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mercoledì 6 aprile 2016

DARIO E DIO.  Ed altre storie
Testo e foto di Paolo M. Di Stefano

Dario Fo


Lunedì dell’Angelo, come da sempre ormai, Alessandra ha lasciato la città per tornare al Cantiere. È rimasta fino all’ultimo istante, a riempirsi gli occhi e la mente e il cuore dei colori di quella primavera ch’ella accompagna ogni anno, quasi ad assicurarsi che le forsizie e le infinite tessere di quell’immenso mosaico che narra di Milano a Pasqua come della città fiorita per eccellenza siano stabili nell’armonia di colori suggerita.
Che ha nel giallo che a lei tanto piace il punto focale: nelle forsizie, il “la” della composizione,




negli accordi e nelle variazioni lo sviluppo dei temi.






È partita ridendo, Alessandra, ancora parlandomi nello scendere in fretta le scale: “… e ricordati di non insistere nel chiedere il riposo per me. Io sono in Cantiere per lavorare e per fare l’architetto progettista di idee a tempo pieno. Non voglio riposare…Del resto, il Capo non esaudisce le richieste inutili e a maggior ragione quelle non desiderate dai beneficiari…La quale -ha concluso, utilizzando l’espressione di un tipico self made manager italiano- come sai io lavoro anche per te ed è sicuro che presto faremo qualcosa insieme. Ciao, papi. E leggi con attenzione: vedrai…”
Sorridevo anche io, al ricordo di quel “la quale” che tanto divertiva Alessandra fin da bambina, e in quel sorriso mi sono perso, senza per questo dimenticare di sistemare Dario e Dio sullo scaffale accanto a Viaggio in Paradiso, alla Commedia ed alla Bibbia.
Credo che l’averlo fatto sia stata la realizzazione di una delle idee che il Cantiere produce e alle quali Alessandra lavora e credo anche che risponda ad una precisa chiave interpretativa che Alessandra mi ha suggerito di usare per la lettura dell’ultima opera di Dario Fo.
Ed anche per la lettura della Pasqua, di questa Pasqua insanguinata ancora a Lahore, dove donne e bambini hanno perso la vita a causa di un cretino che si è fatto esplodere sognando un premio prevalentemente di sesso in un paradiso improbabile almeno quanto meschino, se così immaginato. E, soprattutto, senza rendersi conto di quanto possa essere blasfemo l’attribuire comportamenti siffatti e simili finalità all’insegnamento ed alla volontà del Dio in cui si dice di credere.

Ale mi ha lasciato l’ultimo lavoro letterario di Fo, e lo ha fatto sorridendo perché anche io sorrida.





Dario e Dio esprime in modo straordinario la capacità di “leggere” la vita -e dunque anche la dimensione del “dopo”- in modo intelligente, ironico, divertente, leggero ma tutt’altro che superficiale, futile o semplicistico.
Che è, tra l’altro, l’essenza della fede e della speranza e del rapporto tra ciascuno di noi e Dio.
Dario Fo si è sempre professato ateo, e lo ripete in quest’opera dalla quale, però, secondo me non si può non trarre una conclusione “altra”.
Questa: Dario Fo è profondamente credente in un Dio che certamente esiste, ma che non ha i connotati che noi tutti, senza distinzione se non di cultura (e quindi di luogo e di tempo), gli attribuiamo.

La lettera degli scritti che si occupano di Dio esprime un qualcosa che disegna un Dio a misura dell’uomo e degli eventi. E dunque, non dipinge se non in modo “umano” e “limitato” e “tutt’altro che perfetto” l’idea stessa di Dio. Così prestandosi a fare di Dio quasi una maschera e della vita una commedia dell’arte priva di un autore affidabile, e dell’aldilà un improbabile “luogo” di rendicontazione e di punizione e di premio. Il tutto, secondo una logica assolutamente umana e non sempre… logica, appunto. Un invito a nozze per chi ha il dono di cogliere il lato paradossale della narrazione. Già questo, che Fo dice e che in più di un momento lo unisce a quel “Viaggio in Paradiso” che a mio parere assimila Mark Twain a Dario Fo, significa che entrambi gli autori credono “liberamente” in un Essere superiore, sempre vagliando criticamente tutto ciò di cui “l’umanità” lo riveste.
Perché è innegabile, anche se da qualche parte io sono stato accusato di blasfemia per averlo detto soprattutto all’Università: la sola cosa certa è che ciò che crediamo di conoscere di Dio è in gran parte costruzione degli uomini, i quali disegnano l’inconoscibile secondo le forme e i colori della vita terrena, fatta di concretezze e di sogni terreni, appunto.
Chissà se Dario Fo sarebbe d’accordo con me, se sapesse che a mio parere il Dio di cui parliamo è un prodotto destinato alla scambio, e che le argomentazioni “di vendita” sono appunto costituite dalle “qualità” che ciascuno di noi attribuisce a Dio ed al “mondo” nel quale Egli direttamente opera, ma che tutto questo non ne mette in dubbio l’esistenza? O almeno, non serve a provarne l’inesistenza. Che, sempre a mio parere, potrebbe essere un argomento atto a bilanciare quello usato dagli atei: forse non posso provare l’esistenza di Dio, ma neppure posso avere prove certe della sua inesistenza. Non è possibile che questo consenta di pensare che, forse, il ragionamento dovrebbe seguire strade diverse da quelle tradizionalmente seguite?

