Il destino del
PD è interno al PD?
di Giovanni Bianchi
Le ragioni del
malessere
Le
ragioni del malessere che attraversa tutta la politica italiana e il vuoto dei
partiti non sono né psicologiche né locali. Stanno dentro cioè la particolare
modalità di recezione della globalizzazione nel nostro Paese, che anche in
questo caso probabilmente segna un “anticipo”, con tutti i problemi, le
difficoltà, le incertezze e le aporie che ne discendono. Vuol dire che, almeno
nella mia ottica, non ha senso e non fa capire partire dalla crisi di un
singolo partito – sia esso il PD, oppure i Cinque Stelle, oppure la Lega di
Salvini, che è il partito più vecchio in campo – a far data da Tangentopoli, dal 1989 (la caduta del muro di Berlino), e
soprattutto dal 9 maggio 1978, con l’assassinio di Aldo Moro.
Il
poeta Mario Luzi, che era iscritto ai popolari, ha detto di lui in poesia:
“acciambellato in quella
sconcia stiva”…
Con
l’assassinio di Moro incomincia quella che il più grande sturziano doc,
Gabriele De Rosa, ha definito La
transizione infinita. Moro si è
rivelato il punto di equilibrio di tutto un sistema, non soltanto nelle sue
implicazioni nazionali, e con la sua morte incomincia la fine della Dc, vero
architrave della politica italiana del secondo dopoguerra. E con la fine della
Dc vien giù a pezzi tutto il sistema politico Italiano.
Noi
siamo l’unico Paese al mondo, che, a far data dal 1989, ha azzerato tutto il
precedente sistema dei partiti di massa. Non c’è più la Dc, non il Pci, non il
Psi, neppure il Msi che si è trasformato in An. Il partito più vecchio,
appunto, è quello fondato da Umberto Bossi e adesso leaderizzato da Matteo
Salvini, che ne ha sovvertito il fondamento e rovesciata la linea.
Per
questo, a mio giudizio non ha senso affrontare il problema a partire da un
partito: è tutto il sistema che vive un malessere grave e collettivo, che va
anzitutto riconosciuto come tale (ossia come generale e collettivo) e indagato
sui possibili sviluppi. Un’ottica troppo ristretta, o a partire da un singolo
partito, non serve a mio giudizio a capire e non aiuta a trovare gli sbocchi.
Non voglio fare, come diceva Bruno Manghi, del “laismo” – dove il problema sta
sempre più in là e altrove, e a furia di allargare l’orizzonte eviti di
affrontarlo buttando ogni volta il pallone in tribuna – ma partire da un
singolo partito e da una sola parte non porta in nessun luogo. La crisi del PD
va dunque contestualizzata nella crisi generale della democrazia italiana.
Anche
se ci sono in giro i richiami della foresta, le foreste non tornano per
nessuno, e i reduci è bene si riconoscano tali, anche per ritrovare un mestiere
e non far perdere tempo.
I
vecchi partiti non ritorneranno e neppure i loro leaders, anche se trovi in
giro chi dice che vuole morire democristiano o comunista. La “rottamazione” ha
dato un’etichetta a un processo e a un ricambio generazionale in corso ed
inevitabile. Tanto è vero che lo trovate in tutta l’area della politica
italiana: Renzi ha dato un nome per il PD a un processo che anche in questo
caso è generale.
Renzi
in quest’ottica è uno, il più brillante e di maggior successo dentro il coro
dei giovani, anche se questi giovani nella politica italiana non cantano in
coro e anzi ognuno ha cura di cantare, più o meno intonato, la propria canzone.
Una strada comune, anche nei reciproci contrasti, dove la competizione,
l’aggressività reciproca e spesso la demonizzazione dell’altro fa parte del
copione non scritto, ma non per questo meno efficace. Una sorta di mors tua vita mea che fatica a rientrare nel quadro
costituzionale, dove l’alterità, e anche i reciproci scontri, sono pensati dai
padri costituenti come differenze e variazioni su un tema comune, che è quello
del bene del Paese, cui anche le minoranze e le opposizioni sono chiamate a
concorrere.
I
padri costituenti non avevano l’abitudine di abbassare i toni, si affidavano ai
tecnici molto meno che nelle vicende odierne (anche se se ne servivano e come).
