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domenica 26 febbraio 2017

Alli benigni lettori
Segnaliamo nella Rubrica “Agorà”
il lungo scritto di Ferruccio Capelli
dal titolo: “L’idea di Socialismo”,
riflessione sul libro di Axel Honneth

Axel Honneth

sabato 25 febbraio 2017

CIVILTÀ EUROPEA
di Fulvio Papi

Questo scritto impegnativo”, come Papi stesso lo ha definito nel suo biglietto di accompagnamento, è stato scritto a Stresa nell’agosto del 2014. Quanto il filosofo avesse visto lontano, lo mostra quel che è di recente avvenuto negli Stati Uniti con la presidenza Trump e la sua politica estera.


Quando anni fa vi è stata una disputa sulle origini culturali dell’Europa, divisi e competitori tra il Cristianesimo e l’Illuminismo, ho pensato che si trattava del solito diluvio di chiacchiere ideologiche prive di qualsiasi fondamento storico e intellettuale se non il desiderio di una identità onnivora. Per mostrare la complessa dimensione culturale europea ci vorrebbero molti volumi aderenti all’esperienza reale, al gioco di forze, di ideologie, di istituzioni, di gruppi culturali omogenei, senza privilegiare un elemento rispetto al quale gli eventi e le identità assumono un valore solo relativo e secondario, come è accaduto nelle storie del liberalismo che, detto e non detto, veniva considerato il punto culminante della storia europea, ed era soltanto l’autobiografia di un importante, ma del tutto minoritario, ceto intellettuale il quale considerava che la vera storia è quella dei documenti scritti e discussi anche molto duramente da ceti in possesso di conoscenze, di libri, di amicizie idonee e anche del denaro almeno sufficiente per poter vivere a questo livello. Tutti gli altri non erano nulla, era la necessaria “naturale esteriorità” perché il corso storico avesse la sua energia e il suo successo. Per accennare solo alla inutilità di questa disputa con parole del lessico colto basta chiedere: “quale cristianesimo”? 


Quello dei protestanti svedesi che volevano uccidere i cattolici polacchi, quello dei cosacchi ortodossi che avevano in mente lo stesso progetto, quello del cristianesimo post-tridentino, o quello del Vangelo considerato nella sua originaria letterarietà, fuori dai modi in cui è stato più che interpretato, distorto molto spesso dai poteri religiosi? E per quanto riguarda la tradizione laica, stiamo parlando del “peuple” dei giacobini francesi o dell’individualismo economico-sociale della tradizione inglese, che già Stuart Mill considerava fondamentale, ma non esaustivo dei bisogni sociali, e soprattutto contraddetta da un conformismo sociale ispirato a una morale religiosa che, oltre che al filosofo inglese, avrebbe generato ripugnanza in uno straordinario scrittore religioso come Kierkegaard. E dov’era l’Europa quando quasi tutti, scienziati e intellettuali tedeschi, plaudirono nel 1914 all’imperatore Guglielmo interprete della Kultur tedesca nei confronti dell’utilitarismo individualistico degli stati occidentali? E dov’era l’Europa quando, fatta la grandissima eccezione di Romain Rolland (scandalo nazionale), la cultura francese diede prova di un nazionalismo “spirituale” ed ottuso sino a tollerare che venissero imputate ai soldati tedeschi crudeltà ascrivibili soltanto a un tessuto sociale e politico barbaro?


Si potrebbe continuare, ma si possono saltare tutti gli infiniti esempi, dicendo che una qualsiasi persona o una qualsiasi comunità è proprio formata nella sua identità dalle differenze che ha attraversato, senza sottovalutare elementi autoctoni di lunga permanenza storica. Solo a livello del pregiudizio oggi valgono le antropologie dei popoli che andavano di moda nel Settecento e che anche Kant recepì in una sua celebre opera giovanile. Quanto all’Europa, come simbolo culturale, come tessuto dell’intelligenza e della poesia, nel Novecento, prima dei progetti dei valorosi europeisti mandati al confine dal regime fascista, credo si possa ricordare Valéry Larbaud la cui eco, più o meno sotterranea ma certa, si avverte nella cultura di Milano degli anni Trenta.
L’Europa di cui parliamo oggi è un’idea che nacque dopo la strage della seconda guerra mondiale e che divenne attuale, rispetto ad altri propositi politici, proprio perché era costruita dalla orrenda materialità dei 6 anni del conflitto. Le idee non sono tutte uguali, alcune fingono (nel senso leopardiano) prospettive eticamente rilevanti, ma proprie solo di quel mondo del lavoro ideale che è una possibilità del pensiero. Altre sono idee che incarnano eventi, conflitti, tragedie. L’idea di Europa del nostro dopoguerra ha proprio questa caratteristica, ma ciò non toglie che essa fosse una idea che doveva superare una serie indeterminata di ostacoli per diventare una realtà. E infatti, anche dopo la moneta unica (che fu un’utile “forzatura” economica che diede ad ogni moneta la medesima identità, con tutto quello che ne consegue), dopo innumerevoli normative, l’Europa come “stati uniti d’Europa” è ancora tutta da fare. 


Un’entità simile, che può lasciare alcune prerogative locali necessarie, richiede, nel mondo contemporaneo, una direzione unitaria che abbia a che vedere con la dimensione fiscale, con le norme per la salute, per l’infanzia e per la vecchiaia, per il lavoro, con una rete pensionistica, con un sistema giudiziario, con regole per il mondo produttivo e per quello finanziario. Tutte cose che non esistono e che hanno mostrato, in questi anni difficili, misure, competitività, occasioni o perdite di mercato differenti. Di solito l’espressione che ho usato “anni difficili”, viene sostituita con la parola “crisi” che richiederebbe una relazione corretta tra le possibilità di crisi della situazione economica attuale, e la conoscenza storica approfondita delle ragioni che l’hanno innestata. Serve una teoria non solo una narrazione. Se si vogliono dire solo due parole, allora basta rievocare l’avidità e la sufficienza della finanza americana che ha intossicato una finanza (provincialmente e avidamente) mimetica a livello europeo. Ma se si tratta di “due parole”, allora oggi varrebbe la pena di domandarsi che cosa possa accadere nell’Europa attuale qualora in USA prevalesse una tendenza isolazionista rafforzata fortemente dall’opinione pubblica che non vuole altri morti per la “democrazia” di qualcuno, e, materialmente, dal quasi raggiungimento energetico autosufficiente degli Stati Uniti. 


Non so ovviamente se qualcuno pensa a una prospettiva del genere, ma la recente presa di posizione di Draghi, nelle sue proposte, è come se  ci avesse pensato. Il progetto che sia la politica internazionale europea a collaborare e a intervenire nelle cosiddette “riforme” che ogni paese, per le sue difficoltà interne, ha notevoli difficoltà a realizzare, è del tutto sensato. “Sensato” che cosa vuol dire? Significa che a livello della progettazione intellettuale, di quella meravigliosa finzione che è l’esercizio del pensare, il discorso di Draghi ha dalla sua tutte le prerogative di un razionalismo che, a livello teorico, vuole trovare la soluzione di un problema, o, meglio, di una situazione problematica, piena di diseguaglianze e di differenze com’è oggi l’Europa. Dal punto di vista filosofico, dopo tanta festività nichilista dei “pensatori” istituzionali, sembra quasi la rinascita di Dewey. Ma qui si incontrano le difficoltà che mezzo secolo fa si obiettavano a Dewey. Il suo modello razionalista, se il problema è semplice, funziona facilmente. Ma se, come nel nostro caso, le difficoltà sono veramente notevoli, non è sufficiente la descrizione ottimale del problema, è necessario progettare, magari una riforma per volta (come dice Boeri), passo per passo, ma progettare in modo in cui la descrizione razionale divenga una tecnica operativa. 


