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martedì 3 maggio 2016

Il destino del PD è interno al PD?
di Giovanni Bianchi


Le ragioni del malessere
Le ragioni del malessere che attraversa tutta la politica italiana e il vuoto dei partiti non sono né psicologiche né locali. Stanno dentro cioè la particolare modalità di recezione della globalizzazione nel nostro Paese, che anche in questo caso probabilmente segna un “anticipo”, con tutti i problemi, le difficoltà, le incertezze e le aporie che ne discendono. Vuol dire che, almeno nella mia ottica, non ha senso e non fa capire partire dalla crisi di un singolo partito – sia esso il PD, oppure i Cinque Stelle, oppure la Lega di Salvini, che è il partito più vecchio in campo – a far data da Tangentopoli,  dal 1989 (la caduta del muro di Berlino), e soprattutto dal 9 maggio 1978, con l’assassinio di Aldo Moro.
Il poeta Mario Luzi, che era iscritto ai popolari, ha detto di lui in poesia:

“acciambellato in quella sconcia stiva”…   

Con l’assassinio di Moro incomincia quella che il più grande sturziano doc, Gabriele De Rosa, ha definito La transizione infinita.  Moro si è rivelato il punto di equilibrio di tutto un sistema, non soltanto nelle sue implicazioni nazionali, e con la sua morte incomincia la fine della Dc, vero architrave della politica italiana del secondo dopoguerra. E con la fine della Dc vien giù a pezzi tutto il sistema politico Italiano.
Noi siamo l’unico Paese al mondo, che, a far data dal 1989, ha azzerato tutto il precedente sistema dei partiti di massa. Non c’è più la Dc, non il Pci, non il Psi, neppure il Msi che si è trasformato in An. Il partito più vecchio, appunto, è quello fondato da Umberto Bossi e adesso leaderizzato da Matteo Salvini, che ne ha sovvertito il fondamento e rovesciata la linea.
Per questo, a mio giudizio non ha senso affrontare il problema a partire da un partito: è tutto il sistema che vive un malessere grave e collettivo, che va anzitutto riconosciuto come tale (ossia come generale e collettivo) e indagato sui possibili sviluppi. Un’ottica troppo ristretta, o a partire da un singolo partito, non serve a mio giudizio a capire e non aiuta a trovare gli sbocchi. Non voglio fare, come diceva Bruno Manghi, del “laismo” – dove il problema sta sempre più in là e altrove, e a furia di allargare l’orizzonte eviti di affrontarlo buttando ogni volta il pallone in tribuna – ma partire da un singolo partito e da una sola parte non porta in nessun luogo. La crisi del PD va dunque contestualizzata nella crisi generale della democrazia italiana.
Anche se ci sono in giro i richiami della foresta, le foreste non tornano per nessuno, e i reduci è bene si riconoscano tali, anche per ritrovare un mestiere e non far perdere tempo.
I vecchi partiti non ritorneranno e neppure i loro leaders, anche se trovi in giro chi dice che vuole morire democristiano o comunista. La “rottamazione” ha dato un’etichetta a un processo e a un ricambio generazionale in corso ed inevitabile. Tanto è vero che lo trovate in tutta l’area della politica italiana: Renzi ha dato un nome per il PD a un processo che anche in questo caso è generale.
Renzi in quest’ottica è uno, il più brillante e di maggior successo dentro il coro dei giovani, anche se questi giovani nella politica italiana non cantano in coro e anzi ognuno ha cura di cantare, più o meno intonato, la propria canzone. Una strada comune, anche nei reciproci contrasti, dove la competizione, l’aggressività reciproca e spesso la demonizzazione dell’altro fa parte del copione non scritto, ma non per questo meno efficace. Una sorta di mors tua vita mea  che fatica a rientrare nel quadro costituzionale, dove l’alterità, e anche i reciproci scontri, sono pensati dai padri costituenti come differenze e variazioni su un tema comune, che è quello del bene del Paese, cui anche le minoranze e le opposizioni sono chiamate a concorrere.
