CIBO PER LA MENTE
L’estate è già finita.
Un racconto di
Vito Calabrese
illustrato da Adamo Camabrese
illustrato da Adamo Camabrese
Ultima parte
(per Ilaria)
Bruno aveva concluso la visita di controllo ai due
fratelli, che erano ospitati, nascosti, presso il suo studio medico. Era passata una settimana
dall’incidente in quella orribile notte. I ragazzi si erano ripresi. Lei ha un nome
esotico, si chiama Zema, che significa melodia, e soffre disperatamente nell’animo per l’abuso
subito. Lui, Abebe, non aveva fortunatamente niente di rotto e gli ematomi dovuti alle
percosse si stavano riassorbendo. Il medico si era consultato col suo amico,
don Pepe, un prete di una parrocchia nella periferia di Lecce, dove era riuscito a
promuovere un soccorso di strada
per i diseredati, i drogati, gli afflitti e i migranti
sbandati. Un miracolo nel deserto dell’indifferenza. Bruno collaborava visitando e curando
gratis quella gente disgraziata.
“Bruno, ci sei?” risuona la voce calma di don Pepe nel
telefonino del dottore.
“Don Pepe, che piacere sentirti. Ci sono, ci sono sempre
per te.”
“Ho trovato il modo di aiutare i tuoi ragazzi. Li
mandiamo su a Milano. Mi sono ricordato di un amico, o meglio, di un prete che è per me un
riferimento, e, dopo tante collaborazioni, adesso possiamo dirci amici.”
“Interessante. E chi sarebbe questo fantastico
personaggio?”
“Hai mai sentito parlare della Casa della Carità a
Milano?
“Non la conosco. Il tuo prete lavora lì?”
“Sì. Don Roberto è il direttore della Casa che è
diventato un modello per tutti quelli che
cercano soluzioni di pace e di carità in questo paese
disastrato spiritualmente.”
“E …”
“Si può fare. Don Roberto li riceverà e li assisterà per
il periodo necessario a capire quale iniziativa sia giusta per loro, incluso l’uscita dalla
clandestinità.”
“Forte! Ma chi è quest’uomo?”
“Forse potrai conoscerlo, anzi sicuramente lo potrai
incontrare se deciderai di accompagnare i ragazzi a Milano. Può essere un’occasione
per un viaggio con Fiammetta. Freccia Rossa, Expo. Che ne dici?”
Bruno ha chiuso la telefonata e sorride. Il suo amico sa
sempre sorprenderlo e non sbaglia quasi mai. Milano, ma sì, merita un viaggio che
può essere la salvezza per i due fratelli. Milano può anche diventare la meta per una
breve vacanza con Fiammetta, dopo aver lasciato in buone mani i suoi protetti.
A Milano piove in questa mattina di settembre. Le strade
sono lucide e le pozze si allargano vicino ai tombini. Le auto sollevano spruzzi
che sembrano onde da surf, innaffiando i marciapiedi e quei pochi pedoni che vi si
avventurano. Bruno segue le indicazioni del navigatore che indica perentoriamente le
svolte, camuffando la sua rigidità con una voce metallica femminile. Fiammetta
segue le manovre del marito con una certa apprensione, il traffico è sostenuto e la
pioggia complica la situazione. I due
fratelli osservano silenziosi dal sedile posteriore.
“Svoltate a destra, tra duecento metri siete arrivati a
destinazione.” La voce implacabile della sconosciuta navigatrice conclude la sua sessione.
L’auto imbocca via Brambilla e sulla destra si vede un grande edificio pitturato di
giallo. Una volta doveva essere un’officina. Ora è la sede della Casa della Carità.
Il gruppetto entra in quella che sembra una hall e Bruno
cerca una portineria, una reception. Sulla sinistra c’è uno sportello, un posto
informazioni, ma la postazione è vuota. Salgono alcuni gradini e s’incamminano lungo un
corridoio, sulle cui pareti sono allineati grandi manifesti di convegni e fotografie di
qualche ospite. I ragazzi si guardano in giro un po’ intimoriti finché, sulla soglia di un
salone, s’imbattono in una coppia, forse arabi, che li fermano.
“Chi cercare?” chiede quello più pronto.
“Stiamo cercando don Roberto. All’ingresso non c’era
nessuno.” Risponde Bruno.