E qui vorrei rassicurare tutti i giovani e meno giovani, gli inesperti che tromboneggiano, come gli esperti che conoscono le difficoltà, che la “tecnica operativa” è un’azione squisitamente politica ovviamente supportata da saperi che non dogmatizzano la loro disciplina, ma usano le loro conoscenze in connessione diretta con la politica. Dovrei spiegare a lungo il perché è un’operazione “politica”. Lascio perdere confutazioni inutili e che non meritano nemmeno il tempo per farle. Mi limiterò a sostenere che nella trasformazione del mondo degli ultimi decenni di cui oggi non abbiamo solo i sintomi, ma le prime realizzazioni, abbiamo bisogno dell’Europa come efficiente unità politica con il suo equilibrio interno e la sua volontà di pace all’estero, con la sua economia efficiente, le sue istituzioni colte ed efficaci, le garanzie sociali che ne qualificano la civiltà, e una sua propria presenza internazionale capace di ogni integrazione possibile, ma anche di un proprio sistema autonomo di difesa. Altrimenti succederà quello che ho recentemente riletto, e cioè che l’impero romano, un capolavoro storico nell’integrazione giuridica delle varie culture, non cadde nel 476 d.C., ma si decompose giorno per giorno quando non seppe rispondere attivamente alle nuove esigenze che nascevano dal corpo imperiale perché la sua classe dirigente non realizzava più i suoi compiti e, piuttosto, consumava solo le risorse disponibili. Non credo che la storia sia maestra di vita, in senso teorico, però può aiutare a comprendere con una rilevante metafora chi siamo, dove siamo, che cosa possiamo essere, al di là dello sciame di quotidiane chiacchiere insulse.


Provate solo a pensare a questo scenario: gli USA inaugurano una prevalente politica isolazionista (favorita dal peso marginale delle loro esportazioni e dalla quasi raggiunta autonomia energetica) dopo le fallite prove imperiali. E non dimentichiamo però 50 anni e più di “pax europea” sotto l’ombrello atomico americano. Un Medioriente dove il peso e la forza politica degli integralismi diventano più rilevanti con un indice endemico di conflittualità con effetti, magari anche a livello monetario, non calcolabili ora. Pensate a un sistema ambientale che, in queste condizioni, diviene sempre più pericoloso, se non insostenibile. Occorre misurare la possibilità di una civiltà europea su questi parametri che possono appartenere solo a una politica colta e a una cultura che non si specchi nell’ordine della sua disciplina, ma si consideri attiva ed efficace in una dimensione politica. Non pare, del resto, sia proprio una grande scoperta se noi ricordiamo la storia del pensiero filosofico-politico. 

venerdì 24 febbraio 2017

Tremestieri. Il grande porto
dall’insostenibile impatto ambientale
di Antonio Mazzeo

Come realizzare un’opera insostenibile dal punto di vista ambientale, convertendo le legittime aspirazioni di una città di liberarsi dal transito dei mezzi pesanti in un business milionario per le aziende post-tangentopoli e i progettisti del consumo di territorio. Accade a Messina con la “Piattaforma  logistica  intermodale con annesso scalo portuale di Tremestieri” (la prima tranche di lavori, già appaltati, prevede una spesa pubblica di 73 milioni di euro): un intervento con devastanti effetti sui fondali e la fragile costa a sud della città peloritana, ultrasensibile ai sismi e alle correnti marine e che ripropone quasi tutte le criticità e le vulnerabilità dello scongiurato Ponte sullo Stretto. E non poteva essere diversamente, del resto, dato che ad occultarne o mistificarne la violenza sul territorio ci sono stati anche certi teorici della sostenibilità della megainfrastruttura per l’attraversamento stabile tra Scilla e Cariddi.     
“La Valutazione di Impatto Ambientale già effettuata per il costruendo porto di Tremestieri è da ritenersi datata, carente ed inidonea ad affrontare i problemi di un’opera complessa e costosa in un territorio di alta fragilità, terrestre e marina”, scrivevano i rappresentanti di tre tra le maggiori associazioni ambientaliste nazionali (Man - Associazione Mediterranea per la Natura, Italia Nostra e Wwf) in un documento inviato il 28 luglio 2015 ai ministri dei Trasporti e infrastrutture Graziano Delrio, e dell’Ambiente Gian Luca Galletti. “Condividiamo la necessità di spostare il traffico pesante fuori dall’area urbana, ma non possiamo condividere scelte non ponderate, quale quella dell’ampliamento del porto di Tremestieri. In attesa di una corretta e approfondita verifica dei suoi reali costi ambientali, sociali ed economici, nel breve, medio e lungo termine, ci preme chiedere che venga riavviata una nuova e approfondita istruttoria sull’impatto ambientale del nuovo progetto: senza di essa, saranno vanificate le notevoli somme che si intendono investire senza risolvere il problema dell’attraversamento del traffico pesante”. Alla richiesta di Man, Italia Nostra e Wwf veniva allegata un’accurata documentazione scientifica con le numerose osservazioni critiche al progetto che le tre associazioni avevano già inviato nei mesi di aprile, luglio e settembre 2014 alla Commissione VIA-VAS (valutazione impatto ambientale e valutazione ambientale strategica) del Ministero dell’ambiente, ma che tuttavia veniva colpevolmente e integralmente ignorata dalle autorità di governo, dalla stramaggioranza delle forze politiche e sociali e dalla stessa amministrazione comunale guidata dal NoPonte Renato Accorinti.


“Il porto attuale di Tremestieri che oggi si vorrebbe ampliare, è stato realizzato in procedura di emergenza, ha rivelato oggettivi limiti di praticabilità e ha innescato fenomeni di erosione costiera estremamente gravi”, spiegavano Man, Italia Nostra e Wwf. “Si interra ad ogni forte sciroccata e per riattivarlo si investono ingenti somme pubbliche, fino alla successiva sciroccata che interra nuovamente il bacino portuale. Il nuovo porto verrebbe realizzato in un’area ad alto rischio idrogeologico (un aspetto gravemente sottovalutato dai progettisti), a sud dello scalo attuale che si è dimostrato inidoneo ad assorbire il traffico dell’attraversamento dello Stretto. L’infrastruttura interferisce con lo sbocco di ben tre fiumare (Guidara, Canneto o Palummara, Farota), nell’ambito territoriale interessato dalla drammatica alluvione del 1° ottobre 2009, dove è altissimo il rischio di nuove alluvioni, per conformazione geomorfologica ed esposizione. Per le tre fiumare, sono previsti ulteriori regimazioni e intubamenti, oltre a vasche di raccolta, a monte, del materiale detritico che precipiterebbe con le piogge dai monti sovrastanti”.
Le associazioni evidenziavano inoltre come nella stesura del progetto definitivo dell’impianto portuale di Tremestieri non si sia tenuto conto delle mappe prodotte dall’ENEA nel febbraio 2013 (su commissione del Comune di Messina) e relative al rischio di erosione, suscettibilità a innesco di crolli, colate rapide, scorrimenti rotazionali e traslazionali nella zona sovrastante l’area di progetto. “Nessuno, nell’iter del 2014, ha poi preso in considerazione quanto già riportato nel parere del 2011, in relazione alla possibilità che la discarica illegale a monte della fiumara Guidara (materiali e rifiuti pericolosi) possa riversarsi sul torrente e arrivare alla foce”, aggiungono Man, Italia Nostra e Wwf. “Nessuno può escludere che possa piovere come e/o più del 1° ottobre 2009, che le vasche di raccolta del materiale detritico siano insufficienti e che dove si vorrebbe realizzare il nuovo porto, non possa riversarsi una valanga di fango e detriti”.


