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giovedì 22 ottobre 2015

Sulla rappresentanza
di Giovanni Bianchi


Gestire o comunicare?
Stephen Hawking, il più famoso scienziato del mondo, vuoi per essere netto, vuoi per stupire, ha detto in un’intervista: “Credo che la sopravvivenza della specie umana dipenderà dalla sua capacità di vivere in altri luoghi dell’universo, perché il rischio che un disastro distrugga la Terra è grande”.
In effetti intere generazioni già vivono in un mondo che non è più il loro. La mia tra queste. Si tratta dei reduci del Novecento, affaticati da un problema che costituisce il congedo dal secolo alle nostre spalle. Un secolo per il quale sembra più facile la rimozione che il congedo. Le contraddizioni infatti ed anche le aporie del Novecento restano tuttora in attesa del buon scriba in grado di discernere cose buone e cose meno buone. Perché, come ci ha insegnato Le Goff, la storia dipende dalle domande che le rivolgiamo. E una delle domande centrali è quanto sia cambiata la politica.
Surfare – il nuovo verbo coniato dalle giovani sociologhe americane – è infatti la metafora (ovviamente veloce) in grado di dare conto del ritmo e della natura delle politiche in atto. Indica l'atto di chi su una tavoletta sa stare in equilibrio sulle immense onde dell'oceano. Né può ad un reduce del cattolicesimo democratico (il sottoscritto) sfuggire in proposito il riproporsi di alcuni stilemi e qualche reminiscenza (inconscia) di un italico marinettismo di quasi un secolo fa. Ma continuiamo a viaggiare per metafore con l'intento di sistemarle all'interno di un puzzle che aiuti a costruire una improbabile mappa delle politiche odierne e i suoi cartelli indicatori. Volendo quindi dare a ciascuno il suo, è opportuno ricordare che la metafora "società liquida" discende da Zygmunt Bauman. Che alla società liquida corrisponde la politica senza fondamenti (Mario Tronti), populismi ed ex-popoli compresi. E perfino la cosiddetta anti-politica, il cui confine con la politica è da sempre poroso, ossia percorribile nei due sensi: dalla politica all’antipolitica e dall’anti alla politica (Hannah Arendt).
Si può anche utilmente aggiungere che alla società liquida fanno riferimento i partiti "gassosi" (Cacciari) e che ai partiti gassosi corrisponde il dispiegarsi di politiche in confezione pubblicitaria, nel senso che evitano la critica del prodotto da piazzare ed hanno progressivamente sostituito la propaganda politica di un tempo per veicolare il messaggio pubblicitario utile a suscitare non tanto senso di appartenenza, quanto piuttosto un'emozione imparentata con il tifo sportivo (Ilvo Diamanti).
Quel che dunque manca in queste politiche è soprattutto un punto di vista dal quale osservare la realtà, anche se ci imbattiamo in una condizione inedita nella quale i conti prima che con la realtà vanno fatti con la sua rappresentazione. La rappresentazione cioè ha sussunto in sé il mondo intero e le politiche chiamate a descriverlo, e sempre meno a cambiarlo.
Ma sarebbe fuori strada chi pensasse che il problema sia soltanto e essenzialmente teorico. È invece anzitutto, come sempre quando si parla di politica, un problema urgentemente pratico. Ha ragione papa Francesco quando afferma che i fatti valgono più delle idee. Dostoevskij nell’Idiota sostiene a sua volta: "Ci si lamenta di continuo che in questo paese manchino gli uomini pratici. Di politici, invece, ce ne sono molti".
Come sempre l'ironia aiuta e svolge una preliminare funzione abrasiva, anche se è sempre papa Francesco ad avvertirci di evitare l'eccesso diagnostico, perché anche di sola diagnosi si muore. Riusciamo a prescriverci ogni volta, dopo la diagnosi, almeno un'aspirina?
Come affrontare il tema con uno sguardo non congiunturale?
Questa politica ha questa “leggerezza” perché il capitalismo finanziario e consumistico sta portando a termine la trasformazione del mondo come propria rappresentazione: un'operazione impressionante, e comunque da capire. Non ci chiediamo se il Paese sia vivibile (e come) o più giusto, ma come possa essere competitivo e politicamente scalabile. Il cittadino al quale questa politica si rivolge è sempre più un consumatore e come tale vede, ascolta e si comporta. Lo sguardo di una critica puntuale viene così escluso, per cui quello che il Sessantotto chiamava con la grossa Minerva “il sistema”, viene generalmente accettato come naturale, come naturali restano il Cervino e Portofino e Taormina. La politica postmoderna è tale perché anche le ultime radici vengono strappate. Tutta la politica italiana è oramai senza fondamenti, non solo Beppe Grillo e Casaleggio.
Per molti versi la comunicazione ha sostituito la gestione. E la comunicazione deve, in sé e per sé, rendersi attraente per piazzare il prodotto politico che propone. Per questo fa sorridere gli showman odierni un’affermazione come quella di De Gasperi, il nostro più grande statista repubblicano, per il quale un politico dovrebbe promettere ogni volta un po’ meno di quel che è sicuro di mantenere…
Non ci siamo proprio: la comunicazione, che deve stupire, attrarre, motivare, non ha tempo per queste sottigliezze etiche, e quindi ogni volta propone esattamente il contrario di quel che De Gasperi pensava dovesse essere politicamente proposto. Non di rado sfiorando la smemoratezza dell’interlocutore e il voltafaccia di chi propone.