I padri costituenti non avevano l’abitudine di abbassare i toni, si affidavano ai tecnici molto meno che nelle vicende odierne (anche se se ne servivano e come). L’articolo sulla famiglia ad esempio passò per un voto di scarto. Ma avevano in comune la tensione a scrivere un progetto per tutti gli italiani.
Dossetti, il 9 settembre del 1946, si fece interprete nella Seconda Sottocommissione di questa spinta e di questa missione. Subito seguito da Palmiro Togliatti, che affermò di avere una concezione della persona diversa da quella di Dossetti, ma di consentire sulla necessità di porre a fondamento della nuova democrazia italiana la persona e non lo Stato.
Detto alle spicce alla plebea: una costituzione non può essere proposta e neppure avversata al di fuori dall’esigenza di essere la piattaforma per tutti, sia di chi si ritrova pro tempore in maggioranza, come di chi si trova in minoranza.
Questo il deposito dei costituenti e del clima complessivo internazionale di allora, con la Carta Universale dei Diritti dell’Uomo e Bretton Woods.


La “transizione infinita”
Quel clima non c’é, per nessuno. E la nostra diagnosi politica deve prendere atto della circostanza e interrogarsi a partire da qui sul destino della “transizione infinita”: che vuol dire sul destino della democrazia italiana, dei partiti, della società civile, del sindacato, di un’etica di cittadinanza, senza la quale un popolo non sta insieme.
Le regole cioè, anche quelle elettorali, anche la positiva introduzione delle primarie, non bastano: la democrazia non è soltanto il rispetto delle procedure, ma un costume, un modo di pensare e di relazionarsi tra i cittadini. Tenendo conto di una trasformazione e di una mutazione antropologica della quale i politici sull’onda hanno preso buona nota: non siamo più soltanto cittadini, ma prevalentemente consumatori.
Una circostanza che impone un mutamento dei rapporti, della comunicazione, dei valori, del territorio, della percezione stessa delle istituzioni. La logica più volte evocata del condominio non è quella del Comune e delle municipalizzate che abbiamo conosciuto a partire da dopo il referendum su Monarchia e Repubblica.
Un fattore evidente attraversa tutto il campo. Più ancora dell’intensità delle trasformazioni, è impressionante la velocità dei mutamenti.   
In questo senso la “rottamazione” ha interpretato una tendenza inarrestabile: non si ferma infatti il vento con le mani. Quel che probabilmente si fa più fatica a mettere a tema è la coscienza che la velocità, una volta introdotta, interessa tutti e tutte le parti, e tutte le generazioni. Talché è prevedibile che l’esigenza di rottamare i rottamatori finirà per sorprendere per il suo anticipo i rottamatori medesimi. Non è né un augurio né un esorcismo: vorrebbe essere la presa d’atto di un trend storico.
Ci sono due precisazioni che mi sento di fare. La prima è che gli eventuali rottamatori dei rottamatori non saranno i loro predecessori (non saranno cioè né D’Alema, né Bersani e neppure Veltroni), ma loro coetanei, magari anche più giovani per anagrafe o anche per metodo. Un’affermazione che mi consiglio di prendere con equilibrio. Ricordo benissimo che Napoleone al tempo della campagna d’Italia aveva 27 anni. Ma ricordo anche una esilarante scenetta di Stanlio e Olio sull’elisir della giovinezza. Stanlio esagera e sbaglia la misura, e la sequenza successiva ce lo presenta in bagno trasformato in scimmia… Anche l’evoluzionismo può essere percorso a ritroso con simpatica ironia.
Ma resta il fatto che la velocità sottopone a tensione i nostri sistemi sociali e più ancora quelli politici. I costituenti, nei loro uomini più acuti, ne avevano la percezione. Per questo Dossetti propose più volte un rafforzamento dell’esecutivo e ho la convinzione che fosse favorevole al monocameralismo.
Il bicameralismo fu sostenuto dalle sinistre comprensibilmente  ansiose di salvaguardarsi da un eventuale strapotere democristiano, favorito dalle condizioni della guerra fredda. Lo stesso schema lo troviamo per l’approccio alle Regioni, dove i due partiti maggiori prendono posizioni diverse rispetto alla propria storia in funzione del controllo e del contenimento dell’avversario.