Cambiano gli ingredienti ma i disastri son gli stessi
All’indice degli ambientalisti pure le notevoli differenze nei materiali previsti per la realizzazione del nuovo porto, proposte il 30 luglio 2014 dalle imprese che si sono aggiudicate la gara d’appalto (l’associazione temporanea guidata dalla Nuova Coedmar Srl di Chioggia, mandante il Consorzio Cooperativo Costruzioni CCC di Bologna). “Sono subentrate modifiche dei materiali in termini di percentuale e tipologia, senza una verifica approfondita, nonostante si intervenga in una zona a rischio sismico di livello 1”, spiegano le organizzazioni. “Per il molo foraneo il nuovo progetto prevede un incremento del conglomerato cementizio del 12,33% e del 100% del materiale di scogliera e del conglomerato bituminoso (nel progetto 2011 non era riportato nulla in proposito); per le banchine di riva, si riduce del 78,71% l’impiego di acciaio, mentre il conglomerato cementizio cresce del 31,73%, il materiale di scogliera del 43,22% e il conglomerato bituminoso del 100%. Per gli interventi sui torrenti si registra una diminuzione rispetto al 2011 del 393,73% del conglomerato cementizio, del 144,92% dell’acciaio e del 43,14% del materiale arido e, di contro, un lieve aumento del pietrame (11,84%). Chi può escludere che il cambio di materiale proposto spontaneamente dal proponente, può essere sufficiente a garantire che nulla accada in ambito portuale in caso di piogge eccezionali, stante quanto già affermato nel parere del 2011 e quanto riportato dalle mappe dell’ENEA del 2013?”.
Le associazioni ambientaliste lamentano pure l’elevata criticità in termini di approvvigionamento delle risorse idriche necessarie sia in fase di cantiere che di esercizio (a regime, secondo i progettisti, il porto di Tremestieri consumerà 500 m/c d’acqua al giorno), quantità difficilmente reperibili senza che si aggravi ulteriormente la situazione nei siti di prelievo per l’area urbana di Messina dell’Alcantara e Fiumefreddo. “I dati sulla dinamica costiera non sono aggiornati (risalgono al 2008), nonostante già poco tempo dopo la realizzazione del porto attuale (2006) vi fossero, anno dopo anno, evidenti correlazioni tra l’erosione gravissima sia a sud che a nord della nuova infrastruttura portuale”, denunciano Man, Italia Nostra e Wwf. “E’ del tutto evidente che un nuovo porto avrà l’effetto di deviare l’energia dell’onda, abbattendosi altrove e innescando anche a distanza effetti drammatici per le popolazioni (attualmente a Galati, a sud del porto attuale, il mare è arrivato dentro le case). Nel parere del 2011, si legge tra le diverse prescrizioni della Regione Sicilia relative alla costa che lo studio dell’evoluzione morfologica della linea di costa in fase di progettazione esecutiva dovrà essere aggiornato tenendo conto delle proposte progettuali formulate dalla società proponente. Nell’istruttoria 2014, non risulta alcun aggiornamento e per quanto non si tratti ancora di progetto esecutivo, ci si sarebbe aspettati che quanto accaduto negli anni potesse indurre a richiedere un corretto e necessario aggiornamento della situazione, portando alla non esclusione da nuova procedura VIA”.


Valanghe di detriti da scaricare in mare 
Pesantissimi i rilievi inerenti la movimentazione dei materiali di scavo e il loro successivo utilizzo per gli interventi di “ripascimento” della costa. I progettisti prevedono di utilizzare l’intero quantitativo di materiale di dragaggio, stimato in 711.200 mc per il ripascimento nello Ionio (Stretto di Messina). In precedenza era stato previsto di riversare i materiali di scavo (stimati in 850.000 mc) in entrambi i versanti, ionico e tirrenico (in località Santo Saba), ma la seconda opzione è abbandonata nel 2014 per la gravità degli effetti ambientali previsti nell’area. Con il progetto definitivo di Nuova Coedmar e CCC di Bologna, tutti i materiali di risulta saranno collocati nella zona in erosione a nord del costruendo porto (la lunghezza dell’area di ripascimento si estende così a circa 2.900 metri contro i 2.000 di prima), mentre il quantitativo di massi in calcestruzzo passa da 293.937 a 327.596 tonnellate. “Come già evidenziato nel parere rilasciato nel 2011, già dopo tre anni lo stesso intervento non sarà più in grado di trattenere il materiale solido accumulatosi e quindi, a porto nuovo realizzato, si dovrà continuare a dragare e a buttare a nord, il materiale dragato”, rilevano gli ambientalisti. “Non è chiaro a carico di chi sarebbe un intervento ineludibile e necessario sia per il funzionamento del porto che per la salvaguardia della costa a nord, non considerando al momento quanto sta ancora accadendo a sud, in termini di erosione”.


Ovviamente anche relativamente agli impatti sulle delicatissime biocinesi e sulle specie marine protette che deriveranno dal raddoppio della quantità dei materiali di scavo, non c’è traccia negli “studi” accettati dalla Commissione tecnica VIA–VAS del Ministero dell’ambiente. “Inevitabili gli effetti a breve, medio e lungo termine anche nel settore della pesca, oltre ad un possibile incremento dell’erosione costiera, per l’inevitabile scomparsa anche a distanza, delle praterie di Posidonia oceanica, unica vera difesa naturale contro il potere erosivo dell’energia dell’onda”, spiegano Man, Italia Nostra e Wwf. “Solo per far comprendere l’enorme impatto che avrebbe la previsione di gettare in mare 711.000 mc, si ricorda che il materiale caduto in occasione dell’alluvione del 2009 è stato stimato in 80.000 mc e ha distrutto interi tratti di mare anche a grandi distanze. Nel caso del nuovo porto, si tratterebbe di quasi 10 volte la quantità di materiale caduta per eventi naturali, con l’aggravante ulteriore che verrebbe dispersa per mesi e mesi di lavorazione e con l’aggiunta di ingentissimi quantitativi di massi per il ripascimento protetto”.
“In ultimo, preme segnalare che per il progetto che ha effetti diretti e indiretti su un sito protetto dalla Ue (ZPS ITA030042) è stato sottoposto nel precedente iter, solo la procedura di Screening e non a corretta Valutazione di Incidenza, contrariamente a quanto affermato nel parere della Commissione VIA-VAS del Ministero dell’ambiente del 2014”, scrivono le associazioni. “Non si considerano ovviamente le specie di uccelli nel formulario Natura 2000 che svernano sullo Stretto di Messina (che subirebbe effetti negativi) o che lo utilizzano come area trofica tutto l’anno. Così nella valutazione non v’è traccia del flusso migratorio imponente, notte e giorno (4 milioni e 300 mila individui censiti da radar, di notte in un solo mese e mezzo nel 2006), di habitat fondamentali per la loro sosta, di impatto di luci, di alterazione delle catene trofiche come conseguenza del particolato, delle torbide, dei sedimenti, dell’alterazione delle biocinesi marine a seguito e della fase di cantiere e di esercizio”.