L’articolo sulla famiglia ad esempio passò per un voto di scarto. Ma avevano in
comune la tensione a scrivere un progetto per tutti gli italiani.
Dossetti,
il 9 settembre del 1946, si fece interprete nella Seconda Sottocommissione di
questa spinta e di questa missione. Subito seguito da Palmiro Togliatti, che
affermò di avere una concezione della persona diversa da quella di Dossetti, ma
di consentire sulla necessità di porre a fondamento della nuova democrazia
italiana la persona e non lo Stato.
Detto
alle spicce alla plebea: una costituzione non può essere proposta e neppure
avversata al di fuori dall’esigenza di essere la piattaforma per tutti, sia di
chi si ritrova pro tempore in maggioranza, come di chi si trova in minoranza.
Questo
il deposito dei costituenti e del clima complessivo internazionale di allora,
con la Carta Universale dei Diritti dell’Uomo e Bretton Woods.
La “transizione infinita”
Quel
clima non c’é, per nessuno. E la nostra diagnosi politica deve prendere atto
della circostanza e interrogarsi a partire da qui sul destino della
“transizione infinita”: che vuol dire sul destino della democrazia italiana,
dei partiti, della società civile, del sindacato, di un’etica di cittadinanza,
senza la quale un popolo non sta insieme.
Le
regole cioè, anche quelle elettorali, anche la positiva introduzione delle
primarie, non bastano: la democrazia non è soltanto il rispetto delle
procedure, ma un costume, un modo di pensare e di relazionarsi tra i cittadini.
Tenendo conto di una trasformazione e di una mutazione antropologica della
quale i politici sull’onda hanno preso buona nota: non siamo più soltanto
cittadini, ma prevalentemente consumatori.
Una
circostanza che impone un mutamento dei rapporti, della comunicazione, dei
valori, del territorio, della percezione stessa delle istituzioni. La logica
più volte evocata del condominio non è quella del Comune e delle
municipalizzate che abbiamo conosciuto a partire da dopo il referendum su
Monarchia e Repubblica.
Un
fattore evidente attraversa tutto il campo. Più ancora dell’intensità delle
trasformazioni, è impressionante la velocità
dei mutamenti.
In
questo senso la “rottamazione” ha
interpretato una tendenza inarrestabile: non si ferma infatti il vento con le
mani. Quel che probabilmente si fa più fatica a mettere a tema è la coscienza
che la velocità, una volta introdotta, interessa tutti e tutte le parti, e
tutte le generazioni. Talché è prevedibile che l’esigenza di rottamare i
rottamatori finirà per sorprendere per il suo anticipo i rottamatori medesimi.
Non è né un augurio né un esorcismo: vorrebbe essere la presa d’atto di un
trend storico.
Ci
sono due precisazioni che mi sento di fare. La prima è che gli eventuali
rottamatori dei rottamatori non saranno i loro predecessori (non saranno cioè
né D’Alema, né Bersani e neppure Veltroni), ma loro coetanei, magari anche più
giovani per anagrafe o anche per metodo. Un’affermazione che mi consiglio di
prendere con equilibrio. Ricordo benissimo che Napoleone al tempo della
campagna d’Italia aveva 27 anni. Ma ricordo anche una esilarante scenetta di
Stanlio e Olio sull’elisir della giovinezza. Stanlio esagera e sbaglia la
misura, e la sequenza successiva ce lo presenta in bagno trasformato in scimmia…
Anche l’evoluzionismo può essere percorso a ritroso con simpatica ironia.
Ma
resta il fatto che la velocità sottopone a tensione i nostri sistemi sociali e
più ancora quelli politici. I costituenti, nei loro uomini più acuti, ne
avevano la percezione. Per questo Dossetti propose più volte un rafforzamento
dell’esecutivo e ho la convinzione che fosse favorevole al monocameralismo.
Il
bicameralismo fu sostenuto dalle sinistre comprensibilmente ansiose di salvaguardarsi da un eventuale
strapotere democristiano, favorito dalle condizioni della guerra fredda. Lo
stesso schema lo troviamo per l’approccio alle Regioni, dove i due partiti
maggiori prendono posizioni diverse rispetto alla propria storia in funzione
del controllo e del contenimento dell’avversario.