“Oggi meeting in Comune, don Roberto là.”
“Chi lo sostituisce? “C’è un assistente? Un operatore?
Con chi possiamo parlare?”
“Venire con me. Andare da Katerina.”
I due ospiti ci scortano su per le scale fino ad un
locale dove, seduta dietro un computer, c’è una donna robusta, capelli striati di bianco, una
felpa viola sulle spalle, che alza il viso, li guarda da sopra gli occhialetti a mezze lenti e
sorride.
“Lei Katerina” così la indicano i due ospiti che poi si
allontanano.
“Buongiorno. Chi cercate?” interviene Katerina.
“Buongiorno – si affretta a rispondere Fiammetta che fa
un passo avanti costringendo il marito a lasciarle l’iniziativa – noi siamo venuti da
Lecce, indirizzati qui da don Pepe.”
La donna la osserva interessata ma è evidente che finora le informazioni date da Fiammetta non la aiutano ad inquadrarli.
La donna la osserva interessata ma è evidente che finora le informazioni date da Fiammetta non la aiutano ad inquadrarli.
“Ok. Non so chi sia don Pepe …”
“E’ un amico di don Roberto. I due si sono accordati per
farci arrivare qui. Abbiamo bisogno di asilo per …”. Fiammetta si gira e lascia spazio
così che Katerina possa vedere i due ragazzi, che si stringono fianco a fianco,
intimiditi.
“Non intendevo mettere in discussione gli eventuali
accordi di don Roberto, vi chiedo
cosa vi aspettate ora …”
“Noi abbiamo aiutato questi due profughi finché è stato
possibile farlo laggiù e speriamo di trovare asilo qui da voi, almeno per un periodo
sufficiente a renderli autonomi.”
La signora si liscia il mento, si alza, lascia la
scrivania e viene a salutare, porgendo la mano.
“Intanto mi presento: io sono Katerina, mi occupo
dell’amministrazione della Casa.”
Stringe la mano a Fiammetta che ricambia e fa le
presentazioni di tutto il gruppo.
Katerina accompagna gli ospiti in una sala dove c’è un bancone con la macchinetta del caffè, prendono posto ad un tavolo, lei offre caffè e acqua, mentre si fa raccontare succintamente la storia e il motivo della loro venuta a Milano. Katerina è pensierosa e sembra anche imbarazzata. Chissà quante storie come quella dei due fratelli ha già sentito raccontare. Non c’è niente di nuovo o di straordinario in questi avvenimenti per operatori come loro, che vivono nella tempesta quotidiana delle disgrazie provocate dalle migrazioni forzate dalle guerre.
Katerina accompagna gli ospiti in una sala dove c’è un bancone con la macchinetta del caffè, prendono posto ad un tavolo, lei offre caffè e acqua, mentre si fa raccontare succintamente la storia e il motivo della loro venuta a Milano. Katerina è pensierosa e sembra anche imbarazzata. Chissà quante storie come quella dei due fratelli ha già sentito raccontare. Non c’è niente di nuovo o di straordinario in questi avvenimenti per operatori come loro, che vivono nella tempesta quotidiana delle disgrazie provocate dalle migrazioni forzate dalle guerre.
“Ormai è ora di pranzo. Vi posso invitare alla nostra
mensa, siete benvenuti.” Un sorriso si apre sul volto di Fiammetta che aveva cominciato a
dubitare, interpretando al peggio le espressioni della faccia di Katerina.
“Ma, devo essere onesta, io non ho nessuna prenotazione
per loro -e indica i due ragazzi che abbassano gli occhi- e questo non sarebbe così
importante se non fosse che la struttura è già completa.”
“Non c’è posto?” una voce quasi strozzata esce dalla
bocca di Bruno.
“Siamo pieni. Mi dispiace. Comunque se volete aspettare
don Roberto … quando tornerà dall’incontro in Comune …”
Fiammetta è rimasta senza parole, Bruno è incazzato e sta
borbottando maledizioni. I due ragazzi si tengono per mano e i loro sguardi mostrano
la sofferenza che continua ad accompagnarli, senza tregua. Fiammetta manda un messaggio
deluso a don Pepe. Bruno ha accettato di pranzare alla loro mensa, almeno quello,
poi sono ripartiti dopo essersi fatti dare un paio d’indirizzi dove cercare appoggio
“Pronto”
“Fiammetta sono don Pepe, ciao.” – la voce dell’amico è
decisa e affettuosa.