Dopo che nell’agosto del 2010 fu aggiudicata la gara d’appalto per la realizzazione del primo stralcio funzionale della Piattaforma logistica  intermodale e dello scalo di Tremestieri, la società vincitrice Sigenco SpA ha proceduto a sottoporre a VIA il proprio progetto definitivo; lo studio di impatto ambientale fu esaminato ed approvato con alcune prescrizioni dal Ministero dell’ambiente il 18 luglio del 2011. La valutazione di impatto ambientale dell’opera fu eseguita in realtà dalla Interprogetti Srl di Roma (presidente l’ing. Sergio Pittori, amministratore delegato l’ing. Marco Pittori), società d’ingegneria con un ampio portafoglio lavori per conto della CMC di Ravenna, dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e dell’Autorità portuale di Gioia Tauro e che nel 2012 si è aggiudicata la gara per la progettazione esecutiva del porto di Sant’Agata di Militello (Messina). Interprogetti, nello specifico, nel 2010 commissionò alla S.I.A. Società Italiana per l’Ambiente Srl (società di consulenza in campo ambientale attiva in Italia e all’estero, presidente l’ing. Giuseppe Marfoli) lo “studio della possibilità di ripascimento tramite materiale dragato nei siti di Tremestieri e San Saba”. Due anni più tardi, ancora Interprogetti e Sigenco affidavano a S.I.A. il progetto di “monitoraggio ambientale relativo alla costruzione della piattaforma logistica intermodale e del nuovo scalo marittimo di Tremestieri”.
A seguito di un ricorso in sede amministrativa, la gara d’appalto fu assegnata all’associazione temporanea Nuova Coedmar – CCC. Nell’estate 2013, le nuove aggiudicatarie furono invitate dall’amministrazione comunale di Messina ad acquisire la valutazione di impatto ambientale sul proprio progetto definitivo. La procedura di assoggettabilità a VIA veniva avviata nel marzo 2014; sette mesi più tardi, però, il Ministero dell’ambiente giudicava non necessario l’espletamento di una nuova procedura integrale di valutazione ambientale per le “minime” differenze tra i due progetti presentati da Sigenco e Nuova Coedmar. Peccato però che lo stesso Ministero rilevava come il progetto predisposto dalle nuove società aggiudicatarie presentasse “modifiche progettuali e strutturali rispetto al progetto definitivo già reso oggetto di giudizio favorevole di compatibilità ambientale con decreto n. 402 del 18/07/2011, in particolare: la viabilità di accesso, le opere marittime (molo foraneo, banchine di riva e opere a scogliera), le opere di regimazione idraulica dei torrenti Farota e Guidari, ed il ripascimento delle aree a nord”. Nel provvedimento di esclusione della procedura di impatto ambientale del 13 ottobre 2014, il Ministero dell’ambiente si limitava a richiedere ai progettisti una serie di prescrizioni meramente simboliche: interventi di carattere paesaggistico ambientale, opere di rinaturalizzazione delle dune nelle zone di ripascimento, plantumazioni e mitigazioni nella zona del porto, rinaturalizzazioni di alcune zone campione nelle aste dei torrenti, campagne di controllo e monitoraggio di componenti antropiche e biotiche pre-durante e post operam.
Nel frattempo, l’Autorità portuale di Messina si è incaricata di integrare nell’approvando nuovo Piano regolatore portuale (PRP), il completamento della piattaforma logistica e del nuovo porto di Tremestieri. Il rapporto per la valutazione ambientale strategica (VAS) applicata al PRP è stato redatto nel giugno 2016 da un gruppo di lavoro diretto dagli architetti e docenti universitari Francesco Karrer e Francesca Moraci, due professioni molto noti nella città dello Stretto per aver concorso a quasi tutte le fasi progettuali e/o di valutazione a favore del famigerato Ponte di collegamento tra Scilla e Cariddi.


CONVEGNO SCALI FERROVIARI A MILANO
IMPORTANTE ANCHE il 7 MARZO


Segnaliamo un convegno sugli scali a
PALAZZO MARINO in SALA ALESSI  
MARTEDI 7 MARZO dalle 17 alle 20  
organizzato da "Milano in Comune-Sinistra e Costituzione"
e dall'Associazione MILANO METROPOLI

Tra relatori/trici e partecipanti alla Tavola rotonda ci saranno:
Marco Vitale,
Paolo Maddalena,
Maria Agostina Cabiddu,
Maria Cristina Treu,
Emilio Battisti,
Sergio Brenna,
Mario Viviani.

Sono stati invitati anche il sindaco Sala e due pezzi grossi di FS Sistemi Urbani,
che non hanno ancora confermato l'adesione.
Maria Carla Baroni

***
Segnaliamo inoltre il pubblico dibattito sugli ex scali ferroviari che si terrà
mercoledì 15 marzo alle 21,00,
presso la Baia del Re in via Palmieri, 8
(traversa di v. Montegani, MM Abbiategrasso)

L’iniziativa, originariamente promossa da Rossosispera,
vede ora la partecipazione di altre nove realtà sociali della Zona 5.

A nessuno sfugge l’importanza dell’argomento.
Non è in gioco soltanto l’uso di terreni strategici per la città, ma anche la pretesa delle Ferrovie di gestire come proprietà privata terreni a suo tempo espropriati per interesse pubblico.
La discussione sarà introdotta dall'urbanista Sergio Brenna, uno dei principali protagonisti del dibattito in corso.
La discussione non deve essere ristretta agli addetti ai lavori, ma deve coinvolgere i cittadini.

***
Il Municipio 5 organizza una seduta congiunta delle Commissioni urbanistica e ambiente
martedì 28 febbraio, dalle 18 alle 20,
sul “Futuro degli scali ferroviari”
nell’aula consigliare del Municipio 5
(via Tibaldi 41/43; mezzi pubblici: 15, 90, 91).

Saranno presenti, tra altri, gli assessori Pierfrancesco Maran e Bruno Ceccarelli con il consigliere comunale Carlo Monguzzi, tutti di fatto autorevoli esponenti del "partito delle ferrovie".