Il suicidio delle culture


Tutto il riformismo col quale ci stiamo confrontando parte dalla confusa consapevolezza di questa condizione, ossia parte da una obiettiva ottica di competitività costretta a considerare immodificabili, grosso modo, le regole del gioco reale. Quelle che stanno dietro la rappresentazione e la determinano.
Le regole del gioco le detta cioè lo statuto vincente del capitalismo globale, finanziario e consumistico. È così, per tutti e dovunque, piaccia o non piaccia. Era così perfino nel Vaticano di papa Benedetto. Prendere una distanza critica rispetto a questo quadro significa "gufare".
Allo stesso modo non esistono più i libri: esistono e-book e instant-book. Non si tratta più di fare pubblicità al libro; il libro vale la pena di essere pubblicato se ha buone possibilità di essere venduto. E tu vendi il libro se sei presente e conosciuto nel mondo pubblicitario. È la pubblicità dell'autore che legittima il libro, non la bellezza delle pagine, e non la statura dell'autore che legittimano la pubblicità e quindi la vendita. È il segno di una "civiltà" e della sua cultura. È la rappresentazione che garantisce la natura del mondo, non viceversa. E più di un esperto si è spinto a dire che la politica è chiamata a governare le emozioni degli elettori, non i problemi dei cittadini. Siamo ancora una volta all'ostracizzato, e da me invece citatissimo, mantra del Manifesto del 1848: Tutto ciò che è solido si dissolve nell'aria. Anzi, si è dissolto. E noi ne contempliamo la rappresentazione. Anzi, la viviamo.
Viviamo tra macerie scintillanti e ologrammi che camminano e manifestano sulla piazza di Madrid. La rappresentazione globale infatti  svela la dissoluzione delle vecchie culture politiche, e quindi le rende inefficaci, zoppicanti, fastidiose al grande pubblico, impresentabili. Nessuno le ha uccise. Ha ragione Toynbee: si sono suicidate. La fine della politica non è ancora decretata, ma ha cessato d'essere un'ipotesi di scuola. Il "primato della politica" è invece defunto, per tutti. Anche se vigorosi reduci in carica paiono non essersene accorti. E la tardiva pietà degli ultimi intellettuali italiani prova ad abbinare nel compianto la tomba della socialdemocrazia con quella del cattolicesimo democratico.
Intorno al primato della politica si raccoglievano tutte le culture del Novecento e tutto l'arco costituzionale del nostro Paese. Tangentopoli più che una corruzione inguardabile è una sepoltura malinconica, che manda l’odore del cadavere di Lazzaro prima della resurrezione. C'è in giro ancora qualche richiamo della foresta, ma le foreste non ci sono più, per nessuno.

