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venerdì 6 gennaio 2017

È MORTO UN ARTISTA
di Francesco Piscitello

Oggi all’età di 93 anni Guido Antonelli ha voltato le spalle al mondo. 
Francesco Piscitello che è stato uno dei suoi amici più costanti,
ne traccia questo ricordo per i lettori di “Odissea”.

[Guido Antonelli in un autoritratto nelle vesti di Don Chisciotte]


Se fosse ancora in vita, Guido Antonelli, non mi farebbe mancare la sua protesta vibrata. Vibrata? È dir poco, vibrata: furiosa, piuttosto. La sua protesta, dicevo, qualora scrivessi: “Guido ci ha lasciati”, o “si è spento” o “è passato a miglior vita”. Una miglior vita peraltro alla quale, ateo com’era, non credeva. Non solo ateo ma, da focoso romagnolo ravennate, convinto mangiapreti. Alieno da qualsiasi enfasi e anzi compiaciuto cultore dell’antiretorica, l’unica formulazione che avrebbe accettato sarebbe: “Guido è morto”. Al massimo: “È deceduto Guido, il pittore”. Guido, comunque, non c’è più. Alcuni di noi che gravitiamo intorno a Odissea lo hanno conosciuto. E ne proveranno dispiacere.
Non sono in grado di esprimere giudizi sulla sua arte. Non ne possiedo gli strumenti culturali. A me piaceva. Lo ritengo un pittore di qualità. Che tuttavia aveva sempre rifiutato sdegnosamente di promuovere se stesso e il suo lavoro. Fare una mostra? Per carità! Quando accadeva, era più qualcosa che subiva, non senza resistenza comunque, che non qualcosa di cui essere lieto. Perché? Non c’è un perché. Perché era fatto così. E basta. Vendeva i suoi quadri per un quinto del loro valore. Agli amici per un decimo. Quando addirittura non li regalava, E così viveva modestamente. Modestissimamente. Però al bar, al ristorante, bisognava precederlo con uno scatto felino, per arrivare primi alla cassa. E tollerare poi, in ogni caso, la sua intemerata.
Guido Antonelli: nome d’arte. Che sostituiva quello vero: Antonio Guidazzi. Gli stava meglio questo, però. Aspra e tagliente, quella doppia zeta si adattava di più al suo caratteraccio che non la soave dolcezza di “Antonelli”.
Quando ancora era in carne non ha mai raggiunto, io credo, i cinquanta chili di peso. Paracadutista a El Alamein, toccava sempre, ovviamente, il suolo per ultimo. Era un’osservazione che lo divertiva. Prigioniero degli inglesi gli prendeva i camion e se ne andava per i fatti suoi. Riuscendo però sempre a salvarsi. Chissà come.
Gli debbo molta riconoscenza. È attraverso lui che ho conosciuto il mondo delle lettere milanesi: Angelo Gaccione, Vincenzo Guarracino, Luciano Erba, Gilberto Finzi e molti altri. Finzi, che non era critico letterario di facili approvazioni, apprezzava la sua poesia. Perché Guido era anche poeta. Senza fare alcunché, non sia mai!, per farlo sapere. Lo sapevano solo gli intimi, o pochi più. Saggista, anche. “Il caso Pound”, “Il dubbio mistico e l’oblio”, “Le Muse inquietanti”. Ultimamente aveva aderito a un movimento letterario, il “connettivismo”.

Questi sono versi suoi:

…Vedete le sue ceneri. Nemmeno il vento
le degna. Nemmeno una cascata
di stronzi più in là muove proclive
a un cenno. È la fine, la fine di tutto.
Poiché s’era preteso un inizio, il soffio,
per questa parabulìa ancora appesa
alla crisalide. Né fuoco, né cenere
ma stretti alla banchisa, ma esperti
gondolieri, della vita figli non degeneri.


Mi fermo qui. Non avrebbe gradito, Guido, troppe parole. Parole, in ogni caso, non facili da scegliere. Possibilmente, non fra quelle troppo encomiastiche. Dirò soltanto, allora, che è morto il più grande fottuto polemista, provocatore e bastiancontrario che io abbia mai conosciuto.  E che mi mancherà.