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venerdì 10 febbraio 2017

UN’ESPERIENZA MAI TROPPO LONTANA
(ED UN DOLORE COLLETTIVO E PERSONALE) 
di Franco Astengo



Scrive Giuseppe Tamburrano nel suo recentissimo “La sinistra italiana 1892 – 1992”:
L’Italia aveva perduto la guerra, subito terribili bombardamenti, l’avanzata alleata e la ritirata tedesca dalla Sicilia fino al Nord, con grandi distruzioni, devastazioni e sconvolgimenti: non era un paese ricco e gli eventi della guerra lo impoverirono ancora di più.
Dopo l’estromissione della sinistra dal governo prese corpo una politica economica che danneggiò ulteriormente i ceti popolari. Luigi Einaudi, ministro del Bilancio, attuò con rigore e coerenza la politica liberista e deflazionista che era stata perseguita in modo timido e incerto dai governi precedenti.
Il Piano Marshall, che è della tarda primavera del 1947, favorì e in un certo senso rese necessaria la stretta deflazionista. Le restrizioni creditizie determinarono forti cali nell’occupazione resi ormai possibili dallo sblocco dei licenziamenti. Insieme con la crescita della disoccupazione si ebbe la diminuzione del potere di contrattazione dei sindacati indeboliti ulteriormente dalla scissione dell’anno successivo: per fare un esempio nel 1950, la CGIL, dopo essersi strenuamente opposta, accettò un accordo sui licenziamenti che era un grave vulnus per i lavoratori e accresceva il potere del datore di lavoro di mandare via il dipendente “ad natum” .
La cura Einaudi fu certamente benefica per gli industriali e per il ceto medio. Essa fu un fattore importante della crescita dell’economia e del “miracolo economico” degli anni successivi, e si rivelò un ottimo investimento politico per la DC che se ne vantò davanti agli elettori nelle elezioni del 18 aprile 1948.


Ma non fu un affare per gli operai i cui salari erano scandalosamente bassi, molto al di sotto della media europea e inferiori al livello di sussistenza, un salario medio si aggirava sulle 30.000 lire e il costo della vita per una famiglia tipo era calcolato in 50.000 lire.
Due inchieste parlamentari sulla miseria (presidente Ezio Vigorelli, 14 volumi) e sulla disoccupazione (presidente Roberto Tremelloni, 16 volumi) avevano messo a nudo la triste condizione di milioni e milioni di lavoratori e le vaste zone di miseria descritte in termini di sottoalimentazione, sovraffollamento in case con pochi servizi igienici, alta mortalità infantile, analfabetismo, carenza di servizi sociali e civili, soprattutto nel Sud. Imponenti furono le manifestazioni contadine nel Sud per il “pane e lavoro” e nel Nord per l’occupazione. A quelle manifestazioni la polizia rispondeva con cariche violente e sparando.
Sono eccidi proletari come decenni addietro e il bilancio è egualmente terribile e significativo.
Nella relazione al VII congresso del PCI Togliatti fornì i seguenti dati relativi agli anni 1948 – 49 e alla prima metà del 1950: uccisi in conflitto con le forze di polizia o da “agrari” 62 lavoratori di cui 48 comunisti; feriti 3.126 lavoratori di cui 2.367 comunisti. I militanti comunisti e socialisti erano i primi a essere licenziati; le assunzioni avvenivano attraverso informazioni della polizia e del parroco sulle idee politiche.


Leggere queste frasi fa tornare alle mente quel periodo oscuro; quella striscia di sangue che si allungò per anni  evocando le denominazioni della tragedia: Portella della Ginestra, Melissa, Montescaglioso, Torremaggiore, Modena, via via fino ai fatti del Luglio ’60 quando la riscossa operaia portò alla caduta di un governo sostenuto dai fascisti. Salgono alla memoria le visioni di una città industriale: le cariche della polizia agli scioperi, le fabbriche occupate, i Natali trascorsi in fabbrica o in piazza, il senso di angoscia e di paura quando la polizia si schierava fuori dalla scuola significando che c’erano problemi di ordine pubblico: problemi che per noi, figli di operai, significavano repressione.
Erano appena trascorsi, vivissimi nella memoria, gli anni dell’occupazione nazista.
Una drammatica esperienza vissuta cercando di cementare il senso di solidarietà per resistere: altro che le discussioni sulla “rivoluzione tradita”, in quei momenti si sentiva tutta assieme la necessità di esprimere la condizione di classe opponendoci alla pesantezza delle condizioni imposte, ai licenziamenti, alle decurtazioni sindacali, alle privazioni materiali che c’erano imposte.


Nel tempo c’è chi mi ha fatto notare che forse ho sempre riferito di quei passaggi storici con eccessiva cupezza, che non si sentiva mai -in quei racconti- un senso della gioia dell’infanzia.
Mi piacerebbe riuscire a far capire, a distanza di tanti anni, che proprio non era possibile: la miseria e la disperazione attorno a noi era così forte da farci reclamare  una possibilità di riscatto che poteva venire soltanto dalla lotta sociale e politica. Sono passati settant’anni dalle prime espressioni concrete di quella fase così difficile: a Gennaio del 1947 De Gasperi vola in America, si vara il piano Marshall, finisce la solidarietà antifascista a livello di governo (per fortuna va avanti il lavoro della Costituente), il 1 Maggio si spara a Portella della Ginestra. Si sente ancora nella mente, ben più vivo di un semplice ricordo, il dolore provato a lungo quando arrivavano gli annunci delle stragi oppure si conoscevano i particolari delle occupazioni delle fabbriche, si sapeva dei licenziamenti, dei trasferimenti forzati, dei pellegrinaggi in cerca di lavoro. Un dolore che si rinnova ogni qual volta si percepisce un’ingiustizia.
Ecco ciò che ci ha insegnato l’aver vissuto quei giorni: comprendere al volo cosa voleva dire “condizione di classe” anche senza aver ancora letto Marx e capire di conservare dentro di sé per sempre il senso della ribellione alla sopraffazione. Un impegno per tutta la vita, da mantenere e onorare anche nei tempi di ritorno al medio evo nei quali stiamo vivendo: chi lottò in quei giorni di settanta, sessanta, cinquant’anni fa non c’è più ma non avrebbe immaginato un arretramento così pauroso.