Sintomo e recezione chiarissima di questo comune sentimento è la presenza nel testo costituzionale dell’articolo 138, che non a caso prevede l’autoriforma del testo medesimo.
Se dunque è vero che compito delle costituzioni è più complicare le cose che semplificarle, è altrettanto vero che le ragioni della realtà hanno la testa più dura di quella delle carte ufficiali. Resta l’ammonimento di Valerio Onida: è per lui difficile e improbabile mettere mano alla Costituzione quando non esiste di fatto un clima e uno spirito costituente.
Gli americani si tengono la loro carta ottocentesca (15 settembre 1787), emendata da pochi emendamenti, e mantengono in costituzione perfino la data delle elezioni: il primo martedì di novembre che non coincida con una giornata festiva.


La tensione tra governabilità e democrazia
Vi è una tensione che attraversa tutta la politica italiana, e non soltanto, a partire dalla metà degli anni Settanta (convegno della Trilateral Commission a Okinawa).
Preoccupava i convenuti a Okinawa un eccesso di democrazia diffuso nel mondo, in particolare un eccesso di partecipazione italiano. Gli atti del convegno sono stati pubblicati anche nella nostra lingua e hanno la prefazione di Gianni Agnelli.
Da allora i due poli dentro i quali muove la politica nazionale, ma non soltanto, sono rappresentati dalla governabilità e dalla democrazia. La tensione è evidente, anche perché non esiste democrazia senza governabilità, ma il massimo della governabilità coincide con il minimo della democrazia.
Ho letto più spesso Il Principe di Machiavelli che i Vangeli, e spero che il Buondio mi perdoni la preferenza. Leggo Il Principe come il manuale più chiaro e ispirato intorno alla governabilità. Davvero Machiavelli è in anticipo e non fa rimpiangere nel nostro Paese la riforma protestante. Tuttavia il segretario fiorentino scrive in un tempo in cui l’omicidio politico fa parte del governo quotidiano delle cose.
Misurata con quella stagione, la democrazia rappresenta indubbiamente un passo avanti, ma anche una complicazione nei confronti della governabilità. Quel che mi pare logico sottolineare è che la tensione va mantenuta e studiata, e non risolta guardando e lavorando a un solo capo della corda.
In questo quadro ovviamente si collocano anche le vicende del vertice del Pd. Un partito conquistato e domato dal leader, e ancora in attesa del nuovo profilo e della conseguente riorganizzazione.
Renzi ha conquistato il partito, e non ha ancora trovato il tempo (lui e i suoi) o la voglia di metterci seriamente mano. Si potrebbe anche almanaccare che attenda per metterci mano il completarsi della mutazione antropologica in corso.
È intorno al nodo democrazia-partecipazione, e alla tensione conseguente, che si gioca nella democrazia italiana il ruolo dei corpi intermedi e dell’ente locale. Un ruolo intorno al quale diverse culture politiche si incontrano e si scontrano.
Il nodo dell’ente locale e in particolare dei cosiddetti “corpi intermedi” è centrale in tutta la dottrina sociale della Chiesa. È anche una presenza che fa da ponte tra il pensiero cattolico e la cultura di sinistra: basta leggere le note programmatiche sul Comune di Turati e Sturzo per averne contezza.

Il punto di vista
Riemerge allora il ruolo centrale che un punto di vista comune da costruire riveste nel percorso e nelle sorti del partito democratico.
Personalmente sono sturziano, non uomo di sinistra, anche se mi è capitata più volte l’avventura di ritrovarmi a sinistra di molti che vengono dai partiti storici della sinistra italiana. Posso fare un breve elenco degli amici-compagni con i quali le mie posizioni si sono misurate: “Occhetto, Michele Salvati, Veltroni, Enrico Morando, il sottosegretario di Padoan e a mio giudizio l’esponente più competente della compagine governativa.
Perché anzitutto il punto di vista? Perché si tratta del luogo dal quale traguardare il futuro del progetto del partito democratico. Perché ritengo meglio avere un punto di vista sbagliato che non avercene nessuno. E perché in effetti la prima difficoltà del Pd è di essere – come ricorda Ilvo Diamanti e diceva Berselli – un partito “presunto”. Un partito perennemente in cantiere e che appare partito soprattutto se confrontato con gli altri partiti in lizza con lui, perché sono meno partito del partito democratico.