“Allora, che mi dici? Ci sono buone nuove?”
“Eccome! Sono riuscito a parlare con don Roberto. È
dispiaciuto per quello che vi è capitato stamane…”
“Ok, anche noi, e dopo?”
“Mi ha confermato che lui si occuperà dei due fratelli
nella Casa. Dovete tornare là. Vi aspetta.”
“Sei sicuro? Non fare scherzi. Questi ragazzi non
reggerebbero un’altra delusione.”
“Vai tranquilla. Girate la macchina e tornate alla Casa.
Ciao.”
Quando Fiammetta chiude la telefonata gli altri hanno già
capito e l’assaltano con domande e richieste di chiarimenti che lei non è in grado
di fornire. Bruno ha già invertito la marcia dell’auto e sta tornando più
velocemente che può verso la Casa. Questa volta la portineria della casa è presidiata e
quando il gruppetto si presenta, il giovane nero che li accoglie, chiama don Roberto. Passano
pochi minuti e il prete gli si fa incontro, allargando le braccia, scuotendo la grossa
testa quadrata e chiedendo scusa per il contrattempo. Katerina non era stata informata e
questo aveva causato lo spiacevole contrattempo.
I ragazzi osservano increduli quel macigno di uomo che
ora li ascolta, li incoraggia. Nel frattempo si è avvicinata una ragazza, alta, bionda,
capelli corti, un paio di occhiali dalla montatura blu e uno sguardo acuto.
“Questa è Anna. Sarà la vostra partner per i primi tempi. -don Roberto si rivolge ai due fratelli- Imparerete con lei a conoscere la Casa, i suoi
orari, il metodo di lavoro. Sarà la vostra interprete, vi aiuterà a capire la nostra lingua.
Farete del lavoro nella Casa, perché tutti devono contribuire al suo funzionamento.”
“We have no passport … clandestini … and police? …” si
anima Zema, che ha seguito attentamente le parole del prete.
“No, voi siete profughi. È diverso. No problem con
police. Vi aiuteremo. Fidatevi di Anna.
Anna li accompagna in una cameretta dove potranno restare
finché non avranno trovato la via giusta per continuare a vivere come esseri umani
in questo mondo che si sta imbarbarendo.
I due coniugi sono disarmati davanti alla prontezza e
alla misericordia che emana dalla figura del prete. Se ne vanno dopo aver augurato la
buonanotte ai ragazzi. C’è l’impegno di rivedersi l’indomani. Adesso la strada verso l’albergo
sembra una passeggiata. Ha smesso di piovere.
Mercoledì. Ilaria si avvia alla fermata del tram, dopo aver lasciato le compagne, promettendo di ritrovarsi nel primo pomeriggio sul social network Ilaria è in piedi sulla banchina della fermata, aspettando il 4. Alza la testa, all’incrocio che immette sulla piazza della Ca’ Granda il semaforo è verde. Ha un sussulto. Quella figura che l’ha superata, due passi più in là, e si è inoltrata nella piazza, ha qualcosa di conosciuto. Si alza sulle punte, osserva con attenzione. Quella ragazza, lei l’ha già
incontrata, in un altro posto che non era Milano. Chi
sarà? Arriva il tram n 4, scampanellando. Non ci voleva,
rischia di perderla di vista. Decide di non salire sul tram. Lo oltrepassa, si butta in mezzo
all’incrocio rischiando un urto con le auto che passano, freni che stridono, parolacce che
volano dai finestrini abbassati. Corre sulla piazza. Si avvicina alla grande vetrata della
portineria, guarda attraverso e lì, davanti al bancone delle informazioni, la vede. La
osserva con attenzione: chi può essere? La ragazza, una nera con le treccine attaccate alla
testa, vestita con una felpa scura e un
paio di jeans a gamba corta, si gira come se sentisse il
suo sguardo insistente. E’ lei. La ragazza della spiaggia che scappava insieme al fratello.
