto di Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli. Aveva anche ragione William Penn: il cittadino per essere tale deve avere di fronte un governo. Vale per gli 82 milioni di tedeschi, i 63 milioni di francesi,i 62 milioni di britannici, i 60 milioni di italiani. E per tutti gli altri.
La strada è tutto sommato segnata. Occorrono la voglia e il coraggio di percorrerla.