Sintomo
e recezione chiarissima di questo comune sentimento è la presenza nel testo
costituzionale dell’articolo 138, che non a caso prevede l’autoriforma del
testo medesimo.
Se
dunque è vero che compito delle costituzioni è più complicare le cose che
semplificarle, è altrettanto vero che le ragioni della realtà hanno la testa
più dura di quella delle carte ufficiali. Resta l’ammonimento di Valerio Onida:
è per lui difficile e improbabile mettere mano alla Costituzione quando non esiste di fatto un clima e uno
spirito costituente.
Gli
americani si tengono la loro carta ottocentesca (15
settembre 1787),
emendata da pochi emendamenti, e mantengono in costituzione perfino la data
delle elezioni: il primo martedì di novembre che non coincida con una giornata
festiva.
La tensione tra
governabilità e democrazia
Vi
è una tensione che attraversa tutta la politica italiana, e non soltanto, a
partire dalla metà degli anni Settanta (convegno della Trilateral Commission a Okinawa).
Preoccupava
i convenuti a Okinawa un eccesso di democrazia diffuso nel mondo, in
particolare un eccesso di partecipazione italiano. Gli atti del convegno sono
stati pubblicati anche nella nostra lingua e hanno la prefazione di Gianni
Agnelli.
Da
allora i due poli dentro i quali muove la politica nazionale, ma non soltanto,
sono rappresentati dalla governabilità e dalla democrazia. La tensione è
evidente, anche perché non esiste democrazia senza governabilità, ma il massimo
della governabilità coincide con il minimo della democrazia.
Ho
letto più spesso Il Principe di
Machiavelli che i Vangeli, e spero che il Buondio mi perdoni la preferenza.
Leggo Il Principe come il manuale più
chiaro e ispirato intorno alla governabilità. Davvero Machiavelli è in anticipo
e non fa rimpiangere nel nostro Paese la riforma protestante. Tuttavia il
segretario fiorentino scrive in un tempo in cui l’omicidio politico fa parte
del governo quotidiano delle cose.
Misurata
con quella stagione, la democrazia rappresenta indubbiamente un passo avanti,
ma anche una complicazione nei confronti della governabilità. Quel che mi pare
logico sottolineare è che la tensione va mantenuta e studiata, e non risolta
guardando e lavorando a un solo capo della corda.
In
questo quadro ovviamente si collocano anche le vicende del vertice del Pd. Un
partito conquistato e domato dal leader, e ancora in attesa del nuovo profilo e
della conseguente riorganizzazione.
Renzi
ha conquistato il partito, e non ha ancora trovato il tempo (lui e i suoi) o la
voglia di metterci seriamente mano. Si potrebbe anche almanaccare che attenda
per metterci mano il completarsi della mutazione antropologica in corso.
È
intorno al nodo democrazia-partecipazione, e alla tensione conseguente, che si
gioca nella democrazia italiana il ruolo dei corpi intermedi e dell’ente
locale. Un ruolo intorno al quale diverse culture politiche si incontrano e si
scontrano.
Il
nodo dell’ente locale e in particolare dei cosiddetti “corpi intermedi” è
centrale in tutta la dottrina sociale della Chiesa. È anche una presenza che fa
da ponte tra il pensiero cattolico e la cultura di sinistra: basta leggere le
note programmatiche sul Comune di Turati e Sturzo per averne contezza.
Il punto di vista
Riemerge
allora il ruolo centrale che un punto di vista comune da costruire riveste nel
percorso e nelle sorti del partito democratico.
Personalmente
sono sturziano, non uomo di sinistra, anche se mi è capitata più volte
l’avventura di ritrovarmi a sinistra di molti che vengono dai partiti storici
della sinistra italiana. Posso fare un breve elenco degli amici-compagni con i
quali le mie posizioni si sono misurate: “Occhetto, Michele Salvati, Veltroni,
Enrico Morando, il sottosegretario di Padoan e a mio giudizio l’esponente più
competente della compagine governativa.
Perché
anzitutto il punto di vista? Perché si tratta del luogo dal quale traguardare
il futuro del progetto del partito democratico. Perché ritengo meglio avere un
punto di vista sbagliato che non avercene nessuno. E perché in effetti la prima
difficoltà del Pd è di essere – come ricorda Ilvo Diamanti e diceva Berselli –
un partito “presunto”. Un partito perennemente in cantiere e che appare partito
soprattutto se confrontato con gli altri partiti in lizza con lui, perché sono
meno partito del partito democratico.