Le ragioni della governabilità


Il tema più urgente ma anche più ostico da affrontare è quello della rappresentanza, che non a caso si colloca tra le trasformazioni del sociale e la decadenza delle istituzioni. Un ruolo che diventa drammatico in un Paese come il nostro che vive di emergenze, le quali si succedono a ritmo convulso sull’onda di un lungo e apparentemente placido trasformismo.
Un trasformismo peraltro che non vive soltanto delle proprie inerzie, ma anche di una incredibile capacità di trasformazione: per cui le riforme in qualche modo avvengono, ma costantemente fuori progetto e per così dire fuori programma. Questo impedisce al Paese di uscire definitivamente dalle secche di una navigazione preoccupata e pasticciona, ma nel contempo riesce ad evitare di esporlo a rischi letali. Per questo si è diffusa l’idea che l’Italia ogni volta ricominci la corsa dopo l’ultima Caporetto.
A dirigere il traffico in tanta nebbia e confusione è da ultimo il principio di governabilità. Usato talvolta come una clava, dal momento che la governabilità non è pensata in termini di sviluppo coerente con la democrazia repubblicana, ma viene esercitata ogni volta “a risparmio di democrazia”, producendo di fatto un’antitesi nella polarità governaabilità/democrazia, e quindi diffondendo l’idea tra i cittadini che la democrazia così come è stata fin qui vissuta risulti uno spreco. Anche la vulgata, che racconta che negli ultimi decenni avremmo vissuto troppo al di sopra delle nostre possibilità, contribuisce a riprodurre questa distanza e questa sfiducia nei confronti della democrazia post-resistenziale.
La stessa rimozione di Berlusconi dal governo operata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano muove nella logica e nell’orizzonte di questa governabilità: si rimanda a casa l’incapace Berlusconi, che aveva ottenuto alle elezioni 18 milioni di voti. Il Paese accetta la situazione e anche gli elettori di Forza Italia si ritrovano tutto sommato dentro lo schema che punisce il loro leader: anche il loro cuore batte dalla parte della governabilità – per impulso berlusconiano – piuttosto che da quella della democrazia.
E’ in questo quadro di condivisione di un senso comune che affiora nel Paese e nel suo corpo sociale che si allarga ed emerge quella che è stata chiamata (Emanuele Ferragina) la “maggioranza invisibile”: in termini macro, 4 milioni di precari, 3 milioni di disoccupati, 11 milioni di pensionati. Un tessuto sociale non riconducibile ai classici schemi di classe, ma che rimanda all’estendersi di un tessuto di classe media impoverita, e fortemente impoverita.
I “trenta gloriosi” restano definitivamente alle spalle, mentre nella percezione ideologica e nel senso comune, così come nei programmi scolastici, continua a funzionare l’idea di un progresso e di una promozione sociale così come si presentavano nella stagione del boom economico e nella generalizzazione dell’attesa di una ascesa sociale alla portata dei più.
A questo punto le sociologie asservite alla logica dominante del pensiero unico (che è quella generale del turbocapitalismo globale, che esalta le disuguaglianze, ed è quella in termini sistemici e sottosistemici codificata da Niklas Luhmann) introducono come discriminante, fuorviante, la categoria del giovanilismo. Alla generazione spetta il compito di occultare e legittimare le ragioni economiche delle disuguaglianze crescenti.
Ovviamente, per capirne di più, è necessario accompagnare l’analisi economica e sociologica con quella storica. Fare i conti cioè con la fine del fordismo e con l’avvento in Italia del neoliberismo nel biennio 1990 – 1992. Anni nei quali anche nel nostro Paese l’economia viene sottratta al controllo dello Stato, in sintonia con quanto avviene a livello europeo con il trattato di Maastricht. Dove la logica colpisce con più mirata attenzione è nel mondo del lavoro, quando nel 1997 il cosiddetto “pacchetto Treu” apre più decisamente a una flessibilizzazione del mercato del lavoro, in seguito perfezionata dalla legge Biagi, che potrebbe essere anche firmata come legge Sacconi.
Rispetto a queste scelte decisamente strutturali, i governi, i loro programmi, le campagne pubblicitarie hanno il compito di intrattenere la platea dei cittadini- consumatori (sempre più consumatori e sempre meno cittadini) proponendo loro le coperture legittimatrici della democrazia mediatica. Nel frattempo hanno luogo le esequie silenziose della socialdemocrazia e del suo analogo cattolico-democratico. Entrano in agonia  i sindacati, che scelgono l’arrocco: difendere cioè chi ha la tessera – la maggioranza pensionati – rispetto a quanti cercano di sopravvivere, ovviamente giovani, nel mare infido dei diversi precariati.
È infatti a partire dagli anni Novanta che le classi medie vedono aprirsi al loro interno una divaricazione: una piccola parte si accoda ai ceti più ricchi, mentre la gran parte si impoverisce, diventando limitrofa a quelle che papa Francesco definirà “periferie esistenziali”. Sopra tutto questo prova a stendere un velo pietoso e pubblicitario la “terza via” blairiana, che anche tra noi trova estimatori e seguaci. È questa condizione che viene rappresentata elettoralmente dalle elezioni  del 2013, con il 56% dei precari che votano Grillo. E infatti la performance renziana non va oltre il numero di voti assoluti conquistati da Walter Veltroni in gara con Berlusconi. È questa una rapida fotografia che ci consegna il problema di come pensare una politica in grado di ricostituire le ragioni di una rappresentanza democratica.