Come si chiama? L’altra continua a fissarla di là dal vetro. Probabilmente stanno
ripescando dalla memoria gli stessi ricordi. Ilaria ha deciso. Alza la mano per salutare e le
grida: “Ehi! Ti ricordi?” Si lancia attraverso la porta
spalancata, l’altra si scosta dal bancone e fa un passo titubante verso di lei.
“Sono Ilaria, ci siamo incontrate in Puglia al mare,
sulla spiaggia. Lo sbarco, la capanna”
“Sì … sì. È vero. Sei tu?”
“Sono io. E tu … non mi ricordo il tuo nome?”
“Zema. Ero con mio fratello Abebe.”
“Sono contenta di vederti. Hai imparato l’italiano. Sai
che vi ho cercato anche in Liguria, senza trovarvi.”
“E’ stato difficile e complicato. Una brutta storia che è
finita bene.”
“Dove stai a Milano? Hai trovato un alloggio …”
“Sto alla Casa della Carità, per ora, insieme a mio
fratello.”
“Cosa fai qui, all’ospedale di Niguarda? Non stai bene?”
“Devo fare dei controlli dopo l’incidente …”
“Un incidente? Ma ora mi sembri a posto … o mi sbaglio?”
Zema è silenziosa, titubante. Ilaria le tocca la mano e
le accarezza il viso.
“Ho subito uno stupro laggiù e Abebe è stato picchiato
duramente.” Zema ha parlato sottovoce, quasi in un soffio. Il dolore l’ha indurita.
Ilaria resta a bocca aperta. Non parla. È rimasta traumatizzata dall’annuncio della ragazza. Le
stringe le mani.
“Chi è stato?”
“Non lo so. Ho solo dei ricordi strappati, come flash in
una tempesta. Dovevano essere almeno tre. Due mi tenevano e l’altro mi stuprava, con
violenza. Mi hanno coperto la testa con un giubbotto. Abebe è stato bastonato e legato
ad un albero.
“No!? … Mi viene da piangere, scusa, sono arrabbiata per
quello che ti è successo. Dobbiamo denunciarli.” - Lei è già un tutt’uno con Zema.
- “Erano italiani?”
“Non c’è dubbio.”
“Schifosi. Bisogna prenderli.”
“Impossibile.”
“Perché non vuoi denunciarli? Io li vorrei sbattere in
galera per tutta la vita.”
“Sono ancora clandestina. Come posso denunciarli. Ormai è
passato. Non mi interessa la vendetta. Cerco un futuro migliore, anche se di poco.
Perché non potrei vivere come te? Voglio la mia vita.”
“Hai ragione. Voglio essere tua amica. Qui a Milano. Ti
voglio aiutare.”
Zema la invita ad aspettarla e ottiene le informazioni
dalla signora, che aveva ascoltato tutto e la guardava sorpresa. Ilaria ha deciso di
accompagnarla dentro l’ospedale. Zema le racconta i vari episodi, continuamente interrotta da
Ilaria, che partecipa come se l’incidente fosse accaduto a lei.
“Sono rimasta incinta.”
“Ah, e adesso?”
“Poi l’ho perso.”
“Ah, e adesso?”
“Ho fatto un raschiamento e adesso devo fare i
controlli.”
Ilaria abbraccia Zema e le parla accorata. Le due ragazze
restano abbracciate finché l’infermiera dell’ambulatorio di ginecologia chiama il
suo numero.
“Vai. Ti aspetto.”
Ilaria ha incontrato Zema all’uscita della stazione MM
Loreto. Zema era allacciata al palo con l’insegna della Metro e controllava l’uscita. C’era
un fiume di gente che saliva dalla bocca della Metro. Piazza Loreto si stava riempiendo.
Ilaria teneva per mano Giada e Angela, le sue compagne che avevano accettato di venire
in manifestazione. Si abbracciano con Zema e suo fratello Abebe, che la segue
come un’ombra. Assieme a loro c’è un gruppo della Casa della Carità, saranno almeno una
trentina, ragazzi che vengono dai paesi più martoriati dell’Africa.
“Ciao, ragazze, ci siamo. Avete visto quanta gente! È uno
spettacolo meraviglioso.” Zema parla con entusiasmo al gruppo di amiche che si è formato
attorno a lei.
“Doveva venire anche Max con i suoi amici ma non li vedo.
