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giovedì 23 febbraio 2017

L’inganno.
di Vito Calabrese

Lo avevano tradito, lo avevano obbligato a far un’azione terribile di cui si vergognava. L’avrebbero arrestato? L’avrebbero espulso? Hessa; cosa ne sarà di lei? Tutto quel dolore non era servito a nulla.
Alberto era cresciuto nel ruolo e ogni tanto azzeccava delle giocate che finivano sempre con splendidi goal. Lui non sapeva spiegarsi come faceva. Gli venivano e basta. Quegli attimi lo trasformavano in un perfetto attaccante ma erano lampi che non si ripetevano facilmente. L’allenatore lo faceva entrare in campo quando la squadra era in difficoltà, con la speranza che risolvesse con un guizzo quella situazione difficile. Lo chiamavano Joker.
La palla correva sul campo polveroso, saltellando sui sassi che affioravano. I ragazzini correvano tutti insieme verso quella palla grigia e il primo che riusciva a toccarla, in punta di piede, ne allungava un po’ la corsa. Rashid si era distinto subito per la capacità di giocoliere. Il suo piede guizzava sulla palla e la dirigeva abilmente in qualsiasi direzione. Gianni, il mediatore culturale del campo profughi di Bresso, l’aveva promosso capitano. Lo chiamavano Shark.
Il giovane arabo con la barba riccia, nera, accovacciato a bordo campo, lo stava osservando mentre palleggiava. Rashid lo aveva incontrato alla mensa ma non gli era piaciuto. Gianni si girò e vide quel tipo barbuto parlare a Rashid che teneva la testa bassa e le braccia penzoloni. Un brutto segnale. Rashid avrebbe voluto raccontare a Gianni le minacce che aveva ricevuto dal barbuto ma non ne aveva il coraggio. Quel tipo, disgraziato, gli aveva portato via in pochi attimi, la voglia di giocare. Gli aveva detto che sua sorella Hessa era viva ma se lui non avesse fatto quello che gli chiedeva, poteva anche capitarle una disgrazia.
Quel sabato si giocava allo stadio Breda l’ultima partita del girone di andata. L’OSM di Niguarda era seconda in classifica mentre al primo posto c’erano i profughi di Bresso. Il primo tempo si era chiuso a reti inviolate. L’allenatore dell’OSM decise di sostituire il centravanti con Joker, dopo che era stata sprecata un’altra palla, calciata malamente, alta sulla traversa. Shark era cupo, ma gestiva la palla con maestria e avvolgeva Joker in una tela di passaggi, come un ragno con la sua preda. Aveva alzato lo sguardo verso la sua panchina, dove si sbracciava Gianni, e aveva notato la barba nera e riccia dell’arabo. Era venuto a controllarlo. Fu raggiunto da un passaggio, calciò la palla con tale violenza verso la rete che nessuno poté fermarla. I profughi erano in vantaggio.
Joker era infastidito. Aveva intuito che doveva attaccare Shark e spezzare quella rete di passaggi. Intercettò la palla lanciata da Luca e corse in diagonale verso l’area avversaria, sicuro di attirare Shark. Infatti quello si era lanciato verso di lui, anzi contro di lui. Il guizzo di Joker fu sbalorditivo. Il portiere si era buttato alla cieca e neanche i due difensori, rinculati sulla linea di porta, poterono evitare il goal del pareggio.