Un
partito che si è rattrappito nel tesseramento e soprattutto sul territorio. I
circoli diminuiscono e spariscono, continuando la deriva tradizionale dei
circoli sociali: quelli cattolici, come quelli comunisti, come quelli
socialisti.
La
mia città, Sesto San Giovanni, ex Stalingrado d’Italia, è un test significativo
in tal senso: sono spariti tutti i circoli “Progresso”, “Avvenire” e “San
Qualcosa”, mentre prosperano bar e caffè
gestiti dai privati. Nei quali nel frattempo è profondamente mutata anche la
clientela, con una prevalenza evidente, che giudico un fatto positivo, di donne
rispetto agli uomini.
Il
risultato è che mancano i luoghi dove riconoscersi in quanto interessati a
un’idea e a un progetto politico.
Sono
sparite le figure storiche sulle quali ha camminato la democrazia del
dopoguerra, sotto tutte le bandiere ideologiche. È sparito il “militante”
politico. È sparito l’intellettuale “organico”. Dunque le grandi narrazioni
ideologiche avevano la loro antropologia: idealtipi e gente comune. E invece il Democrat chi è? Basta l’inglese a
colmare le lacune?
E’
d’uopo allora fare il punto sulle primarie. Le salutai a suo tempo come il
“mito originario” del partito, in mancanza di meglio. E cioè non considerando
sufficientemente fondati e conosciuti la
Carta dei valori e il discorso di Veltroni
al Lingotto.
Eppure
il rischio è che in soli cinque anni si sia riusciti a depotenziare lo
strumento e il mito delle primarie. C’è anche da rilevare una mancanza
d’attenzione. Non ci importa valutare come un metodo assolutamente americano
possa funzionare all’interno di un partito che resta tutto compattamente
“europeo”: con un mix di socialdemocrazia e democristianeria.
A
dire il vero risultano poco studiate dai politici italiani anche le primarie
nel loro Paese d’origine. Quanti sanno che molti couscous del partito
democratico americano vengono organizzati da Uaw, il sindacato
dell’automobile? Riuscite a vedere la Camusso o Landini in questa funzione,
oppure, sull’altro fronte, il celebrato Marchionne?
Il valore delle etichette
L’ultima
etichetta apposta sul barattolo del Pd è quella del partito “della Nazione”.
Un’espressione usata da Alcide De Gasperi e riproposta in tempi recenti da
Alfredo Reichlin.
Sono
importanti le etichette, ma dentro il barattolo?
Sull’importanza
delle etichette mi posso soffermare un momento. Il vescovo brasiliano Helder
Càmara raccontò che il suo nome, assente dal martirologio cristiano, derivava
dalla circostanza singolare e fortuita che sua madre, al momento del parto,
sollevò lo sguardo verso una mensola della stanza. Interrogata dalla levatrice
sul nome da dare nel battesimo al neonato, lesse l’etichetta di un barattolo di
marmellata: Helder appunto. E ritengo
molto probabile oltre che auspicabile che un prossimo pontefice provveda a
introdurre il nome del santo vescovo di Recife nel novero dei santi sugli
altari della Chiesa cattolica.
Interessante
e provocatorio l’uso di un’altra etichetta, questa volta nella storia dell’arte
italiana. Il pittore Manzoni, uno degli allievi più promettenti di Fontana,
espose alla Triennale dei tubetti con la sorprendente etichetta “merda
d’artista”. Non mi risulta che qualcuno abbia svitato il coperchio per
verificare la consistenza e l’eventuale olezzo del celebrato prodotto, che
comunque è entrato nella memoria delle arti figurative.
Quanto
invece ad Alcide De Gasperi e Alfredo Rreichlin ho ragione di credere che non
intendessero la medesima cosa sotto la comune etichetta di partito “della
Nazione”.
Più
attento al reale odierno e alle sue possibili evoluzioni, il dotto esperimento
di Fabrizio Barca (La traversata. Una
nuova idea di partito e di governo). Tuttavia, nonostante il serio impegno
intellettuale e anche l’impiego di risorse, l’esperimento non pare avere avuto
seguito.
