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domenica 14 febbraio 2016

CIBO PER LA MENTE
L’estate è già finita.
Un racconto di Vito Calabrese
illustrato da Adamo Camabrese
Ultima parte

(per Ilaria)

Bruno aveva concluso la visita di controllo ai due fratelli, che erano ospitati, nascosti, presso il suo studio medico. Era passata una settimana dall’incidente in quella orribile notte. I ragazzi si erano ripresi. Lei ha un nome esotico, si chiama Zema, che significa melodia, e soffre disperatamente nell’animo per l’abuso subito. Lui, Abebe, non aveva fortunatamente niente di rotto e gli ematomi dovuti alle percosse si stavano riassorbendo. Il medico si era consultato col suo amico, don Pepe, un prete di una parrocchia nella periferia di Lecce, dove era riuscito a promuovere un soccorso di strada
per i diseredati, i drogati, gli afflitti e i migranti sbandati. Un miracolo nel deserto dell’indifferenza. Bruno collaborava visitando e curando gratis quella gente disgraziata.
“Bruno, ci sei?” risuona la voce calma di don Pepe nel telefonino del dottore.
“Don Pepe, che piacere sentirti. Ci sono, ci sono sempre per te.”
“Ho trovato il modo di aiutare i tuoi ragazzi. Li mandiamo su a Milano. Mi sono ricordato di un amico, o meglio, di un prete che è per me un riferimento, e, dopo tante collaborazioni, adesso possiamo dirci amici.”
“Interessante. E chi sarebbe questo fantastico personaggio?”
“Hai mai sentito parlare della Casa della Carità a Milano?
“Non la conosco. Il tuo prete lavora lì?”
“Sì. Don Roberto è il direttore della Casa che è diventato un modello per tutti quelli che
cercano soluzioni di pace e di carità in questo paese disastrato spiritualmente.”
“E …”
“Si può fare. Don Roberto li riceverà e li assisterà per il periodo necessario a capire quale iniziativa sia giusta per loro, incluso l’uscita dalla clandestinità.”
“Forte! Ma chi è quest’uomo?”
“Forse potrai conoscerlo, anzi sicuramente lo potrai incontrare se deciderai di accompagnare i ragazzi a Milano. Può essere un’occasione per un viaggio con Fiammetta. Freccia Rossa, Expo. Che ne dici?”
Bruno ha chiuso la telefonata e sorride. Il suo amico sa sempre sorprenderlo e non sbaglia quasi mai. Milano, ma sì, merita un viaggio che può essere la salvezza per i due fratelli. Milano può anche diventare la meta per una breve vacanza con Fiammetta, dopo aver lasciato in buone mani i suoi protetti.

A Milano piove in questa mattina di settembre. Le strade sono lucide e le pozze si allargano vicino ai tombini. Le auto sollevano spruzzi che sembrano onde da surf, innaffiando i marciapiedi e quei pochi pedoni che vi si avventurano. Bruno segue le indicazioni del navigatore che indica perentoriamente le svolte, camuffando la sua rigidità con una voce metallica femminile. Fiammetta segue le manovre del marito con una certa apprensione, il traffico è sostenuto e la pioggia complica la situazione. I due
fratelli osservano silenziosi dal sedile posteriore.
“Svoltate a destra, tra duecento metri siete arrivati a destinazione.” La voce implacabile della sconosciuta navigatrice conclude la sua sessione. L’auto imbocca via Brambilla e sulla destra si vede un grande edificio pitturato di giallo. Una volta doveva essere un’officina. Ora è la sede della Casa della Carità.
Il gruppetto entra in quella che sembra una hall e Bruno cerca una portineria, una reception. Sulla sinistra c’è uno sportello, un posto informazioni, ma la postazione è vuota. Salgono alcuni gradini e s’incamminano lungo un corridoio, sulle cui pareti sono allineati grandi manifesti di convegni e fotografie di qualche ospite. I ragazzi si guardano in giro un po’ intimoriti finché, sulla soglia di un salone, s’imbattono in una coppia, forse arabi, che li fermano.