L'ingresso è aperto a tutti i cittadini.
SFRUTTAMENTO e LOGICA DEL PROFITTO,
SEMPRE E COMUNQUE
di Franco Astengo


Nel disastrato mondo del lavoro spiccano oggi tre notizie:
La prima, drammatica, non commentabile, riguarda la morte di Paola Clemente: sconfitta dalla fatica di dodici ore di lavoro nei vigneti di Andria. Schiavizzata per pochi euro al giorno. Sono accusati di sfruttamento e truffa sia il responsabile dell’agenzia interinale che il trasportatore dei braccianti nei campi. La versione moderna del caporalato;
Proprio le principali agenzie interinali figurano tra i soggetti che usano di più i voucher, come risulta dall’elenco pubblicato oggi, 24 Febbraio, dal “Manifesto”. Con Adecco e Manpower figurano anche Mc Donald’s, Burger King, Rinascente, Chef express, Cigierre (ristoranti etnici) oltre alle società organizzatrici di eventi e fornitrici di steward, hostess e quant’altro (per poi arrivare al paradosso del lavoro gratuito come all’Expo) e persino le società di calcio, in testa la Juventus (unica proprietaria  del proprio stadio). Siamo nella frontiera del post – industriale, del personale trattato come fazzoletti “usa e getta”, interscambiabile a tutte le ore del giorno e in qualsivoglia condizione. Senza dimenticare naturalmente il comparto della logistica (il nostro ragionamento è legato, in questo caso, al ristretto spazio del “caso italiano”, ma è facile dedurne la realtà di un quadro complessivo al riguardo di tutti i sistemi post – industriali più evoluti. Per il resto del mondo ci sono le guerre, la fame, le migrazioni forzate, i muri);
La crescita vertiginosa delle tante forme di precariato con il calo verticale delle assunzioni a tempo indeterminato quale esito naturale e scontato del compimento del breve ciclo di agevolazione previsto dal job act.
Al di là dei commenti esiste un minimo comune denominatore nell’insieme di questa vicenda.
Un minimo comun denominatore che comprende due definizioni antiche e sempre moderne: profitto e sfruttamento.
Un binomio descritto da Carlo Marx in maniera ancora attuale:
La teoria dello sfruttamento è legata in Marx alla teoria del valore-lavoro. Ogni merce non è che lavoro umano cristallizzato, generica capacità lavorativa umana che assume la forma di abiti o mobili, libri o generi alimentari. Il valore di tutte le merci presenti sul mercato è dato dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrle. Se un abito vale quanto due paia di scarpe ciò significa che il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre un abito è doppio rispetto a quello occorrente per produrre un paio di scarpe. Ciò che si scambia nella compra-vendita è in realtà generico lavoro umano, lavoro astratto che assume via via le forme fenomeniche più disparate. Ma se è il lavoro a costituire l'essenza del valore qual è il valore del lavoro? Marx risponde in maniera molto netta a questa domanda cruciale. Il valore altro non è che lavoro, proprio per questo il lavoro in quanto tale non ha valore. Quando un capitalista paga un certo salario ai "suoi" operai egli non compra il loro lavoro, ciò che egli compra è la loro forza-lavoro. La forza-lavoro altro non è che la generica capacità dell'operaio di svolgere un determinato lavoro. Il valore della forza-lavoro è dato a sua volta dal valore delle merci che permettono la vita e la riproduzione della classe operaia. Si tratta della famosa teoria del "minimo vitale": il capitalista paga agli operai ciò che serve a conservare e a riprodurre la "razza" degli operai, non un centesimo in più o in meno. Il capitalista non viola in questo modo la legge dello scambio di equivalenti, paga la forza lavoro al suo "giusto" prezzo, non compie alcuna violenza contro gli operai.
Una volta acquistata la forza-lavoro il capitalista la può usare come gli pare e per tutto il tempo che gli pare, così come chi acquista una zappa può farne l'uso che crede. Ma la forza-lavoro è una merce particolare: il suo uso crea valore. In un primo momento l'uso della forza-lavoro riproduce il valore del salario pagato dal capitalista all'operaio, in seguito crea nuovo valore che non va all'operaio ma al capitalista: il plusvalore. Se una giornata lavorativa dura 8 ore nelle prime 4 il lavoro degli operai riproduce il valore dei loro salari, nelle altre 4 crea plusvalore che resta al capitalista. Dal libero contratto nasce in questo modo lo sfruttamento, lo scambio di equivalenti si trasforma in scambio ineguale, il rapporto fra individui formalmente liberi ed eguali si tramuta in un rapporto di spoliazione.


Parole sempre attuali e da tenere a mente.
La classe operaia organizzata, al tempo della grande concentrazione industriale, puntò a limitare il fenomeno dello sfruttamento attraverso una “strategia dei diritti” attuata in quelli che erano i punti più “alti” dello sviluppo capitalistico, mentre  in altre situazioni di più bassa intensità di presenza industriale si sviluppò una fase di “inveramento statuale” del concetto di abolizione dello sfruttamento da parte della classe.
Oggi il mutamento compiuto della fase contraddistinta dalla grande industria e la sostituzione del lavoro vivo attraverso l’innovazione tecnologica e la costruzione, per il tramite dell’affermazione di società opulente basate sul consumismo individualistico e l’allargamento delle disuguaglianze sul piano planetario, hanno modificato radicalmente il quadro.
Il concetto di fondo tra profitto e sfruttamento però non è mutato anche se la relazione tra i due fattori si estende per una molteplicità complessa di contraddizioni, al riguardo delle quali sarebbe necessario un aggiornamento sul piano teorico.

giovedì 23 febbraio 2017

L’inganno.
di Vito Calabrese

Lo avevano tradito, lo avevano obbligato a far un’azione terribile di cui si vergognava. L’avrebbero arrestato? L’avrebbero espulso? Hessa; cosa ne sarà di lei? Tutto quel dolore non era servito a nulla.
Alberto era cresciuto nel ruolo e ogni tanto azzeccava delle giocate che finivano sempre con splendidi goal. Lui non sapeva spiegarsi come faceva. Gli venivano e basta. Quegli attimi lo trasformavano in un perfetto attaccante ma erano lampi che non si ripetevano facilmente. L’allenatore lo faceva entrare in campo quando la squadra era in difficoltà, con la speranza che risolvesse con un guizzo quella situazione difficile. Lo chiamavano Joker.
La palla correva sul campo polveroso, saltellando sui sassi che affioravano. I ragazzini correvano tutti insieme verso quella palla grigia e il primo che riusciva a toccarla, in punta di piede, ne allungava un po’ la corsa. Rashid si era distinto subito per la capacità di giocoliere. Il suo piede guizzava sulla palla e la dirigeva abilmente in qualsiasi direzione. Gianni, il mediatore culturale del campo profughi di Bresso, l’aveva promosso capitano. Lo chiamavano Shark.
Il giovane arabo con la barba riccia, nera, accovacciato a bordo campo, lo stava osservando mentre palleggiava. Rashid lo aveva incontrato alla mensa ma non gli era piaciuto. Gianni si girò e vide quel tipo barbuto parlare a Rashid che teneva la testa bassa e le braccia penzoloni. Un brutto segnale. Rashid avrebbe voluto raccontare a Gianni le minacce che aveva ricevuto dal barbuto ma non ne aveva il coraggio. Quel tipo, disgraziato, gli aveva portato via in pochi attimi, la voglia di giocare. Gli aveva detto che sua sorella Hessa era viva ma se lui non avesse fatto quello che gli chiedeva, poteva anche capitarle una disgrazia.
Quel sabato si giocava allo stadio Breda l’ultima partita del girone di andata. L’OSM di Niguarda era seconda in classifica mentre al primo posto c’erano i profughi di Bresso. Il primo tempo si era chiuso a reti inviolate. L’allenatore dell’OSM decise di sostituire il centravanti con Joker, dopo che era stata sprecata un’altra palla, calciata malamente, alta sulla traversa. Shark era cupo, ma gestiva la palla con maestria e avvolgeva Joker in una tela di passaggi, come un ragno con la sua preda. Aveva alzato lo sguardo verso la sua panchina, dove si sbracciava Gianni, e aveva notato la barba nera e riccia dell’arabo. Era venuto a controllarlo. Fu raggiunto da un passaggio, calciò la palla con tale violenza verso la rete che nessuno poté fermarla. I profughi erano in vantaggio.
Joker era infastidito. Aveva intuito che doveva attaccare Shark e spezzare quella rete di passaggi. Intercettò la palla lanciata da Luca e corse in diagonale verso l’area avversaria, sicuro di attirare Shark. Infatti quello si era lanciato verso di lui, anzi contro di lui. Il guizzo di Joker fu sbalorditivo. Il portiere si era buttato alla cieca e neanche i due difensori, rinculati sulla linea di porta, poterono evitare il goal del pareggio.