Un partito che si è rattrappito nel tesseramento e soprattutto sul territorio. I circoli diminuiscono e spariscono, continuando la deriva tradizionale dei circoli sociali: quelli cattolici, come quelli comunisti, come quelli socialisti.
La mia città, Sesto San Giovanni, ex Stalingrado d’Italia, è un test significativo in tal senso: sono spariti tutti i circoli “Progresso”, “Avvenire” e “San Qualcosa”, mentre prosperano  bar e caffè gestiti dai privati. Nei quali nel frattempo è profondamente mutata anche la clientela, con una prevalenza evidente, che giudico un fatto positivo, di donne rispetto agli uomini.
Il risultato è che mancano i luoghi dove riconoscersi in quanto interessati a un’idea e a un progetto politico.
Sono sparite le figure storiche sulle quali ha camminato la democrazia del dopoguerra, sotto tutte le bandiere ideologiche. È sparito il “militante” politico. È sparito l’intellettuale “organico”. Dunque le grandi narrazioni ideologiche avevano la loro antropologia: idealtipi e gente comune. E invece il Democrat chi è? Basta l’inglese a colmare le lacune?
E’ d’uopo allora fare il punto sulle primarie. Le salutai a suo tempo come il “mito originario” del partito, in mancanza di meglio. E cioè non considerando sufficientemente fondati e conosciuti  la Carta dei valori e il discorso di Veltroni al Lingotto.
Eppure il rischio è che in soli cinque anni si sia riusciti a depotenziare lo strumento e il mito delle primarie. C’è anche da rilevare una mancanza d’attenzione. Non ci importa valutare come un metodo assolutamente americano possa funzionare all’interno di un partito che resta tutto compattamente “europeo”: con un mix di socialdemocrazia e democristianeria.
A dire il vero risultano poco studiate dai politici italiani anche le primarie nel loro Paese d’origine. Quanti sanno che molti couscous del partito democratico americano vengono  organizzati da Uaw, il sindacato dell’automobile? Riuscite a vedere la Camusso o Landini in questa funzione, oppure, sull’altro fronte, il celebrato Marchionne?


Il valore delle etichette
L’ultima etichetta apposta sul barattolo del Pd è quella del partito “della Nazione”. Un’espressione usata da Alcide De Gasperi e riproposta in tempi recenti da Alfredo Reichlin.
Sono importanti le etichette, ma dentro il barattolo?
Sull’importanza delle etichette mi posso soffermare un momento. Il vescovo brasiliano Helder Càmara raccontò che il suo nome, assente dal martirologio cristiano, derivava dalla circostanza singolare e fortuita che sua madre, al momento del parto, sollevò lo sguardo verso una mensola della stanza. Interrogata dalla levatrice sul nome da dare nel battesimo al neonato, lesse l’etichetta di un barattolo di marmellata: Helder appunto. E ritengo molto probabile oltre che auspicabile che un prossimo pontefice provveda a introdurre il nome del santo vescovo di Recife nel novero dei santi sugli altari della Chiesa cattolica.
Interessante e provocatorio l’uso di un’altra etichetta, questa volta nella storia dell’arte italiana. Il pittore Manzoni, uno degli allievi più promettenti di Fontana, espose alla Triennale dei tubetti con la sorprendente etichetta “merda d’artista”. Non mi risulta che qualcuno abbia svitato il coperchio per verificare la consistenza e l’eventuale olezzo del celebrato prodotto, che comunque è entrato nella memoria delle arti figurative.
Quanto invece ad Alcide De Gasperi e Alfredo Rreichlin ho ragione di credere che non intendessero la medesima cosa sotto la comune etichetta di partito “della Nazione”.
Più attento al reale odierno e alle sue possibili evoluzioni, il dotto esperimento di Fabrizio Barca (La traversata. Una nuova idea di partito e di governo). Tuttavia, nonostante il serio impegno intellettuale e anche l’impiego di risorse, l’esperimento non pare avere avuto seguito.