“Chi cercare?” chiede quello più pronto.
“Stiamo cercando don Roberto. All’ingresso non c’era nessuno.” Risponde Bruno.
“Oggi meeting in Comune, don Roberto là.”
“Chi lo sostituisce? “C’è un assistente? Un operatore? Con chi possiamo parlare?”
“Venire con me. Andare da Katerina.”
I due ospiti ci scortano su per le scale fino ad un locale dove, seduta dietro un computer, c’è una donna robusta, capelli striati di bianco, una felpa viola sulle spalle, che alza il viso, li guarda da sopra gli occhialetti a mezze lenti e sorride.
“Lei Katerina” così la indicano i due ospiti che poi si allontanano.
“Buongiorno. Chi cercate?” interviene Katerina.
“Buongiorno – si affretta a rispondere Fiammetta che fa un passo avanti costringendo il marito a lasciarle l’iniziativa – noi siamo venuti da Lecce, indirizzati qui da don Pepe.”
La donna la osserva interessata ma è evidente che finora le informazioni date da Fiammetta non la aiutano ad inquadrarli.
“Ok. Non so chi sia don Pepe …”
“E’ un amico di don Roberto. I due si sono accordati per farci arrivare qui. Abbiamo bisogno di asilo per …”. Fiammetta si gira e lascia spazio così che Katerina possa vedere i due ragazzi, che si stringono fianco a fianco, intimiditi.
“Non intendevo mettere in discussione gli eventuali accordi di don Roberto, vi chiedo
cosa vi aspettate ora …”
“Noi abbiamo aiutato questi due profughi finché è stato possibile farlo laggiù e speriamo di trovare asilo qui da voi, almeno per un periodo sufficiente a renderli autonomi.”
La signora si liscia il mento, si alza, lascia la scrivania e viene a salutare, porgendo la mano.
“Intanto mi presento: io sono Katerina, mi occupo dell’amministrazione della Casa.”
Stringe la mano a Fiammetta che ricambia e fa le presentazioni di tutto il gruppo.
Katerina  accompagna gli ospiti in una sala dove c’è un bancone con la macchinetta del caffè, prendono posto ad un tavolo, lei offre caffè e acqua, mentre si fa raccontare succintamente la storia e il motivo della loro venuta a Milano. Katerina è pensierosa e sembra anche imbarazzata. Chissà quante storie come quella dei due fratelli ha già sentito raccontare. Non c’è niente di nuovo o di straordinario in questi avvenimenti per operatori come loro, che vivono nella tempesta quotidiana delle disgrazie provocate dalle migrazioni forzate dalle guerre.
“Ormai è ora di pranzo. Vi posso invitare alla nostra mensa, siete benvenuti.” Un sorriso si apre sul volto di Fiammetta che aveva cominciato a dubitare, interpretando al peggio le espressioni della faccia di Katerina.
“Ma, devo essere onesta, io non ho nessuna prenotazione per loro -e indica i due ragazzi che abbassano gli occhi- e questo non sarebbe così importante se non fosse che la struttura è già completa.”
“Non c’è posto?” una voce quasi strozzata esce dalla bocca di Bruno.
“Siamo pieni. Mi dispiace. Comunque se volete aspettare don Roberto … quando tornerà dall’incontro in Comune …”
Fiammetta è rimasta senza parole, Bruno è incazzato e sta borbottando maledizioni. I due ragazzi si tengono per mano e i loro sguardi mostrano la sofferenza che continua ad accompagnarli, senza tregua. Fiammetta manda un messaggio deluso a don Pepe. Bruno ha accettato di pranzare alla loro mensa, almeno quello, poi sono ripartiti dopo essersi fatti dare un paio d’indirizzi dove cercare appoggio
“Pronto”
“Fiammetta sono don Pepe, ciao.” – la voce dell’amico è decisa e affettuosa.
“Allora, che mi dici? Ci sono buone nuove?”
“Eccome! Sono riuscito a parlare con don Roberto. È dispiaciuto per quello che vi è capitato stamane…”
“Ok, anche noi, e dopo?”