Tutto
ciò per dar conto della circostanza che una parte della sinistra non si
riconosce in questo partito perché il partito – in senso proprio e classico, e
anche nella normalissima realtà – ancora non c’è. È in cammino e, si spera, in
via di edificazione.
L’era Renzi
Un
partito non nasce da un partito. La storia del socialismo italiano in tal senso
è incontrovertibile e perfino didattica. Il vecchio partito (anche al plurale)
può invece fare da levatrice rispetto al nuovo. Sangue, carne cervello vengono
dal civile e dalle sue trasformazioni storiche.
Messe
così le cose, v’è da constatare una non particolare effervescenza verso la
forma partito della società civile italiana. Le nuove generazioni di italiani
sono le più tranquille d’Europa. Sembrano addirittura dar ragione alla prima
delle Lettere luterane di Pier Paolo
Pasolini. Niente che assomigli da noi a Occupy
Wall Street, agli Indignados, ai
francesi di Place Debout.
Da
noi al massimo troviamo i Rottamatori,
la Leopolda, la Rete: fenomeni che interessano la parte nuova e giovanile del ceto
politico. Che possono far pensare a una sorta di riproposizione aggiornata del
“patto generazionale”.
Tuttavia
non paiono avere radici profonde tra i fermenti
della società civile. E quando provo questo rudimento di diagnosi non ho
in mente Rosa Luxemburg (importata nel Bel Paese da Lelio Basso), ma il primo
Alberoni di L’élite senza potere e Classi e generazioni.
I
vecchi inquilini dunque lasciano la vecchia casa perché giudicano
insopportabili questi nuovi e chiacchieroni inquilini toscani … Provo a
ripetermi: Renzi ha scalato il partito e il Paese (lessico della Leopolda), ma
il partito l’ha domato, non rifatto.
Del
resto il ruolo dei partiti è già
profondamente cambiato, e irreversibilmente. A spingere il cambiamento è stata
soprattutto la società globale, quella nella quale tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria.
Serve
voltarsi indietro? Serve ricordare che Aldo Moro aveva l’abitudine di ripetere:
“Il pensare politica è già per il
novantanove percento fare politica”? (Una involontaria provocazione.)
Nei
tempi correnti il pensiero e la propaganda politica sono stati sostituiti dalla
pubblicità. I politici non governano i problemi dei cittadini, ma le emozioni
dei consumatori. Non a caso le giovani sociologhe americane hanno coniato per
le politiche correnti il verbo surfare:
l’attitudine acrobatica di chi sta in equilibrio sulla tavoletta cavalcando
l’onda immensa dell’oceano… e per questo non ha la possibilità né il tempo di
pensare alla forza dell’onda e tantomeno al grado della sua salinità.
Anche
in Italia si surfa. Matteo Renzi è il
miglior surfista della spiaggia. Grillo surfa come comico di razza sul copione
preparato da Casaleggio. Matteo Salvini prima e dopo il surf cambia pure le
felpe con la scritta acconcia per esigenze televisive.
Del
terzetto Renzi è indubbiamente il migliore. Basta tuttavia il surf a risolvere i
problemi del Paese in un mondo globalizzato che, secondo papa Francesco, è
entrato, sia pure a capitoli e pezzetti, nella terza guerra mondiale?
Non
lo so. Per questo penso sia sbagliato applicare a Renzi il Tina della signora Thatcher. Ricordate? “Non c’è alternativa”. Un mantra che la politica democratica non
può permettersi.
Anche
in democrazia quando non provi ad andare avanti, non stai fermo: vai indietro.
Sturzo lo sapeva bene. Ma lo sapevano anche Dossetti, la Pira, Lazzati, Fanfani,
che, pur avendo davanti un leader e uno statista della statura di Alcide De Gasperi,
non per arrivismo e neppure per spirito d’avversione, non cessavano di cercare
comunque un’alternativa.
È
la legge di una democrazia vitale e funzionante, di un partito vitale e
funzionante. Basta, come testimonianza, rileggere almeno una parte dell’intenso
epistolario intercorso tra Alcide De Gasperi e Giuseppe Dossetti.