Shark era scivolato a terra con la gamba tesa e aveva travolto Joker. Battendo il tacco a terra, Shark aveva fatto scattare una corta lama tonda sulla punta della scarpa. Joker aveva cacciato un urlo di dolore, piangeva disperato guardando il sangue scorrere sulle sue gambe. Shark a terra continuava a scalciare, urlando e piangendo di rabbia. Anche i compagni accorsi furono travolti dai colpi malandrini di Shark. L’arbitro nervoso fischiava trascinando guardalinee e allenatori verso quel grumo di ragazzi impazziti.
Gianni aveva capito che stava succedendo qualcosa di sbagliato. Si girò e vide quella barba nera, riccia, quel volto eccitato che sbraitava in arabo alzando le braccia. Capì in una frazione di secondo che il disastro non era ancora finito e che poteva andare anche peggio. Si buttò su di lui e gli assestò un poderoso calcio nell’inguine. Quello si piegò con un singhiozzo senz’aria e poi lo colpì d’incontro con un tremendo pugno sulla punta del mento. L’arabo crollò a terra, svenuto, con le braccia aperte. Gianni vide che teneva uno scatolino stretto nella mano sinistra. Gli prese tremando il telecomando e affidò l’arabo ai carabinieri che si erano avvicinati.
Poi corse dentro il campo e andò da Rashid, attento a non farsi calciare, dicendogli che il barbuto era stato catturato. Rashid piangeva disperato. Lo avevano tradito, lo avevano obbligato a far un’azione terribile di cui si vergognava. L’avrebbero arrestato? L’avrebbero espulso? Hessa; cosa ne sarà di lei? Tutto quel dolore non era servito a nulla.
Alberto sta viaggiando, seduto di fianco al papà, verso la Casa della Carità di Milano, dove hanno appuntamento con Jasmine, l’assistente sociale che segue Rashid. Alberto ha ancora una gamba fasciata ed è tormentato dal pensiero che Rashid volesse ucciderlo. Papà Andrea cerca di rassicurarlo e di smontare la sua paura. “Sei la vittima ma sei salvo, hai una famiglia, vai a scuola, hai tanti amici e giochi a calcio. - Sfortunatamente. - Pensa a lui, solo, sotto sorveglianza, a rischio di espulsione, senza famiglia tranne quella sorella che non si sa dove sia. Lo aspettano il riformatorio o il ritorno in una terra ancora dilaniata dalla guerra. Non credi che le parole misericordia e perdono siano le più adeguate per questo incontro? - Non so neanche cosa sia la misericordia e poi lui voleva uccidermi. – No, forse no. - È troppo difficile.”
Sono seduti intorno ad un tavolo della mensa. Rashid è accompagnato da Jasmine. Lui tiene gli occhi bassi e non parla. Alberto è incollato alla sedia con lo sguardo perso. Gianni li ha raggiunti e, chiacchierando per stemperare la tensione e l’imbarazzo, accenna di aver saputo dai Carabinieri, con cui collabora, dove si trova Hessa. La notizia riaccende l’animo di Rashid. Gianni riesce a condurlo fuori dal suo guscio di depressione, fino a fargli accettare la presenza e l’amicizia di Alberto. Ma questi rifiuta l’offerta di pace del ragazzino arabo rinfacciandogli l’attacco sleale sul campo. “ Non ci sto. Voleva uccidermi.” A quel punto Rashid rompe l’atmosfera di disagio creata dalla dichiarazione di Alberto e riconosce di essere colpevole e di non meritare il perdono. Vuole solo sapere se Hessa si salverà e poi che sia quel che sia. “Lui ha ragione. Il bastardo sono io. Potevo anche ucciderlo. Non c’è posto per me tra di voi.” Alberto è sgomento. Non si aspettava quella presa di posizione. Improvvisamente capisce che non può lasciare che le cose vadano così male, verso il dolore e la sofferenza. “Sono io che ho sbagliato a giudicarti. Ti chiedo perdono.”
La scena si è cristallizzata. Il tempo non scorre. Gli sguardi dei due ragazzi si incrociano e scambiano tanta di quella energia che è impossibile da raccontare. Rashid si lascia andare e si raddrizza nella sua bella figura: “Sono una merda. Vorrei scomparire da questo tavolo ma devo ritrovare mia sorella. Aiuto. Aiutatemi!” Alberto alza le braccia e Jasmine lo aiuta a compiere quell’abbraccio che sembra venire da lontano. Finalmente i due ragazzi si sfiorano e piano piano si avvicinano fino a stringersi in un vero abbraccio.
Gianni rivela che Hessa è stata rintracciata in un campo profughi di Padova e si stanno facendo le pratiche per trasferirla a Bresso. Rashid ha gli occhi lucidi. Alberto ha il cuore un po’ più sgombro.
[I disegni sono di Adamo Calabrese]
Le colombe armate dell’Europa
di Manlio Dinucci


Ulteriori passi nel «rafforzamento dell’Alleanza» sono stati decisi dai ministri della Difesa della Nato, riuniti a Bruxelles nel Consiglio Nord Atlantico. Anzitutto sul fronte orientale, col dispiegamento di nuove «forze di deterrenza» in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, unito ad una accresciuta presenza Nato in tutta l’Europa orientale con esercitazioni terrestri e navali.
A giugno saranno pienamente operativi quattro battaglioni multinazionali da schierare nella regione. Sarà allo stesso tempo accresciuta la presenza navale Nato nel Mar Nero.
Viene inoltre avviata la creazione di un comando multinazionale delle forze speciali, formato inizialmente da quelle belghe, danesi e olandesi.
Il Consiglio Nord Atlantico loda infine la Georgia per i progressi nel percorso che la farà entrare nella Alleanza, divenendo il terzo paese Nato (insieme a Estonia e Lettonia) direttamente al confine con la Russia.
Sul fronte meridionale, strettamente connesso a quello orientale in particolare attraverso il confronto Russia-Nato in Siria, il Consiglio Nord Atlantico annuncia una serie di misure per «contrastare le minacce provenienti dal Medioriente e Nordafrica e per proiettare stabilità oltre i nostri confini». Presso il Comando della forza congiunta alleata a Napoli, viene costituito l’Hub per il Sud, con un personale di circa 100 militari. Esso avrà il compito di «valutare le minacce provenienti dalla regione e affrontarle insieme a nazioni e organizzazioni partner».