“Mi ha confermato che lui si occuperà dei due fratelli nella Casa. Dovete tornare là. Vi aspetta.”
“Sei sicuro? Non fare scherzi. Questi ragazzi non reggerebbero un’altra delusione.”
“Vai tranquilla. Girate la macchina e tornate alla Casa. Ciao.”
Quando Fiammetta chiude la telefonata gli altri hanno già capito e l’assaltano con domande e richieste di chiarimenti che lei non è in grado di fornire. Bruno ha già invertito la marcia dell’auto e sta tornando più velocemente che può verso la Casa. Questa volta la portineria della casa è presidiata e quando il gruppetto si presenta, il giovane nero che li accoglie, chiama don Roberto. Passano pochi minuti e il prete gli si fa incontro, allargando le braccia, scuotendo la grossa testa quadrata e chiedendo scusa per il contrattempo. Katerina non era stata informata e questo aveva causato lo spiacevole contrattempo.
I ragazzi osservano increduli quel macigno di uomo che ora li ascolta, li incoraggia. Nel frattempo si è avvicinata una ragazza, alta, bionda, capelli corti, un paio di occhiali dalla montatura blu e uno sguardo acuto.
“Questa è Anna. Sarà la vostra partner per i primi tempi. -don Roberto si rivolge ai due fratelli- Imparerete con lei a conoscere la Casa, i suoi orari, il metodo di lavoro. Sarà la vostra interprete, vi aiuterà a capire la nostra lingua. Farete del lavoro nella Casa, perché tutti devono contribuire al suo funzionamento.”
“We have no passport … clandestini … and police? …” si anima Zema, che ha seguito attentamente le parole del prete.
“No, voi siete profughi. È diverso. No problem con police. Vi aiuteremo. Fidatevi di Anna.
Anna li accompagna in una cameretta dove potranno restare finché non avranno trovato la via giusta per continuare a vivere come esseri umani in questo mondo che si sta imbarbarendo.
I due coniugi sono disarmati davanti alla prontezza e alla misericordia che emana dalla figura del prete. Se ne vanno dopo aver augurato la buonanotte ai ragazzi. C’è l’impegno di rivedersi l’indomani. Adesso la strada verso l’albergo sembra una passeggiata. Ha smesso di piovere.



Mercoledì. Ilaria si avvia alla fermata del tram, dopo aver lasciato le compagne, promettendo di ritrovarsi nel primo pomeriggio sul social network Ilaria è in piedi sulla banchina della fermata, aspettando il 4. Alza la testa, all’incrocio che immette sulla piazza della Ca’ Granda il semaforo è verde. Ha un sussulto. Quella figura che l’ha superata, due passi più in là, e si è inoltrata nella piazza, ha qualcosa di conosciuto. Si alza sulle punte, osserva con attenzione. Quella ragazza, lei l’ha già
incontrata, in un altro posto che non era Milano. Chi sarà? Arriva il tram n 4, scampanellando. Non ci voleva, rischia di perderla di vista. Decide di non salire sul tram. Lo oltrepassa, si butta in mezzo all’incrocio rischiando un urto con le auto che passano, freni che stridono, parolacce che volano dai finestrini abbassati. Corre sulla piazza. Si avvicina alla grande vetrata della portineria, guarda attraverso e lì, davanti al bancone delle informazioni, la vede. La osserva con attenzione: chi può essere? La ragazza, una nera con le treccine attaccate alla testa, vestita con una felpa scura e un
paio di jeans a gamba corta, si gira come se sentisse il suo sguardo insistente. E’ lei. La ragazza della spiaggia che scappava insieme al fratello. Come si chiama? L’altra continua a fissarla di là dal vetro. Probabilmente stanno ripescando dalla memoria gli stessi ricordi. Ilaria ha deciso. Alza la mano per salutare e le grida: “Ehi! Ti ricordi?” Si lancia attraverso la porta spalancata, l’altra si scosta dal bancone e fa un passo titubante verso di lei.
