IL PANE DIFFICILE
di Celestina Viola
Molti
hanno dentro il ricordo festoso, magico di un campo di grano: spighe d’oro e
papaveri rossi. Colori ardenti, quasi impudichi, pregni di fulgida, muliebre
bellezza. Non tutti, però, nel loro girovagare di ragazzi hanno incontrato un
campo di grano, questo luminoso incanto. Qualcuno ne ha veduta una eco felice solo
negli splendidi dipinti del Monet, del Manet, del Renoir o altri ancora. I più
non sanno neppure com’è, né sanno che il pane è la paziente avventura di un
chicco, di una spiga: moltissimi infatti non conoscono il sapore del pane.
La
loro storia è solamente il ricordo di una estenuante fame. Neppure sanno che
sulla loro sventurata vicenda s’è costruito, con dovizia di mezzi, una
suggestiva, redditizia campagna pubblicitaria “la fame nel mondo” per modo che
tutti sappiamo, che tutti convivano –beatamente- con questo spettro: la fame
degli altri; senza -naturalmente- esserne toccati, solo opportunamente informati
poiché ciò è il diritto-dovere della cronaca, del pietismo, dello
spettacolo-verità, della libertà. Quante motivazioni per contrabbandare
l’indifferenza, l’egoismo, l’impudenza, l’inerzia. Cose scontate si dirà, ne
convengo, ma non per questo meno vere e diffuse.
È
sufficiente guardare un poco d’attorno per notare che sostanzialmente quasi
niente viene fatto o si farà mai, per la fame nel mondo. Nessuna nazione
converte gli iniqui stanziamenti per gli armamenti in favore di una politica
che trasformi le sacche di morte in campi di grano: spighe d’oro e papaveri
rossi per tutti gli uomini del mondo. Nessuna organizzazione raccoglie le forze
degli uomini di buona volontà perché divengano l’irresistibile cammino della
generosità concreta, attiva, feconda, che muta i deserti in pianure fertili,
ubertose; le pietre in pane. Per l’umanità martoriata, costretta a cavarsi la
sete con l’acqua salata, senza mai toccar col dente, si è escogitato solamente
la raccolta di un obolo. Un po’ di elemosina: ecco la grande, nobile trovata
dell’uomo della luna!
Troviamo,
così, la fame nel mondo persino luccicante nelle vetrine, tra le strenne
natalizie. La fame degli altri. Convenientemente confinata in un ghetto
lontano, rassicurante, che esorcizza la nostra paura, che legittima la nostra noncuranza. È l’amplificazione di questo torpore ha la sua forma più
consolatoria nella TV. Dopo la denuncia dell’intollerabile realtà che ripugna,
fa sfilare le immagini pubblicitarie di famigliole da insultante fola: leziose,
scioccherellone nel loro fatuo, inchiodato sorriso davanti al pane in fette, in krackers ed in mille altre sofisticate maniere. E sì, perché la pagnottella, il
fornaio sono cose superate, siamo oramai alla “boutique”! Meglio sarebbe dire
che sappiamo benissimo che i 2/3 della popolazione mondiale è sottoalimentata,
che un bambino su tre muore per fame, che noi -però- vogliamo esclusivamente,
ferocemente il nostro benessere, che lottiamo perché si consolidi, perché
aumenti. Si rifugge da ogni chiarezza, da ogni lucidità. La nostra aridità,
inesorabile, spietata, non è scossa dallo stermino per fame, né dalle
putrefatte menzogne dei mass-media. Si uccide lasciando morire di fame intere
popolazioni, si uccide lasciando morire la verità nelle coscienze. Perché la
verità non paga, non dà travolgenti consensi elettorali, non rende inamovibili
le poltrone del Palazzo, non impingua i compiacenti conti cifrati svizzeri, né
accresce tangenti, o favorisce intrallazzi, o incoraggia oppressioni,
sfruttamenti, soprusi, truffe, imbrogli, omertà, violenze. Anche il difficile
pane della verità deve essere fatto marcire: che se ne perda la memoria.