Scrive testualmente Dario Fo (pag.44) in risposta alla domanda “…Non è che alla fine, magari in modo poco ortodosso, a un Dio ci credi anche tu?” “No. La metafisica non mi interessa, mi basta e mi avanza la fisica, così traboccante delle meraviglie dell’al di qua. Non credo a nessun Padreterno, però resto stordito davanti alla forza eversiva della vita, così stupefacente da farmi chinare il capo. Se devo confessare una qualche fede, direi che sono un seguace della natura, mi sono convertito al suo culto che ero ancora bambino. Trotterellavo nell’orto con mio nonno Bristin e restavo incantato davanti a un fiore, una pianta. E adesso che ho novant’anni, quell’incanto è sempre eguale. (…) Spesso, quando mi capita di passeggiare in un bosco, o anche in un giardino, ho la sensazione di essere in un luogo sacro. Dove tutto pulsa, si parla, mi parla. E ogni tanto, se nessuno mi vede, finisco par abbracciare qualche tronco. E sento che quel contatto rende felice me e anche la pianta. Che tra noi scorre qualcosa di inspiegabile, un flusso vitale che somiglia all’abbraccio con un amico. (…)”

A me sembra che il solo porsi la domanda “perché e come questo accade” possa essere già il postulare qualcosa o qualcuno che non conosciamo, ma che ha un potere immenso su di noi. Anche perché credo che Dario Fo sia troppo intelligente per fare del caso la risposta. Credo, piuttosto, che proprio il livello di intelligenza possa essere considerato un ostacolo alla Fede ed alla conoscenza di Dio: la consapevolezza di possedere una intelligenza ragguardevole, superiore alla media, e dunque uno strumento di conoscenza assolutamente eccezionale, rende quasi impossibile ipotizzare l’esistenza di qualcosa o di qualcuno che non possa essere spiegata e conosciuta a fondo in ogni suo aspetto. E, per di più, evidenzia quella attribuzione a Dio di caratteristiche assolutamente umane: una spinta ulteriore a metterne in dubbio l’esistenza. E dunque, la scelta di approfondire la conoscenza di ciò che si vede e ci circonda fisicamente per come esso è, è stato, probabilmente sarà, rinunciando ad indagare su un “chi?” e su di un “perché?”, domande alle quali sappiamo non potremo mai dare risposte. Come a queste, per esempio: l’intelligenza umana ha dei limiti?”; se li ha, “perché?”; e “quali sono?”; e “chi li ha stabiliti?” Facile, ovviamente, l’obbiezione: chi ha detto che l’intelligenza umana è limitata? Non ne abbiamo le prove, anzi assistiamo ad un continuo progredire del genere umano e delle sue conoscenze; siamo giunti a costruire un microrganismo prodromo alla vita artificiale, a prolungare la vita media, a raggiungere “fisicamente” mondi distanti anni luce... Non basta per dire che l’intelligenza è illimitata? Sono tentato di rispondere di no, che non basta: significa solo che non conosciamo i nostri limiti.  E forse anche che tutto questo potrebbe costituire la spinta a ritenersi “perfetti, infiniti, immortali, forse anche eterni”, e dunque a credere di possedere quegli attributi che, per chi ha fede, fanno parte dell’idea di Dio.

Dario e Dio mostra un altro pregio impagabile: letta, accettata, fruita l’ironia e la leggerezza della lettera, del periodare musicale, spinge a spaziare in orizzonti vasti, infiniti; a mettersi in gioco in un approfondimento probabilmente inconscio.
Che è, mi pare, esattamente lo spirito di ogni lavoro di Dario Fo, come attore e come pittore, oltre che come scrittore.