“Sono Ilaria, ci siamo incontrate in Puglia al mare, sulla spiaggia. Lo sbarco, la capanna”
“Sì … sì. È vero. Sei tu?”
“Sono io. E tu … non mi ricordo il tuo nome?”
“Zema. Ero con mio fratello Abebe.”
“Sono contenta di vederti. Hai imparato l’italiano. Sai che vi ho cercato anche in Liguria, senza trovarvi.”
“E’ stato difficile e complicato. Una brutta storia che è finita bene.”
“Dove stai a Milano? Hai trovato un alloggio …”
“Sto alla Casa della Carità, per ora, insieme a mio fratello.”
“Cosa fai qui, all’ospedale di Niguarda? Non stai bene?”
“Devo fare dei controlli dopo l’incidente …”
“Un incidente? Ma ora mi sembri a posto … o mi sbaglio?”
Zema è silenziosa, titubante. Ilaria le tocca la mano e le accarezza il viso.
“Ho subito uno stupro laggiù e Abebe è stato picchiato duramente.” Zema ha parlato sottovoce, quasi in un soffio. Il dolore l’ha indurita. Ilaria resta a bocca aperta. Non parla. È rimasta traumatizzata dall’annuncio della ragazza. Le stringe le mani.
“Chi è stato?”
“Non lo so. Ho solo dei ricordi strappati, come flash in una tempesta. Dovevano essere almeno tre. Due mi tenevano e l’altro mi stuprava, con violenza. Mi hanno coperto la testa con un giubbotto. Abebe è stato bastonato e legato ad un albero.
“No!? … Mi viene da piangere, scusa, sono arrabbiata per quello che ti è successo. Dobbiamo denunciarli.” - Lei è già un tutt’uno con Zema. - “Erano italiani?”
“Non c’è dubbio.”
“Schifosi. Bisogna prenderli.”
“Impossibile.”
“Perché non vuoi denunciarli? Io li vorrei sbattere in galera per tutta la vita.”
“Sono ancora clandestina. Come posso denunciarli. Ormai è passato. Non mi interessa la vendetta. Cerco un futuro migliore, anche se di poco. Perché non potrei vivere come te? Voglio la mia vita.”
“Hai ragione. Voglio essere tua amica. Qui a Milano. Ti voglio aiutare.”
Zema la invita ad aspettarla e ottiene le informazioni dalla signora, che aveva ascoltato tutto e la guardava sorpresa. Ilaria ha deciso di accompagnarla dentro l’ospedale. Zema le racconta i vari episodi, continuamente interrotta da Ilaria, che partecipa come se l’incidente fosse accaduto a lei.
“Sono rimasta incinta.”
“Ah, e adesso?”
“Poi l’ho perso.”
“Ah, e adesso?”
“Ho fatto un raschiamento e adesso devo fare i controlli.”
Ilaria abbraccia Zema e le parla accorata. Le due ragazze restano abbracciate finché l’infermiera dell’ambulatorio di ginecologia chiama il suo numero.
“Vai. Ti aspetto.”

Ilaria ha incontrato Zema all’uscita della stazione MM Loreto. Zema era allacciata al palo con l’insegna della Metro e controllava l’uscita. C’era un fiume di gente che saliva dalla bocca della Metro. Piazza Loreto si stava riempiendo. Ilaria teneva per mano Giada e Angela, le sue compagne che avevano accettato di venire in manifestazione. Si abbracciano con Zema e suo fratello Abebe, che la segue come un’ombra. Assieme a loro c’è un gruppo della Casa della Carità, saranno almeno una trentina, ragazzi che vengono dai paesi più martoriati dell’Africa.
“Ciao, ragazze, ci siamo. Avete visto quanta gente! È uno spettacolo meraviglioso.” Zema parla con entusiasmo al gruppo di amiche che si è formato attorno a lei.
“Doveva venire anche Max con i suoi amici ma non li vedo. Guai a lui, se ci fa il bidone.”
Commenta Ilaria un po’ svagata.