Disporrà di aerei-spia Awacs e di droni che diverranno presto operativi a Sigonella. Per le operazioni militari è già pronta la «Forza di risposta» Nato di 40mila uomini, in particolare la sua «Forza di punta ad altissima prontezza operativa».
L’Hub per il Sud – spiega il segretario generale Stoltenberg – accrescerà la capacità della Nato di «prevedere e prevenire le crisi». In altre parole, una volta che esso avrà «previsto» una crisi in Medioriente, in Nordafrica o altrove, la Nato potrà effettuare un intervento militare «preventivo». L’Alleanza Atlantica al completo adotta, in tal modo, la dottrina del «falco» Bush sulla guerra «preventiva».
I primi a volere un rafforzamento della Nato, anzitutto in funzione anti-Russia, sono in questo momento i governi europei dell’Alleanza, quelli che in genere si presentano in veste di «colombe». Temono infatti di essere scavalcati o emarginati se l’amministrazione Trump aprisse un negoziato diretto con Mosca.


Particolarmente attivi i governi dell’Est. Varsavia, non accontentandosi della 3a Brigata corazzata inviata in Polonia dall’amministrazione Obama, chiede ora a Washington, per bocca dell’autorevole Kaczynski, di essere coperta dall’«ombrello nucleare» Usa, ossia di avere sul proprio suolo armi nucleari statunitensi puntate sulla Russia. Kiev ha rilanciato l’offensiva nel Donbass contro i russi di Ucraina, sia attraverso pesanti bombardamenti, sia attraverso l’assassinio sistematico di capi della resistenza in attentati dietro cui vi sono anche servizi segreti occidentali. Contemporaneamente, il presidente Poroshenko ha annunciato un referendum per l’adesione dell’Ucraina alla Nato. A dargli man forte è andato il premier greco Alexis Tsipras che, in visita ufficiale a Kiev l’8-9 febbraio, ha espresso al presidente Poroshenko «il fermo appoggio della Grecia alla sovranità, integrità territoriale e indipendenza dell’Ucraina» e, di conseguenza, il non-riconoscimento di quella che Kiev definisce «l’illegale annessione russa della Crimea». L’incontro, ha dichiarato Tsipras, gettando le basi per «anni di stretta cooperazione tra Grecia e Ucraina», contribuirà a «conseguire la pace nella regione».
PER UNA ANTOLOGIA DEGLI SPRECHI
di Fulvio Papi



Mi domando se ci sono ancora “scientifici” in opera – non dico politici in esercizio dove il racconto è sempre adattato alle solerti ascoltazioni di chi immagina l’avvenire come se, giorno per giorno, stesse ad aspettare un vigoroso aumento dei consumi con una trepidazione che doveva avere Paolo scrivendo la sua difficile “Lettera ai Romani”. Se ci sono, vuol dire che nelle cavità emotive del ballo statistico, vi è ancora una speranza offerta ai creduli depositari del suffragio. Il consumo è sempre stato l’incontro tra una produzione con un costo ragionevole per navigare nel mercato, una disponibilità monetaria dei consumatori (parola orrenda che fa venire in mente comportamenti di tipo ossessivo), la mediazione della distribuzione che oggi, in questo equilibrio, detiene un potere molto superiore rispetto al passato. Tutto questo in una descrizione astratta; la descrizione storica è molto più complessa e ormai deve tenere conto, a tutti i livelli, del processo di globalizzazione che agisce sui prezzi di produzione, sulla disponibilità monetaria, sulla qualità della merce in distribuzione: tutti elementi che, in maniera più o meno diretta, agiscono sulla propensione psicologica al consumo. Un tempo si diceva che non si consumano merci, ma simboli di stato, il che era vero soprattutto per il mercato giovane o giovanile. Oggi questa analisi è vera soltanto per i ceti abbienti e le loro frequentazioni. Oggi nel “ceto medio” il consumo è abbastanza misurato, e l’eventuale risparmio non è investito, e aumentano i poveri. I giornalisti più brillanti già dieci e più anni fa, parlavano di un trentennio d’oro che, ovviamente nasceva da una congiuntura che, come gli anni passati, per ogni vita, non torna più. Allora, a favorire l’aumento del consumo, era l’indice psicologico della durata simbolica di una merce e la dovizia delle merci offerte ai carretti trionfali nei supermercati. Allora lo spreco, tanto era l’euforia, non veniva nemmeno calcolato, compresi decine di edifici quasi terminati, ma noi finiti, che sono una nazionale monumentalità che ha aumentato la spesa pubblica senza durevoli vantaggi collettivi, e della cui inutilità (e vergogna) qualcuno dovrebbe pur rispondere per le finalità, a dir poco improprie, che hanno guidato le opere. Questa memoria per lo più viene cancellata , e la cancellazione fa parte degli stessi privilegi che hanno consentito le iniziative costose e perfettamente inutili, oppure seduttive di un ambiente sociale che era tutt’altro che nell’attimo della sicurezza, ma sognava per sé un “palazzetto dello sport”. C’è anche una banale corruzione psicologica di conformismo pubblico che favoriva altre forme di corruzione. Una proposizione che conduce a quest’altra: il ceto politico anche locale difficilmente ha avuto un impegno educativo, più facilmente poteva acconsentire a banali seduzioni che, di riflesso, avrebbero aumentato il suo potere sociale. Detto questo, bisogna aggiungere che alla campagna, del resto timida, contro lo spreco, non corrisponde affatto una politica sociale adeguata, anche perché essa richiederebbe una diversa concezione o cultura sia del consumo pubblico che di quello privato. Non trasformare risorse pubbliche (guadagnate con difficoltà, quando va bene) in risorse pubbliche; sono tutti d’accordo nel dire che non si deve fare. Ma un censimento dello spreco privilegiato di risorse private di fatto al bene collettivo, e sarebbe molto interessante. E per chi si occupa di questioni simboliche, sapere con quali argomenti vennero giustificati questi privilegi che impoveriscono le risorse sociali. 


Perché non facciamo un’antologia di questi argomenti che sono anch’essi l’autobiografia della nazione? Quanto ai meriti morali vorrei suggerire all’ottimo Presidente di non fare tanti cavalierati del lavoro che talora sollevano qualche dubbio, ma di chiamare nella sua prestigiosa residenza, quegli uomini dei servizi dello stato che, senza contare il pecunio, sono una risorsa operativa ed etica che dovrebbe essere segnalata al paese come esempio. Perché non cominciamo a diffondere domande tipo: vale di più nel riconoscimento pecuniario che fa x o che fa y? Qual’ è l’utilità pubblica degli uni e degli altri? I filosofi, di cui sono lieto di far parte, sanno che senza interrogazioni non si aprono strade per la verità. E le risposte a interrogazioni che ho esemplificato porterebbero a galla retoriche condivise solo dal gruppo che ha beneficiato della propria condizione, e retoriche stantie, castali, corporative, arcaiche. Non ho in mente nessuna “virtù” dal 93-94 francese, mi paiono deliri, ma c’è una differenza tra la superbia e l’onestà. Del resto sono cose che sanno tutti, ma, per mille ragioni, poche condivisibili, non riescono a prendere la via legittima della decisione pubblica. Quaeta non movere? Poi ci sono gli affannosi risvegli: come mai i soccorsi non sono arrivati in tempo? Come mai si sono lasciati cadere metri di neve impedente la circolazione di qualsiasi mezzo? Sono domande un po’ alla ricerca del famoso “capro”. Le vere domande riguardano il perché tutti i comuni non hanno le attrezzature necessarie in loco per intervenire prima che la situazione sia ingovernabile. Qui sì, è questione di buona spesa pubblica, di bene comune. E non sto qui a ripetere quello che ho già sostenuto altre volte. C’è una spesa pubblica, disponibile in un tempo ragionevole, che dovrebbe garantire, nei limiti del possibile, la messa in sicurezza di un paese che, vittima di una cattiva amministrazione, ora è colpito anche dai cambiamenti climatici che divengono stabili. E non si tratta di un sapere da statisti, e nemmeno di argomenti difficili da comprendere e da far nascere il desiderio di una comunità solidale.   
AUGURI LORENZA