Ho
letto che il giovane onorevole Speranza ha dichiarato ai giornali di lavorare
all’alternativa all’interno del Pd. È una buona notizia, e non perché io abbia
deciso di sostenere Speranza, ma perché questa è la fisiologia che più si
avvicina a un modello di partito democratico. Anche perché – insisto – il non
ricercare alternative spinge a recuperare etichette francamente fuori moda, del
tipo “non c’è alternativa” (già ricordato come mantra della Thatcher), che
tutto sommato risulta una traduzione del latino papalino che parlò di “uomo
della provvidenza”.
Ma
c’è pure da fare i conti con un riflesso esterno di questa dinamica. Chi prende
le mosse per le proprie valutazioni dalla mancanza di alternativa (senza
cercarla) si sente inevitabilmente sospinto, per la legge che trova più agevole
fare unità intorno a un nemico esterno piuttosto che provare a risolvere i
contrasti interni, alla demonizzazione dell’avversario. E infatti tutti i partiti
in campo nel Bel Paese procedono lungo questa strada, che è la meno dialogante
e democratica, dal momento che evita dall’inizio l’ascolto delle ragioni
dell’avversario(interno ed esterno).
Una
tendenza aggravata dal ritmo e dal canovaccio dei talkshow, che chiedono ai
rappresentanti delle diverse forze politiche di partecipare a una sorta di
giostra saracina e di teatro dei pupi dove ognuno ha una parte assegnata, che
esclude in partenza l’ascolto e l’eventuale accordo con l’avversario. Pena non essere
più invitato alla trasmissione (e non esserci più inviato dai vertici del tuo
partito) perché in tal modo si farebbe confusione e si distruggerebbe il
canovaccio dello spettacolo serale.
Così
accade reciprocamente per tutte le fazioni in campo. Il Pd demonizza i Cinque
Stelle e i Cinque Stelle ricambiano. Lo stesso con la Lega di Matteo Salvini.
Dove
il vero problema intorno al quale interrogarsi è non tanto la valutazione delle
intenzioni e della propaganda dei Cinque Stelle, ma le motivazioni che spingono
una parte consistente dell’elettorato e dei giovani italiani a dare il proprio
voto a Beppe Grillo.
E
viceversa per tutte le tre fazioni in campo.
Così
una democrazia deperisce. Perché la democrazia non è tanto interessata a far
vincere qualcuno quanto a vincere essa medesima. Infatti la democrazia non
assicura la vittoria a chi ha ragione,
ma a chi ha il maggior numero di suffragi. Eppure resta la democrazia il
miglior metodo in questi tempi difficili per la ricerca di un qualche bene
comune e di una qualche verità, perché fa parte del corredo e dell’etica
democratica consentire all’avversario di potere eventualmente in futuro
diventare a sua volta maggioranza.
Se
salta questa possibilità, se cioè salta la possibilità dell’alternativa, può
forse essere assicurata pro tempore la governabilità, ma dovremmo essere
coscienti che stiamo pronunciando un dissennato e miope good bye alla democrazia.
Ben
venga dunque l’iniziativa del giovane Roberto Speranza, anche se, valutate le
rispettive posizioni, potrà accadere che io continui a votare Matteo Renzi …
Il teorema di Umberto Eco
Il
giorno successivo alla morte di Umberto Eco Rai-Storia ha mandato in onda
un’interessante intervista ad Umberto Eco. Il grande intellettuale scomparso
fece ancora una volta sfoggio della propria intelligenza e di illuministica
ironia proponendo una sorta di teorema delle falsità di governo.
Il
ragionamento offerto all’intervistatore Gianni Riotta suonava pressappoco così.
Il mondo è governato dalle falsità. Tu prova a scegliere una religione come
visione del mondo. Ne discende immediatamente che tutte le altre religioni
appaiono al suo cospetto false. Lo stesso ragionamento ed atteggiamento vale
per tutte le altre religioni. Eco ne deduceva che miliardi di uomini diversamente
credenti sono governati da diverse proposte, tutte ritenute false da miliardi
di uomini …
In
questo senso, con una forse non spericolata traduzione in politico del discorso
religioso di Umberto Eco, possiamo dire, che ogni fazione demonizza l’avversario.
Se non entrano in gioco la tolleranza, l’ascolto dell’altro, il rispetto
dell’avversario, l’esito non può che essere la guerra, in qualsiasi modo
combattuta.