Guai a lui, se ci fa il bidone.”
Commenta Ilaria un po’ svagata.
“Chiamalo, cercalo sul telefonino.” Le suggerisce Angela.
La rete è sovraccarica. Le chiamate non passano. C’è troppa gente in piazzale Loreto
che cerca di telefonare. Ilaria viene trascinata dalle compagne, ma lei continua a
guardare in giro nella speranza d’incrociare lo sguardo di Max.
L’iniziativa era nata quindici giorni prima da una
chiamata di Zema. Le aveva proposto di partecipare alla marcia dei migranti che si stava
organizzando a Milano ed in altre città italiane. Lo scopo era sollecitare il governo a produrre
una politica che risolvesse le situazioni penose di questo popolo fantasma. Le parole
d’ordine riguardavano i permessi di soggiorno, un’accoglienza più umana con la chiusura
dei CIE, i corridoi umanitari per i profughi, una politica europea di asilo. Ilaria aveva
rilanciato l’iniziativa in classe e, aiutata da Max e Angela, era riuscita a mobilitare mezza
classe.
Adesso era avvolta nella folla colorata dei migranti e
dei profughi che innalzavano striscioni e provavano ritornelli di canzoni. Un sabato
pomeriggio di fine ottobre, una bella e serena giornata autunnale, una cornice perfetta
per quella festa di popolo.
Una mano la strattona da dietro. Si gira e si ritrova
faccia a faccia con Max. Lei si apre in un sorriso che parte dagli occhi e finisce sulle labbra
che tremano. “Max. Ci sei. Sei venuto!” – gli salta al collo e si fa abbracciare,
facilitata dalla stretta dei manifestanti che spingono da tutte le parti. La testa del corteo si è
incamminata su corso Buenos Aires. Il furgone, addobbato con gli striscioni e le bandiere della
pace, scandisce con l’altoparlante le parole d’ordine. Sui lati del corteo,
un cordone di ragazzi allacciati per mano cerca di garantire un simulacro di servizio
d’ordine. Gira la voce che ci siano degli infiltrati e che potrebbero scoppiare dei disordini.
Ilaria e i suoi compagni sono in mezzo al corteo, molto colorato, e cantano a squarciagola i
motivi lanciati dall’altoparlante gracchiante.
Zema si sbraccia, va avanti, rientra, parla, discute,
insomma ha un attivismo incredibile.
Ilaria vuole allacciarla con la mano nella lunga fila
orizzontale che attraversa ora piazza Lima. I passanti, quelli che scendono a Milano per lo
shopping del sabato, osservano dai marciapiedi un po’ intimoriti. Si vedono anche molti
ragazzi che salutano e alcuni chiedono di entrare nel corteo. Il servizio d’ordine
ondeggia.
“Occhio ai provocatori.” – si alza una voce da dietro. Il
servizio d’ordine si richiude e respinge, cortesemente ma in modo fermo, chi non ha
qualcuno che lo possa chiamare dentro.
All’altezza di viale Tunisia la coda del corteo viene
scossa da un folto gruppo che si butta compatto contro il fianco destro per sfondarlo e
separarlo dal corpo principale della manifestazione. Si sentono scoppiare dei petardi. Si alza
l’urlo di una sirena e un boato di voci concitate scoppia sopra le teste dei ragazzi. L’altoparlante chiede al corteo di cambiare marcia e di
attraversare di corsa Porta Venezia, tenendosi per mano. Sul fondo dello stesso, il
servizio d’ordine cerca di respingere l’attacco dei militanti di Forza Nuova, i
fascisti. Ilaria ha il cuore in gola, stringe le mani dei compagni, comincia a correre. Il corteo diventa un’onda, come il mare, s’allunga e si ritrae. Lo
stress è forte. Lei lancia occhiate impaurite dietro le spalle, dove si sentono scoppiare
botti e sale un nembo di fumo nero.
“Correte, state insieme, tenetevi per mano. I fascisti ci
hanno attaccato ma il nostro servizio d’ordine li ha respinti. Manteniamo la calma.
Cantiamo assieme il ritornello del Clandestino e corriamo sul ritmo della musica.”