“Chiamalo, cercalo sul telefonino.” Le suggerisce Angela. La rete è sovraccarica. Le chiamate non passano. C’è troppa gente in piazzale Loreto che cerca di telefonare. Ilaria viene trascinata dalle compagne, ma lei continua a guardare in giro nella speranza d’incrociare lo sguardo di Max.
L’iniziativa era nata quindici giorni prima da una chiamata di Zema. Le aveva proposto di partecipare alla marcia dei migranti che si stava organizzando a Milano ed in altre città italiane. Lo scopo era sollecitare il governo a produrre una politica che risolvesse le situazioni penose di questo popolo fantasma. Le parole d’ordine riguardavano i permessi di soggiorno, un’accoglienza più umana con la chiusura dei CIE, i corridoi umanitari per i profughi, una politica europea di asilo. Ilaria aveva rilanciato l’iniziativa in classe e, aiutata da Max e Angela, era riuscita a mobilitare mezza classe.
Adesso era avvolta nella folla colorata dei migranti e dei profughi che innalzavano striscioni e provavano ritornelli di canzoni. Un sabato pomeriggio di fine ottobre, una bella e serena giornata autunnale, una cornice perfetta per quella festa di popolo.
Una mano la strattona da dietro. Si gira e si ritrova faccia a faccia con Max. Lei si apre in un sorriso che parte dagli occhi e finisce sulle labbra che tremano. “Max. Ci sei. Sei venuto!” – gli salta al collo e si fa abbracciare, facilitata dalla stretta dei manifestanti che spingono da tutte le parti. La testa del corteo si è incamminata su corso Buenos Aires. Il furgone, addobbato con gli striscioni e le bandiere della pace, scandisce con l’altoparlante le parole d’ordine. Sui lati del corteo, un cordone di ragazzi allacciati per mano cerca di garantire un simulacro di servizio d’ordine. Gira la voce che ci siano degli infiltrati e che potrebbero scoppiare dei disordini. Ilaria e i suoi compagni sono in mezzo al corteo, molto colorato, e cantano a squarciagola i motivi lanciati dall’altoparlante gracchiante.
Zema si sbraccia, va avanti, rientra, parla, discute, insomma ha un attivismo incredibile.
Ilaria vuole allacciarla con la mano nella lunga fila orizzontale che attraversa ora piazza Lima. I passanti, quelli che scendono a Milano per lo shopping del sabato, osservano dai marciapiedi un po’ intimoriti. Si vedono anche molti ragazzi che salutano e alcuni chiedono di entrare nel corteo. Il servizio d’ordine ondeggia.
“Occhio ai provocatori.” – si alza una voce da dietro. Il servizio d’ordine si richiude e respinge, cortesemente ma in modo fermo, chi non ha qualcuno che lo possa chiamare dentro.
All’altezza di viale Tunisia la coda del corteo viene scossa da un folto gruppo che si butta compatto contro il fianco destro per sfondarlo e separarlo dal corpo principale della manifestazione. Si sentono scoppiare dei petardi. Si alza l’urlo di una sirena e un boato di voci concitate scoppia sopra le teste dei ragazzi. L’altoparlante chiede al corteo di cambiare marcia e di attraversare di corsa Porta Venezia, tenendosi per mano. Sul fondo dello stesso, il servizio d’ordine cerca di respingere l’attacco dei militanti di Forza Nuova, i fascisti. Ilaria ha il cuore in gola, stringe le mani dei compagni, comincia a correre. Il corteo diventa un’onda, come il mare, s’allunga e si ritrae. Lo stress è forte. Lei lancia occhiate impaurite dietro le spalle, dove si sentono scoppiare botti e sale un nembo di fumo nero.
“Correte, state insieme, tenetevi per mano. I fascisti ci hanno attaccato ma il nostro servizio d’ordine li ha respinti. Manteniamo la calma. Cantiamo assieme il ritornello del Clandestino e corriamo sul ritmo della musica.”
Le note del Clandestino escono strombazzate dall’altoparlante. La musica è come un’iniezione di fiducia. Il corteo si ricompone pur continuando a correre. Si alza il coro, sempre più avvolgente e intonato, che esplode nei pressi di San Babila con un canto potente da far tremare i polsi.