Il tema del potere

Una ricerca che non dovrebbe essere fatta a prescindere dal ruolo del potere: dove sta, e come può essere affrontato. Dov’è finito il potere e dove è finita la democrazia.
Bisognerà tornare sull’argomento con gli strumenti della teologia politica tedesca, assai più raffinati di quelli italiani. Per ora è utile osservare che la fine dei partiti distrugge in Italia la figura del “militante politico”, cui si sostituisce progressivamente il “volontario”. E le crisi che non a caso attraversano in questa fase il mondo del volontariato possono insieme alludere ai suoi rischi di decadenza, come ad inedite potenzialità di sviluppo.
Può servire la metafora riassuntiva proposta da papa Bergoglio nell’enciclica Laudato Si’: la metafora della casa comune, che raccoglie e supera quella dei beni comuni. Fare casa comune
 –pare suggerire la logica del Papa– è possibile a partire dalle periferie esistenziali, confrontandosi con le lobby di potere. Non è una sostituzione del Cristo povero al Cristo eterno, né significa procedere sulla strada dell’immanentizzazione del cristianesimo: la via per giungere al Cristo eterno è quella del Cristo povero. I Vangeli sono univoci in tal senso, e Simone Weil non a caso ricordava che  questa  terra è l’unico luogo che ci è dato per la nostra testimonianza.