Le note del Clandestino escono strombazzate
dall’altoparlante. La musica è come un’iniezione di fiducia. Il corteo si ricompone pur
continuando a correre. Si alza il coro, sempre più avvolgente e intonato, che esplode nei pressi
di San Babila con un canto potente da far tremare i polsi.
Ora il corteo si è fermato nella piazza, aspettando che rientrino
gli spezzoni lacerati dalla rissa, attardati dopo l’attacco dei fascisti, e la
canzone del Clandestino rimbomba sui palazzi che circondano la piazza. Ilaria, allacciata a Zema e Max, canta a voce piena, coi
capelli sudati appiccicati alla fronte, il petto che si alza affannoso, i piedi che
ballano sull’asfalto, le orecchie piene della musica che sta travolgendo tutti: Il mio destino è correre, per eludere la legge, Perso nel
cuore, Della grande Babilonia, Mi chiamano clandestino, Perché non ho documenti. In una città del nord, andai a lavorare, La mia vita la
lasciai, Tra Ceuta e Gibilterra, Sono un confine nel mare, Un fantasma nella città, La mia vita
va proibita, Dice l’autorità.
Il corteo sta danzando nella piazza mentre la testa
s’infila in corso Vittorio Emanuele. L’altoparlante gracchia dal furgone che avanza
lentamente, sembra che ci siano più di diecimila partecipanti, e lancia l’invito a togliersi le
scarpe, un segno di condivisione della condizione dei migranti.
“Marciamo fino a piazza del Duomo a piedi scalzi. Siamo
donne e uomini scalzi che marciano per difendere l’umanità dei migranti e
clandestini.”
Il corteo ondeggia, le persone si piegano, si siedono, si
appoggiano a terra per togliersi le scarpe, le sfilano, si rialzano e le sollevano sopra le
teste, sventolandole come vessilli. Ilaria, Zema e gli amici hanno fatto lo stesso. Ridono e
sventolano le loro scarpe continuando a cantare il Clandestino.
Il corteo è sfociato in piazza Duomo. Il popolo dei
migranti e dei loro amici sfila verso il centro della piazza. Le grandi porte di bronzo del
portale centrale si aprono. La musica dell’organo invade la piazza. Le teste del corteo si
girano, il corteo stesso fa una inversione e si avvicina lentamente al sagrato. Un altro
corteo, diverso, composto, dignitoso, orante, si spande sul sagrato e lascia passare
nel mezzo una punta colorata di prelati in grande uniforme. Il coro canta il Magnificat e
il cardinale si avvicina all’orlo del sagrato, dove si ferma e con un gesto ampio saluta i
manifestanti.
A guardar bene, quella figura lunga e allampanata, con lo
zucchetto rosso in testa, non è il cardinale. Forse il cardinale ha il raffreddore e la
tosse. Queste non sono cose da cardinali o no? Invece questo vecchietto smilzo, arzillo
e sorridente, si rivolge alla folla stendendo le braccia come se volesse abbracciarli tutti. Un sussurro della folla attenta si amplia in un rumore
incredibile, un battimani, un
applauso, che suggella la sorpresa e la felicità di
vedere il vescovo fraternizzare con loro.
È un grande gesto di misericordia.
Un rappresentante dei migranti sale gli scalini,
s’inchina e consegna una lettera, una petizione al vescovo. Lui l’accoglie e invita tutti a
pregare, come ognuno sa fare, per la pace. La folla si zittisce, le teste s’inchinano e il
vescovo, dopo aver esortato a non perdere la speranza, benedice tutti, credenti e
miscredenti; una benedizione non può far male. Zema si è stretta ad Ilaria e piange silenziosamente.
“Perché piangi? Le chiede l’amica.
“Finalmente un momento di serenità. Tremo per domani ma
adesso sono felice.”
“Anch’io” Ilaria ricambia teneramente l’abbraccio. La
folla si sgrana, si disperde sulla piazza. Gli amici si avvicinano a Zema e Abebe. I ragazzi
si scambiano i numeri di telefono, fanno foto e promettono incontri e
appuntamenti.
“Milano. Amo questa città. Vorrei restare qui. Sarà
possibile?” chiede sorridendo Zema al nuovo gruppo di amici. Questi si fanno sotto, prendono in braccio i due fratelli
alzandoli sulle spalle, e li
lanciano in aria.
Milan, l'è on gran
Milan!