La Bibbia, a lato della quale ho collocato la  Commedia dantesca, descrive “il tutto”, l’eternità nel suo complesso, Dio, la creazione e il genere umano: la Commedia, che ho messo prima di Viaggio in Paradiso di Mark Twain, dettaglia il mondo di là, anche dando conto e ragione dei suoi abitanti, e questo fa con dovizia di particolari, con la serietà e quel “rigore” che neppure nelle opere poetiche può mancare, quando si parla di Dio; Viaggio in Paradiso alla sua destra, è a mio parere uno splendido tentativo di spiegare il Paradiso in modo semplice e piacevole a tutti noi.
 Esemplare una pagina:
…E i monarchi conservano anche quassù il rango di cui godevano sulla terra? -No, nessuno può portare con sé le proprie prerogative. Il diritto divino è una favola buona per la terra, ma qui non vale. Appena raggiungono i reami della grazia, i monarchi discendono al livello dei comuni mortali. (…) -Sandy, non avete mai visto Napoleone di persona?- L’ho visto spesso, ora nel reparto corso, ora in quello francese. Ha l’abitudine di portarsi in qualche punto elevato, dall’alto del quale si guarda attorno, accigliato, le braccia conserte e il cannocchiale sotto il braccio. D’aspetto è severo, cupo, strano come la tradizione vuole, ed è molto seccato perché, come soldato, non occupa, qui, la posizione cui credeva di aver diritto. -Chi c’è sopra di lui?- Un’infinità di persone di cui non si è mai sentito parlare, del tipo del calzolaio, del veterinario, dell’arrotino. Bifolchi venuti da non si sa dove, che in tutta la loro vita non hanno mai impugnato una spada, mai sparato un colpo di fucile, mai dato prova del genio militare di cui erano dotati. Ma qui occupano i primi posti, e Cesare, Napoleone e Alessandro sono considerati a loro inferiori. Il più gran genio militare che il nostro mondo abbia prodotto è un muratore dei dintorni di Boston, morto durante la rivoluzione. Si chiama Absalom Jones (…) Tutti sanno che se gli si fosse offerta un’occasione favorevole, avrebbe dato tali prove di genialità militare da ridurre tutte le manifestazioni di tattica militare a lui anteriori a giochi infantili e a opere di apprendisti. Ma sulla terra non ebbe fortuna. Tentò più volte di arruolarsi come semplice soldato, ma mancandogli due incisivi e entrambi i pollici, fu sempre dichiarato inabile…

Infine, alla destra di tutto questo “Dario e Dio”, quasi una conclusione di un lavoro di conoscenza. La Bibbia, oggetto e radice di fede, da leggere e rileggere e imparare a memoria perché si incida nel DNA e detti le leggi dei comportamenti dell’uomo; la Commedia, sulla base della fede una descrizione dell’aldilà complesso, tutto da guadagnare anche attraverso l’interpretazione degli endecasillabi e delle terzine; “Viaggio in Paradiso”, prologo ad una visione più scanzonata, quasi allegra, di un mondo sperato sulla base di principi forse da correggere, in tutto o in parte; “Dario e Dio”, un invito a rivedere gli schemi di ragionamento e, forse, a spogliare i “sacri testi” dagli orpelli e dai ghirigori dei traduttori più o meno interessati alle conseguenze terrene della lettura.

Ho trovato particolarmente consonante al mio senso dell’umorismo ed a quello di Ale il modo di Fo di ragionare sulla preghiera. Io ho sempre pensato che la reazione di Dio alle preghiere, ai canti, alle cerimonie chiesastiche costituisca certamente la prova della Sua infinita bontà, se non addirittura della Sua esistenza, alla quale io credo fermamente, e alla quale invece Dario Fo dice di non credere. A pag.121 scrive “…Come dicevamo, a Dio piace essere intrattenuto. Se lo divertiamo, magari ci perdona.  Per provarci, l’uomo si è inventato mille modi: processioni, esorcismi, danze, cerimonie di ogni tipo, più o meno pagane, dionisiache, mistiche e teatrali. Dalle invocazioni dell’imam alle messe dei preti alle nenie tibetane… Sacre rappresentazioni, si chiamano così, con incensi e musiche, paramenti colorati e gesti rituali. Litanie e cori dove una frase, una parola, viene detta e ridetta mille volte. Un’insistenza sospetta, come se il Padreterno fosse sordo o ritardato….
E poco più avanti “La preghiera per me vuol dire dialogo -prosegue- Vuol dire mettere in discussione se stessi, ma mettere in discussione anche Lui. Da pari a pari, visto che entrambi facciamo parte dello stesso universo. E se qualcosa va storto, le responsabilità sono comuni.”.
Ecco, allora il senso delle parole di Ale, mentre partiva: la preghiera deve avere un oggetto che esprima il desiderio della persona per la quale si prega e coincida con quell’interesse universale al quale ognuno di noi deve dare risposta come meglio è possibile.
Ale è in Cantiere a produrre idee. Fare l’architetto e progettare ponti è il suo desiderio, e il Cantiere le consente di realizzarlo. Lì ella descrivendo i suoi ponti si descrive e descrive il suo mondo e lo confronta con quello di tutti gli altri e con la missione del Cantiere tutto. E non ha nessun bisogno di riposo, sia perché non lo vuole, sia perché quel Cantiere non conosce la stanchezza, che null’altro è se non una misura della limitatezza di ciascuno di noi e di tutto quanto ci circonda.
E mi ha accennato, Ale, ad un Ponte infinito, immenso, già ideato in ogni particolare, ma in corso di una progettazione particolarmente complessa, perché si tratta anche di ristrutturare quel concetto di libertà che è il dono più grande che Dio poteva fare agli uomini, ma che gli uomini stentato a comprendere e comunque utilizzano quasi sinonimo di egoismo e di anarchia. “Neppure riuscirete a comprendere” -mi ha detto- “che eventi quali quello di Lahore, il giorno di Pasqua, potranno essere evitati soltanto quando i ponti tra le idee, le opinioni, le azioni saranno stati completati.

E’ il vero lavoro dell’umanità.”, ha concluso, dando un piccolo bacio alla rosa gialla che piazza della Scala le ha donato perché le parli di Milano, di sua madre e di me.