Shark era scivolato a terra con la gamba tesa e aveva travolto Joker. Battendo il tacco a terra, Shark aveva fatto scattare una corta lama tonda sulla punta della scarpa. Joker aveva cacciato un urlo di dolore, piangeva disperato guardando il sangue scorrere sulle sue gambe. Shark a terra continuava a scalciare, urlando e piangendo di rabbia. Anche i compagni accorsi furono travolti dai colpi malandrini di Shark. L’arbitro nervoso fischiava trascinando guardalinee e allenatori verso quel grumo di ragazzi impazziti.
Gianni aveva capito che stava succedendo qualcosa di sbagliato. Si girò e vide quella barba nera, riccia, quel volto eccitato che sbraitava in arabo alzando le braccia. Capì in una frazione di secondo che il disastro non era ancora finito e che poteva andare anche peggio. Si buttò su di lui e gli assestò un poderoso calcio nell’inguine. Quello si piegò con un singhiozzo senz’aria e poi lo colpì d’incontro con un tremendo pugno sulla punta del mento. L’arabo crollò a terra, svenuto, con le braccia aperte. Gianni vide che teneva uno scatolino stretto nella mano sinistra. Gli prese tremando il telecomando e affidò l’arabo ai carabinieri che si erano avvicinati.
Poi corse dentro il campo e andò da Rashid, attento a non farsi calciare, dicendogli che il barbuto era stato catturato. Rashid piangeva disperato. Lo avevano tradito, lo avevano obbligato a far un’azione terribile di cui si vergognava. L’avrebbero arrestato? L’avrebbero espulso? Hessa; cosa ne sarà di lei? Tutto quel dolore non era servito a nulla.
Alberto sta viaggiando, seduto di fianco al papà, verso la Casa della Carità di Milano, dove hanno appuntamento con Jasmine, l’assistente sociale che segue Rashid. Alberto ha ancora una gamba fasciata ed è tormentato dal pensiero che Rashid volesse ucciderlo. Papà Andrea cerca di rassicurarlo e di smontare la sua paura. “Sei la vittima ma sei salvo, hai una famiglia, vai a scuola, hai tanti amici e giochi a calcio. - Sfortunatamente. - Pensa a lui, solo, sotto sorveglianza, a rischio di espulsione, senza famiglia tranne quella sorella che non si sa dove sia. Lo aspettano il riformatorio o il ritorno in una terra ancora dilaniata dalla guerra. Non credi che le parole misericordia e perdono siano le più adeguate per questo incontro? - Non so neanche cosa sia la misericordia e poi lui voleva uccidermi. – No, forse no. - È troppo difficile.”
Sono seduti intorno ad un tavolo della mensa. Rashid è accompagnato da Jasmine. Lui tiene gli occhi bassi e non parla. Alberto è incollato alla sedia con lo sguardo perso. Gianni li ha raggiunti e, chiacchierando per stemperare la tensione e l’imbarazzo, accenna di aver saputo dai Carabinieri, con cui collabora, dove si trova Hessa. La notizia riaccende l’animo di Rashid. Gianni riesce a condurlo fuori dal suo guscio di depressione, fino a fargli accettare la presenza e l’amicizia di Alberto. Ma questi rifiuta l’offerta di pace del ragazzino arabo rinfacciandogli l’attacco sleale sul campo. “ Non ci sto. Voleva uccidermi.” A quel punto Rashid rompe l’atmosfera di disagio creata dalla dichiarazione di Alberto e riconosce di essere colpevole e di non meritare il perdono. Vuole solo sapere se Hessa si salverà e poi che sia quel che sia. “Lui ha ragione. Il bastardo sono io. Potevo anche ucciderlo. Non c’è posto per me tra di voi.” Alberto è sgomento. Non si aspettava quella presa di posizione. Improvvisamente capisce che non può lasciare che le cose vadano così male, verso il dolore e la sofferenza. “Sono io che ho sbagliato a giudicarti. Ti chiedo perdono.”
La scena si è cristallizzata. Il tempo non scorre. Gli sguardi dei due ragazzi si incrociano e scambiano tanta di quella energia che è impossibile da raccontare. Rashid si lascia andare e si raddrizza nella sua bella figura: “Sono una merda. Vorrei scomparire da questo tavolo ma devo ritrovare mia sorella. Aiuto. Aiutatemi!” Alberto alza le braccia e Jasmine lo aiuta a compiere quell’abbraccio che sembra venire da lontano. Finalmente i due ragazzi si sfiorano e piano piano si avvicinano fino a stringersi in un vero abbraccio.
Gianni rivela che Hessa è stata rintracciata in un campo profughi di Padova e si stanno facendo le pratiche per trasferirla a Bresso. Rashid ha gli occhi lucidi. Alberto ha il cuore un po’ più sgombro.
[I disegni sono di Adamo Calabrese]