La
democrazia evita la guerra e l’uccisione dell’avversario. Pratica e teorica. È
per questo che nella primavera del 1996, concludendo per l’Ulivo la campagna
elettorale nel mio collegio di Sesto-Bresso, dopo un lungo e animato dibattito
con i miei competitori – un chirurgo di ascendenze fasciste e una giovane
signora leghista – venuto il mio turno per rivolgere l’appello agli elettori,
dissi, sorprendendo tutti, pressappoco così: “Avete visto quali differenze mi
separano dai miei due avversari. Eppure vi dico che preferisco chi domenica andrà
a votare per uno di loro piuttosto di chi diserterà il voto e la cabina
elettorale”.
I
miei supporter non si mostrarono entusiasti dell’uscita. Eppure vinsi alla
grande, e soprattutto non ho cambiato idea. Sono infatti convinto che una
democrazia non funziona e dura a lungo se fondata sulla demonizzazione dell’avversario.
Un’ultima
parola in coda e quasi come dessert.
Si
è concluso il referendum cosiddetto “sulle trivelle”. Non ho gradito l’invito
all’astensione e sono andato a votare. Chi mi ha più stupito è il presidente
emerito Giorgio Napolitano, che stimo moltissimo. Credo infatti non possa
essergli sfuggito, al di là del diritto ad esprimere il proprio parere, che
prima di lui si era espresso come favorevole al voto l’attuale titolare del
Quirinale: Sergio Mattarella.
Nessuna
dietrologia. Ma un raffronto mi è venuto spontaneo. Non credo che il papa
emerito Benedetto XVI si trovi necessariamente ogni volta d’accordo con le
posizioni espresse dal papa regnante Francesco. Eppure il suo silenzio è
tombale, anzi, mozartiano …
Abbiamo
bisogno in questa che continua ad essere una fase della transizione infinita di
punti di riferimento autorevoli: il Quirinale necessariamente è uno di questi.
Il Quirinale, non la sua ombra.
È
già che ci sono esterno in proposito un’altra considerazione. I miei
venticinque lettori sanno che non ho mai mostrato eccessiva tenerezza per la
vicina Confederazione Elvetica. Anzi ho sempre preso le mosse, con una qualche
perfidia, da una celebre frase del generale Charles De Gaulle che provocò a suo
tempo un incidente internazionale. Aveva detto De Gaulle: “Se uno svizzero si
butta dalla tour Eiffel, seguitelo. C’è senz’altro qualcosa da guadagnare”…
Non
sempre un esempio di generosità la patria di Guglielmo Tell, ma ancora, in più
di un’occasione, un esempio di costume democratico.
Sono
andato a fare un poco di campagna elettorale in Canton Ticino per un giovane
candidato aclista, ingegnere agrario, che alleva nel Malcantone mucche
scozzesi. Durante il dibattito venne fuori il tema del referendum sul secondo
tunnel del Gottardo. Disse l’aspirante deputato: “Se vincerà il sì, proporrò
questo. Se vinceranno i no, proporrò quest’altro”.
C’era
indubbiamente del pragmatismo in quell’atteggiamento, ma c’era, a pensarci
bene, anzitutto il rispetto della volontà popolare. E siccome gli svizzeri i
referendum (senza quorum) hanno l’abitudine di usarli e rispettarli, hanno
deciso per la perforazione del secondo tunnel.
Ma
vi è un’altra cosa che mi ha ulteriormente colpito. Un altro referendum poneva
il quesito se porre un tetto agli stipendi dei manager del settore privato. Non
è passato. Però gli svizzeri sono andati
a votare. E mi sarebbe piaciuto vedere l’effetto dei sì sul maggiore dei
manager di casa nostra, quello del maglioncino. Che vedi caso ha uno stipendio
un poco fuori misura rispetto a quello dei suoi dipendenti. Se Valletta
percepiva uno stipendio 20 volte superiore a quello di un lavoratore della
Fiat, Marchionne – segnala Pizzinato – guadagna 1037 volte di più di un suo
dipendente medio.
Tutti
citano, anche troppo, in questa politica senza fondamenti, i versi delle
canzonette. Ci provo anch’io una volta tanto: mi sarebbe proprio piaciuto vedere l’effetto che fa …