Tutto ciò per dar conto della circostanza che una parte della sinistra non si riconosce in questo partito perché il partito – in senso proprio e classico, e anche nella normalissima realtà – ancora non c’è. È in cammino e, si spera, in via di edificazione.


L’era Renzi
Un partito non nasce da un partito. La storia del socialismo italiano in tal senso è incontrovertibile e perfino didattica. Il vecchio partito (anche al plurale) può invece fare da levatrice rispetto al nuovo. Sangue, carne cervello vengono dal civile e dalle sue trasformazioni storiche.
Messe così le cose, v’è da constatare una non particolare effervescenza verso la forma partito della società civile italiana. Le nuove generazioni di italiani sono le più tranquille d’Europa. Sembrano addirittura dar ragione alla prima delle Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini. Niente che assomigli da noi a Occupy Wall Street, agli Indignados, ai francesi di Place Debout.
Da noi al massimo troviamo i Rottamatori, la Leopolda, la Rete: fenomeni che interessano la parte nuova e giovanile del ceto politico. Che possono far pensare a una sorta di riproposizione aggiornata del “patto generazionale”.
Tuttavia non paiono avere radici profonde tra i fermenti  della società civile. E quando provo questo rudimento di diagnosi non ho in mente Rosa Luxemburg (importata nel Bel Paese da Lelio Basso), ma il primo Alberoni di L’élite senza potere e Classi e generazioni.
I vecchi inquilini dunque lasciano la vecchia casa perché giudicano insopportabili questi nuovi e chiacchieroni inquilini toscani … Provo a ripetermi: Renzi ha scalato il partito e il Paese (lessico della Leopolda), ma il partito l’ha domato, non rifatto.
Del resto il ruolo dei partiti è già profondamente cambiato, e irreversibilmente. A spingere il cambiamento è stata soprattutto la società globale, quella nella quale tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria.
Serve voltarsi indietro? Serve ricordare che Aldo Moro aveva l’abitudine di ripetere: “Il pensare politica è già per il novantanove percento fare politica”? (Una involontaria provocazione.)
Nei tempi correnti il pensiero e la propaganda politica sono stati sostituiti dalla pubblicità. I politici non governano i problemi dei cittadini, ma le emozioni dei consumatori. Non a caso le giovani sociologhe americane hanno coniato per le politiche correnti il verbo surfare: l’attitudine acrobatica di chi sta in equilibrio sulla tavoletta cavalcando l’onda immensa dell’oceano… e per questo non ha la possibilità né il tempo di pensare alla forza dell’onda e tantomeno al grado della sua salinità.
Anche in Italia si surfa. Matteo Renzi è il miglior surfista della spiaggia. Grillo surfa come comico di razza sul copione preparato da Casaleggio. Matteo Salvini prima e dopo il surf cambia pure le felpe con la scritta acconcia per esigenze televisive.
Del terzetto Renzi è indubbiamente il migliore. Basta tuttavia il surf a risolvere i problemi del Paese in un mondo globalizzato che, secondo papa Francesco, è entrato, sia pure a capitoli e pezzetti, nella terza guerra mondiale?
Non lo so. Per questo penso sia sbagliato applicare a Renzi il Tina della signora Thatcher. Ricordate? “Non c’è alternativa”. Un mantra che la politica democratica non può permettersi.
Anche in democrazia quando non provi ad andare avanti, non stai fermo: vai indietro. Sturzo lo sapeva bene. Ma lo sapevano anche Dossetti, la Pira, Lazzati, Fanfani, che, pur avendo davanti un leader e uno statista della statura di Alcide De Gasperi, non per arrivismo e neppure per spirito d’avversione, non cessavano di cercare comunque un’alternativa.
È la legge di una democrazia vitale e funzionante, di un partito vitale e funzionante. Basta, come testimonianza, rileggere almeno una parte dell’intenso epistolario intercorso tra Alcide De Gasperi e Giuseppe Dossetti.