Il cofanetto coi tre volumi

Lorenza Franco compie 85 anni. È nata il 24 febbraio del 1932, un traguardo non da poco per una poetessa che alla sua veneranda età continua a scrivere con la passione e la grazia  di una ventenne e con la profondità di un filosofo. Continua infatti ad osservare il mondo con una lucidità rara, sorretta da un acceso pessimismo che nasce dall’effettualità storica; sono questa lucidità e questo pessimismo della ragione che le permettono di minare i miti e le incrostazioni che si sono sedimentati sul corpo del mondo e delle sue credenze. La sua prospettiva è il pensiero libero e il suo bisturi va dentro deciso e senza sconti: che sia il mondo fallocratico maschile o quello culturalmente subalterno femminile, poco importa. Una vita così lunga ha dovuto, come tutti, fare i conti con il dolore e le separazioni, il lutto e lo sconforto, e tuttavia grandi sono state anche le soddisfazioni e i riconoscimenti che hanno accompagnato il suo lungo viaggio di poeta. Viaggio che non si è mai interrotto, perché il dire poetico è da sempre parte integrante della sua persona e del suo sentire. Presto le Edizioni Nuove Scritture daranno alle stampe una nuova raccolta in fase di riordino.  Abbiamo pensato che non c’era modo migliore per farle gli auguri, che regalare ai lettori di “Odissea” la voce dei suoi versi.


La poesia "Il glicine"


       

Una spiritosa foto dell'autrice e il testo "Due case più in là"


"Magici fili"


Una strada di Valtellina cara alla poetessa

La copertina di uno dei libri
più taglienti dell'autrice

mercoledì 22 febbraio 2017

Vitalizi, poniamo fine al privilegio
Petizione lanciata dal giornale Il Fatto Quotidiano e
diretta a Presidente del Senato Pietro Grasso

Proprio domenica scorsa (19 marzo) il “Comitato di Odissea” che sul tema dei privilegi e dei vitalizi batte da tempo, si è riunito per rilanciare una serie di proposte ineludibili fra le quali questi su cui verte la petizione de “Il Fatto Quotidiano”. Firmatela, diffondetela, sostenete il giornale perché è un patrimonio delle battaglie legali e civili del nostro Paese.



Quello dei vitalizi è uno dei più grandi scandali della Repubblica. Per gli sfacciati privilegi che i parlamentari si sono dati, per lo spreco di risorse che hanno comportato e comporteranno, per il peso che continueranno ad avere sui bilanci di Camera e Senato, dunque sulle finanze pubbliche.
C’è un esercito di oltre duemila ex deputati e senatori che gode di questi ingiustificati trattamenti. In base ai quali persino chi non ha mai messo piede in Parlamento o ha partecipato a pochissime sedute delle Camere riscuote assegni di circa 2.000 euro netti mensili. Magari sommandoli ad altri vitalizi delle Regioni o del Parlamento europeo, oppure a trattamenti pensionistici maturati per le attività lavorative svolte. Per non parlare dei parlamentari eletti per più legislature, che arrivano ad incassare anche oltre 10 mila euro netti mensili. Cifre che i comuni cittadini neanche si sognano.
Vero che a partire dal 2012 il sistema è stato riformato. E il vecchio sistema di calcolo dei vitalizi è stato rimpiazzato dal contributivo. Ciononostante, il trattamento dei rappresentanti del popolo continua a presentare elementi di smaccato favore rispetto a quello riservato ai normali lavoratori. A cominciare dall’età pensionabile.
Ecco un esempio. Gli eletti per la prima volta nel 2013, se la legislatura durerà almeno 4 anni 6 mesi e un giorno, con 5 anni di contributi versati, matureranno a 65 anni il diritto ad una pensione di circa mille euro. Chi sarà eletto anche per un secondo mandato, con 10 anni di contributi, potrà iniziare a percepire l’assegno previdenziale addirittura a 60 anni. Mentre, a partire dal 2018, l’età minima richiesta ai comuni cittadini per andare in pensione salirà a 66 anni e 7 mesi.
Per modificare il trattamento previdenziale degli ex parlamentari e rimuovere questo scandalo, non servono né leggi né complesse riforme costituzionali. Basta un semplice cambiamento ai regolamenti interni sui vitalizi varati dagli Uffici di presidenza di Camera e Senato. Esattamente come uno dei tanti fatti nel corso del tempo ai primi regolamenti approvati negli anni Cinquanta. E che, progressivamente, hanno determinato le distorsioni e le posizioni di favore che conosciamo per onorevoli e senatori. Ed è proprio agli Uffici di presidenza di Montecitorio e Palazzo Madama che questa proposta-appello si rivolge. Affinché, attraverso un nuovo regolamento, eliminino definitivamente e una volta per tutte le ingiustificate posizioni di rendita maturate dagli ex parlamentari prima della riforma del 2012 e quelle che, anche dopo quest’ultimo intervento, sono rimaste praticamente inalterate.

Ecco cosa proponiamo.
1) Ricalcolare tutti i vitalizi attualmente in essere con il sistema contributivo in vigore a Montecitorio e Palazzo Madama dal 2012. E che prevede, in sostanza, un ammontare di circa 200 euro lordi al mese per ciascun anno di mandato parlamentare.

2) Elevare il limite d’età per la percezione dell’assegno previdenziale allo stesso livello previsto dalla legge Fornero per i comuni lavoratori.

3) Introdurre un tetto massimo al vitalizio di 5.000 euro lordi al mese. Anche per coloro che, avendo rivestito cariche in diverse assemblee elettive (Parlamento nazionale, Parlamento europeo e Consigli regionali), percepiscono o percepiranno, in base alle regole attualmente vigenti, più assegni previdenziali.

4) Analogo tetto deve valere anche per tutti coloro che godono o godranno di un trattamento previdenziale frutto dei contributi versati nel corso della propria carriera professionale: se la pensione maturata attraverso l’attività lavorativa privata è pari o superiore a 5.000 euro lordi al mese, l’ex parlamentare non avrà diritto al vitalizio erogato dall’organo elettivo nel quale ha svolto il mandato, ma solo al rimborso dei contributi versati.

Primo Di Nicola, Antonio Pitoni,
Giorgio Velardi (autori del libro Orgoglio e Vitalizio per Paper First)
Questa petizione sarà consegnata a:
Presidente del Senato
Pietro Grasso
presidente della camera
Laura Boldrini
Al Consiglio di presidenza del Senato della Repubblica

Link per firmare:
https://www.change.org/p/pietrograsso-e-lauraboldrini-vitalizi-poniamo-fine-al-privilegio