I conti con il cattolicesimo democratico


Dopo questa ricognizione troppo rapida diventa possibile rifare i conti con passato e futuro del cattolicesimo democratico. A partire da una discontinuità: quella prodotta da papa Francesco, che indica il superamento concreto della dicotomia, già accennata, tra il Cristo povero e il Cristo eterno. Siamo cioè ricondotti alla parabola del Buon Samaritano (Luca 10, 25-37). Un programma stilato duemila anni fa. Il dilemma, che non è soltanto di Eugenio Scalfari, verte sul rapporto tra cristianesimo e  illuminismo. In nome di esso ci si chiede se sia “politico” papa Francesco, e se lo sia in particolare quando si batte contro il potere temporale della Chiesa. Torna utile ribadire che politica e potere non coincidono. Emanuele Severino è stato il più preciso in Italia: non noi riprendiamo il potere, ma i poteri prendono noi.
Va ancora ribadito che il confine tra politico e  impolitico è un confine poroso, ossia attraversabile nei due sensi: ciò che è politico può diventare impolitico, e ciò che è anti può diventare politico (Hannah Arendt).  Rispunta il grande Hegel: sempre la politica nasce da quel che politico non è. Insomma, siamo comunque confrontati, in particolare con le posizioni di papa Francesco, con il problema di una nuova laicità. Non soltanto perché Chiesa e Stato si contendono da tempo lo spazio della coscienza e quello pubblico, ma soprattutto perché sono le condizioni della quotidianità a spostare il confine.
Anche in questo caso lo sguardo storico può aiutare. Quando e su che cosa il mondo cattolico rompe con il fascismo? Sulle leggi razziali e sul primato educativo: la Chiesa cattolica finalmente si schiera e prende le distanze da una deriva, anche interna, che aveva fin lì equivocato sui Patti Lateranensi. Magistrale in questo senso l’intervento sulla cultura democratica e l’opinione cattolica svolto da Dossetti nel “testamento” di Pordenone del 2004.
Si tratta di valutare seriamente, e perfino nei dettagli, l’utilità della tradizione cattolico democratica in vista della creazione di un nuovo “punto di vista”; un punto di vista che può anche implicare un patto generazionale tra antichi reduci e nuovi politici.
Giorgio Campanini nella sua diagnosi prova a legittimare la lunga marcia del cattolicesimo democratico verso sinistra, a partire dagli abbès démocrates francesi e da Tocqueville. Non omette Campanini di menzionare i radiomessaggi di Pio XII e la solerte e intelligente divulgazione fattane da Guido Gonella. Indi il Codice di Camaldoli e la Costituzione Repubblicana, la tragedia di Aldo Moro, la permanente esclusione del Pci dal potere.
Si tratta cioè di “non solo riconoscere, ma lealmente rispettare le diversità senza demonizzare le differenze”.
Per Guido Formigoni si tratta anzitutto di precisare i termini, di rivalutare il ruolo della Dc insieme all’impegno sociale e politico dei credenti, senza ridurre il cattolicesimo democratico a un piccolo gruppo di intellettuali autodefinitisi tali. Così pure non vanno dimenticati gli sforzi di rinnovamento e le metamorfosi della Democrazia Cristiana, la “ricomposizione” proposta da padre Bartolomeo Sorge dell’area cattolica, la fine del cosiddetto prepolitico, Le numerose riviste prodotte da gruppi intellettuali differenziati, il cattolicesimo sociale “radicalizzato sulle questioni della pace e della povertà”. Si aggiungano la grande esperienza nazionale dell’Ulivo e la fondazione del PD (2007). Quindi il ruolo dello ruinismo e la  controffensiva nei confronti della secolarizzazione operata dal Papa polacco, mentre i vescovi italiani assumevano in proprio il compito della mediazione. Per Pier Luigi Castagnetti si tratta di porsi coraggiosamente la domanda se abbia ancora un senso parlare di cattolicesimo democratico. In particolare quando ci si confronta con questi partiti à la carte. Sempre secondo Castagnetti: “Non si può parlare dunque della dissipazione di un’esperienza, ma della avvenuta re-invenzione di una modalità di presenza in un tempo storico profondamente cambiato”. Per la storica Daniela Saresella non va dimenticato nella ricostruzione storica che il primo cattolico democratico si chiama Romolo Murri, scomunicato prima come modernista e poi personalmente (1909). E quindi eletto nelle liste del  Partito Radicale. Né vanno omessi i dialoghi Murri/ Turati. L’attenzione per la questione sociale e il mondo socialista, che pone con forza la questione della laicità. Lo stesso Luigi Sturzo scrive sulle riviste di Murri. Murri poi diventa fascista confondendo il proprio itinerario spirituale con quello del fascismo. Neppure vanno consegnate all’oblio polemiche più recenti come quelle sul referendum del 1974, e quelle successive condotte dagli organi di stampa di CL con gli articoli di Fontolan e Socci. Il 1980 è l’anno dell’uccisione di Piersanti Mattarella, mentre il 1990 vede il siciliano Leoluca Orlando  fondare la Rete. L’equivoco persistente è rappresentato dall’unità politica dei cattolici. Ragione per la quale l’Ulivo risulta la migliore esperienza del cattolicesimo democratico. Secondo Savino Pezzotta va dedicata maggiore attenzione alla riflessione sull’economia odierna. Come pure va ricordato che il cristianesimo è il generatore della secolarizzazione, non l’altro rispetto alla secolarizzazione medesima.
Frattanto il governo è diventato l’unico miraggio comune a tutte le  culture del fare politica. Ad essere conseguentemente abbandonata  la tensione alla rappresentanza. Circostanza che obbliga a interrogarsi sulla natura dei processi democratici nazionali.
Mentre è finito il tempo dei movimenti, la politica sindacale si è trasformata in politica di adattamento alla fase. Ci imbattiamo in una grande indifferenza rispetto al tema delle disuguaglianze. Per cui il problema diventa sempre più come resistere alla mercatizzazione della società, che è anche mercatizzazione del lavoro. Nel quadro di un capitalismo che è sempre più cognitivo che economico. E senza dimenticare che distruggere il sindacato significa comunque distruggere un modello di società. Come pure intervenire con il piccone su quei “corpi intermedi” – secondo il lessico della dottrina sociale della Chiesa – che risultano soggetti mutevoli ma non eliminabili della partecipazione dal basso e garanzia di sussidiarietà. Dobbiamo anche chiederci se sia possibile parlare di ispirazione cristiana in una società multietnica e multireligiosa.

Ritorna il tema del che fare. E probabilmente sarà utile cominciare a fare le “piccole cose”.