Ho letto che il giovane onorevole Speranza ha dichiarato ai giornali di lavorare all’alternativa all’interno del Pd. È una buona notizia, e non perché io abbia deciso di sostenere Speranza, ma perché questa è la fisiologia che più si avvicina a un modello di partito democratico. Anche perché – insisto – il non ricercare alternative spinge a recuperare etichette francamente fuori moda, del tipo “non c’è alternativa” (già ricordato come mantra della Thatcher), che tutto sommato risulta una traduzione del latino papalino che parlò di “uomo della provvidenza”.
Ma c’è pure da fare i conti con un riflesso esterno di questa dinamica. Chi prende le mosse per le proprie valutazioni dalla mancanza di alternativa (senza cercarla) si sente inevitabilmente sospinto, per la legge che trova più agevole fare unità intorno a un nemico esterno piuttosto che provare a risolvere i contrasti interni, alla demonizzazione dell’avversario. E infatti tutti i partiti in campo nel Bel Paese procedono lungo questa strada, che è la meno dialogante e democratica, dal momento che evita dall’inizio l’ascolto delle ragioni dell’avversario(interno ed esterno).
Una tendenza aggravata dal ritmo e dal canovaccio dei talkshow, che chiedono ai rappresentanti delle diverse forze politiche di partecipare a una sorta di giostra saracina e di teatro dei pupi dove ognuno ha una parte assegnata, che esclude in partenza l’ascolto e l’eventuale accordo con l’avversario. Pena non essere più invitato alla trasmissione (e non esserci più inviato dai vertici del tuo partito) perché in tal modo si farebbe confusione e si distruggerebbe il canovaccio dello spettacolo serale.
Così accade reciprocamente per tutte le fazioni in campo. Il Pd demonizza i Cinque Stelle e i Cinque Stelle ricambiano. Lo stesso con la Lega di Matteo Salvini.
Dove il vero problema intorno al quale interrogarsi è non tanto la valutazione delle intenzioni e della propaganda dei Cinque Stelle, ma le motivazioni che spingono una parte consistente dell’elettorato e dei giovani italiani a dare il proprio voto a Beppe Grillo.
E viceversa per tutte le tre fazioni in campo.
Così una democrazia deperisce. Perché la democrazia non è tanto interessata a far vincere qualcuno quanto a vincere essa medesima. Infatti la democrazia non assicura la vittoria a chi  ha ragione, ma a chi ha il maggior numero di suffragi. Eppure resta la democrazia il miglior metodo in questi tempi difficili per la ricerca di un qualche bene comune e di una qualche verità, perché fa parte del corredo e dell’etica democratica consentire all’avversario di potere eventualmente in futuro diventare a sua volta maggioranza.
Se salta questa possibilità, se cioè salta la possibilità dell’alternativa, può forse essere assicurata pro tempore la governabilità, ma dovremmo essere coscienti che stiamo pronunciando un dissennato e miope good bye alla democrazia.
Ben venga dunque l’iniziativa del giovane Roberto Speranza, anche se, valutate le rispettive posizioni, potrà accadere che io continui a votare Matteo Renzi …



Il teorema di Umberto Eco
Il giorno successivo alla morte di Umberto Eco Rai-Storia ha mandato in onda un’interessante intervista ad Umberto Eco. Il grande intellettuale scomparso fece ancora una volta sfoggio della propria intelligenza e di illuministica ironia proponendo una sorta di teorema delle falsità di governo.
Il ragionamento offerto all’intervistatore Gianni Riotta suonava pressappoco così. Il mondo è governato dalle falsità. Tu prova a scegliere una religione come visione del mondo. Ne discende immediatamente che tutte le altre religioni appaiono al suo cospetto false. Lo stesso ragionamento ed atteggiamento vale per tutte le altre religioni. Eco ne deduceva che miliardi di uomini diversamente credenti sono governati da diverse proposte, tutte ritenute false da miliardi di uomini …
In questo senso, con una forse non spericolata traduzione in politico del discorso religioso di Umberto Eco, possiamo dire, che ogni fazione demonizza l’avversario. Se non entrano in gioco la tolleranza, l’ascolto dell’altro, il rispetto dell’avversario, l’esito non può che essere la guerra, in qualsiasi modo combattuta.