Ora il corteo si è fermato nella piazza, aspettando che rientrino gli spezzoni lacerati dalla rissa, attardati dopo l’attacco dei fascisti, e la canzone del Clandestino rimbomba sui palazzi che circondano la piazza. Ilaria, allacciata a Zema e Max, canta a voce piena, coi capelli sudati appiccicati alla fronte, il petto che si alza affannoso, i piedi che ballano sull’asfalto, le orecchie piene della musica che sta travolgendo tutti: Il mio destino è correre, per eludere la legge, Perso nel cuore, Della grande Babilonia, Mi chiamano clandestino, Perché non ho documenti. In una città del nord, andai a lavorare, La mia vita la lasciai, Tra Ceuta e Gibilterra, Sono un confine nel mare, Un fantasma nella città, La mia vita va proibita, Dice l’autorità.
Il corteo sta danzando nella piazza mentre la testa s’infila in corso Vittorio Emanuele. L’altoparlante gracchia dal furgone che avanza lentamente, sembra che ci siano più di diecimila partecipanti, e lancia l’invito a togliersi le scarpe, un segno di condivisione della condizione dei migranti.
“Marciamo fino a piazza del Duomo a piedi scalzi. Siamo donne e uomini scalzi che marciano per difendere l’umanità dei migranti e clandestini.”
Il corteo ondeggia, le persone si piegano, si siedono, si appoggiano a terra per togliersi le scarpe, le sfilano, si rialzano e le sollevano sopra le teste, sventolandole come vessilli. Ilaria, Zema e gli amici hanno fatto lo stesso. Ridono e sventolano le loro scarpe continuando a cantare il Clandestino.
Il corteo è sfociato in piazza Duomo. Il popolo dei migranti e dei loro amici sfila verso il centro della piazza. Le grandi porte di bronzo del portale centrale si aprono. La musica dell’organo invade la piazza. Le teste del corteo si girano, il corteo stesso fa una inversione e si avvicina lentamente al sagrato. Un altro corteo, diverso, composto, dignitoso, orante, si spande sul sagrato e lascia passare nel mezzo una punta colorata di prelati in grande uniforme. Il coro canta il Magnificat e il cardinale si avvicina all’orlo del sagrato, dove si ferma e con un gesto ampio saluta i manifestanti.
A guardar bene, quella figura lunga e allampanata, con lo zucchetto rosso in testa, non è il cardinale. Forse il cardinale ha il raffreddore e la tosse. Queste non sono cose da cardinali o no? Invece questo vecchietto smilzo, arzillo e sorridente, si rivolge alla folla stendendo le braccia come se volesse abbracciarli tutti. Un sussurro della folla attenta si amplia in un rumore incredibile, un battimani, un
applauso, che suggella la sorpresa e la felicità di vedere il vescovo fraternizzare con loro.
È un grande gesto di misericordia.
Un rappresentante dei migranti sale gli scalini, s’inchina e consegna una lettera, una petizione al vescovo. Lui l’accoglie e invita tutti a pregare, come ognuno sa fare, per la pace. La folla si zittisce, le teste s’inchinano e il vescovo, dopo aver esortato a non perdere la speranza, benedice tutti, credenti e miscredenti; una benedizione non può far male. Zema si è stretta ad Ilaria e piange silenziosamente.
“Perché piangi? Le chiede l’amica.
“Finalmente un momento di serenità. Tremo per domani ma adesso sono felice.”
“Anch’io” Ilaria ricambia teneramente l’abbraccio. La folla si sgrana, si disperde sulla piazza. Gli amici si avvicinano a Zema e Abebe. I ragazzi si scambiano i numeri di telefono, fanno foto e promettono incontri e appuntamenti.
“Milano. Amo questa città. Vorrei restare qui. Sarà possibile?” chiede sorridendo Zema al nuovo gruppo di amici. Questi si fanno sotto, prendono in braccio i due fratelli alzandoli sulle spalle, e li
lanciano in aria.
Milan, l'è on gran Milan!