La democrazia evita la guerra e l’uccisione dell’avversario. Pratica e teorica. È per questo che nella primavera del 1996, concludendo per l’Ulivo la campagna elettorale nel mio collegio di Sesto-Bresso, dopo un lungo e animato dibattito con i miei competitori – un chirurgo di ascendenze fasciste e una giovane signora leghista – venuto il mio turno per rivolgere l’appello agli elettori, dissi, sorprendendo tutti, pressappoco così: “Avete visto quali differenze mi separano dai miei due avversari. Eppure vi dico che preferisco chi domenica andrà a votare per uno di loro piuttosto di chi diserterà il voto e la cabina elettorale”.
I miei supporter non si mostrarono entusiasti dell’uscita. Eppure vinsi alla grande, e soprattutto non ho cambiato idea. Sono infatti convinto che una democrazia non funziona e dura a lungo se fondata sulla demonizzazione dell’avversario.
Un’ultima parola in coda e quasi come dessert.
Si è concluso il referendum cosiddetto “sulle trivelle”. Non ho gradito l’invito all’astensione e sono andato a votare. Chi mi ha più stupito è il presidente emerito Giorgio Napolitano, che stimo moltissimo. Credo infatti non possa essergli sfuggito, al di là del diritto ad esprimere il proprio parere, che prima di lui si era espresso come favorevole al voto l’attuale titolare del Quirinale: Sergio Mattarella.
Nessuna dietrologia. Ma un raffronto mi è venuto spontaneo. Non credo che il papa emerito Benedetto XVI si trovi necessariamente ogni volta d’accordo con le posizioni espresse dal papa regnante Francesco. Eppure il suo silenzio è tombale, anzi, mozartiano …
Abbiamo bisogno in questa che continua ad essere una fase della transizione infinita di punti di riferimento autorevoli: il Quirinale necessariamente è uno di questi. Il Quirinale, non la sua ombra.
È già che ci sono esterno in proposito un’altra considerazione. I miei venticinque lettori sanno che non ho mai mostrato eccessiva tenerezza per la vicina Confederazione Elvetica. Anzi ho sempre preso le mosse, con una qualche perfidia, da una celebre frase del generale Charles De Gaulle che provocò a suo tempo un incidente internazionale. Aveva detto De Gaulle: “Se uno svizzero si butta dalla tour Eiffel, seguitelo. C’è senz’altro qualcosa da guadagnare”…
Non sempre un esempio di generosità la patria di Guglielmo Tell, ma ancora, in più di un’occasione, un esempio di costume democratico.
Sono andato a fare un poco di campagna elettorale in Canton Ticino per un giovane candidato aclista, ingegnere agrario, che alleva nel Malcantone mucche scozzesi. Durante il dibattito venne fuori il tema del referendum sul secondo tunnel del Gottardo. Disse l’aspirante deputato: “Se vincerà il sì, proporrò questo. Se vinceranno i no, proporrò quest’altro”.
C’era indubbiamente del pragmatismo in quell’atteggiamento, ma c’era, a pensarci bene, anzitutto il rispetto della volontà popolare. E siccome gli svizzeri i referendum (senza quorum) hanno l’abitudine di usarli e rispettarli, hanno deciso per la perforazione del secondo tunnel.
Ma vi è un’altra cosa che mi ha ulteriormente colpito. Un altro referendum poneva il quesito se porre un tetto agli stipendi dei manager del settore privato. Non è passato. Però gli svizzeri  sono andati a votare. E mi sarebbe piaciuto vedere l’effetto dei sì sul maggiore dei manager di casa nostra, quello del maglioncino. Che vedi caso ha uno stipendio un poco fuori misura rispetto a quello dei suoi dipendenti. Se Valletta percepiva uno stipendio 20 volte superiore a quello di un lavoratore della Fiat, Marchionne – segnala Pizzinato – guadagna 1037 volte di più di un suo dipendente medio.  
Tutti citano, anche troppo, in questa politica senza fondamenti, i versi delle canzonette. Ci provo anch’io una volta tanto: mi sarebbe proprio piaciuto vedere l’effetto che fa