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giovedì 20 aprile 2017

Il “complesso del re”: missili, atomiche ed altre storie
di Paolo Maria Di Stefano



Un incalzare di eventi quanto meno preoccupanti, nell’imminenza di una Pasqua che, almeno per alcuni di noi, è e rimane sinonimo di pace e di rinascita: la strage di bambini anche per l’uso di armi chimiche (oltre che per miseria, malattie, lavori usuranti);  i missili lanciati dagli americani sulla Siria; gli attentati in Europa; quelli in Egitto contro i cristiani proprio la domenica delle palme; l’attentato a San Pietroburgo; la confermata volontà di costruire la bomba atomica e di farne uso da parte della Corea del Nord; la rinunzia degli USA alla difesa dell’ambiente e il loro ritorno all’energia prodotta dal carbone; la posizione della Russia in favore di Assad; il continuo flusso di profughi verso l’Europa; il Mediterraneo che sempre di più appare simile ad un cimitero… E l’ONU, che ancora una volta dimostra la propria impotenza ed a proposito della quale è forse giunta l’ora di parlare di sostanziale inutilità, anche a causa della persistente generalizzata difesa del concetto di “sovranità nazionale”, limite a qualsiasi evoluzione dei popoli, delle nazioni, degli Stati e dunque dell’intero genere umano.
Può darsi che la storia possa, un giorno, fare un po’ di chiarezza, sempre che il tutto non cada nel dimenticatoio, come è molto probabile. Nel frattempo, tutti diranno tutto e il contrario di tutto, e in tutto sarà riscontrabile un briciolo di verità.
E alcune cose, forse troppe, non saranno mai dette e alcuni dubbi, anch’essi troppi, non verranno mai espressi, soprattutto perché “impolitici”, quanto meno. A cominciare da tutto quanto potrebbe spingere a ragionare utilizzando piccoli o grandi schemi inusuali. Ne propongo qualcuno, anche se quanto dirò incontrerà con quasi assoluta certezza la riprovazione di politici, di benpensanti, di esperti e di colti, segnatamente italiani.
Ma tant’è…

1.Nell’analisi di quanto sta accadendo nessuno degli illuminati sociologi che rappresentano una delle ricchezze indiscutibili della nostra civiltà, della nostra cultura e del nostro Paese ha fatto riferimento a quella Scuola Superiore di Parentologia, attiva in tutto il mondo con successi talvolta anche clamorosi.
Eppure, si tratta, forse, della sola istituzione a carattere veramente generale, quasi una componente del DNA di tutti gli individui, di tutti i popoli, di tutte le nazioni, di ogni cultura, senza eccezioni.
Ed è presente ed attiva in tutti i rapporti tra gli individui, i popoli, le nazioni, quale ne sia l’oggetto: dalla Politica, all’Economia, al Diritto, all’Etica, alla Morale, alla Religione, sia pure in gradi diversi.
E questo rende, intanto, assolutamente stupefacente il disinteresse almeno apparente che la circonda anche da parte di quanti, singoli e istituzioni, si occupano della vita del genere umano e della sua organizzazione. ONU in testa. 
Per la Scuola Superiore di Parentologia la parentela è una professione e come tale va insegnata e appresa con serietà e metodo. E' un istituto risalente alle origini del genere umano, e pur avendo ottenuto da tempo il riconoscimento tacito degli Stati e, sopra tutto, finanziamenti non trascurabili, sembra non essere ancora del tutto a punto, pur avendo raggiunto ragguardevoli livelli. Di altissimo interesse l'insegnamento di “Storia del parentato” che, assieme al biennale corso di “Clientelismo teorico e pratico”, fa da corona ai corsi di “Istituzioni di Servilismo” e di “Filosofia dell'ossequio”, mentre sembrano carenti materie quali “Etica Professionale del Parente” e “Parentologia applicata alla Pubblica Amministrazione”. Piuttosto approfonditi e consolidati, invece, due insegnamenti fondamentali per l'esercizio della professione: “Apprensione e Appropriazione delle risorse pubbliche” e “Politica della Spartizione” i quali si giovano di un approccio più sistematico, di una elaborazione   teorica che consente di minimizzare i rischi scaturenti da una pratica tutto sommato elementare e in buona parte basata sulla improvvisazione e sulla prontezza istintiva a cogliere l'occasione quando e se si presenti. E' infatti oggi indiscusso il principio secondo il quale le occasioni vanno cercate e trovate, se ci sono; se non ci sono, vanno create.
È un dato della storia: da noi come in altre parti del mondo, il figlio di un professionista tende ad intraprendere la stessa professione del padre o anche di un parente prossimo; e quelli degli artigiani, anche. Notariato, avvocatura, farmacia, medicina, giornalismo, idraulica, meccanica, politica, imprenditoria, docenza universitaria (…): in quasi tutti i mestieri e le professioni, i figli sono indirizzati dai padri a continuare la tradizione, magari migliorandola.
Per questo, la scuola ha dato vita all'Albo Professionale Parenti e Affini (APPA) e ad una Associazione Studenti e Laureati Mercurio alla quale ultima, in attesa che sia risolta la questione giuridica, possono iscriversi anche i diplomati del corso dedicato ai Clientes, un corso breve molto frequentato. Segnalo l'iniziativa sopra tutto perché lo scambio di idee e di esperienze che tramite suo ha luogo può lasciare intravedere così nuovi orizzonti come tecniche di appropriazione delle esperienze pregresse.
Per connessione, la Scuola Superiore di Parentologia tratta della “sindrome del Monarca”, la più nota tra le forme di ereditarietà ed anche ispirazione del meno conosciuto “complesso del Re”, che spinge all’emulazione ed alla istituzione di monarchie striscianti. A tal proposito, una sola annotazione almeno in apparenza scontata: si tratta sempre e comunque di aspetti di quella ereditarietà delle professioni e dei mestieri di cui abbiamo detto.
Per l’argomento di cui mi occupo qui, ricordo: la tentata sebbene non riuscita operazione Clinton, caso non unico di successione della moglie al marito, preceduto dalla dinastia Bush; il successo di quella di Assad in Siria e di quella di Kim Jong-un in Corea del Nord, entrambi figli del Capo del rispettivo Stato; e l’operazione che riguarda Trump, parziale perché in prevalenza iscritta nella imprenditoria privata, ma non estranea alla Politica ed alla grande Economia, per volontà congiunta di Trump e della maggioranza degli americani.

Circa gli avvenimenti attuali, ancora qualcosa va premesso.
2.1. C’è una guerra, che comunque la si voglia vedere guerra è e guerra rimane. E come tutte le guerre, consente solo una alternativa: vincerla. Perché la guerra ha due sole categorie: guerra vinta oppure guerra persa, e chiunque provochi una guerra lo fa per vincerla. Come peraltro accade per chi viene aggredito e la guerra la subisce
Vincere è la causa ultima di ogni guerra, senza distinzioni ulteriori.
Di qui, una importante conseguenza: la guerra di per sé non consente altra regola che l’utilizzare i mezzi che si ritengono adatti allo scopo. E dunque, ogni mezzo è buono, se il suo uso si pensa possa portare alle vittoria.
Tanto – è la conseguenza dell’esito di una qualsiasi guerra – il vincitore forgerà un diritto a misura della tutela dei propri interessi ed al mantenimento del potere conquistato. E dunque le sue azioni diverranno comunque legalmente giustificate, in una con l’avvilimento del perdente.
Se tutto questo ha un senso – e credetemi, lo ha, purtroppo – nello specifico come mai si è cercata e si cerca con ogni mezzo l’eliminazione fisica dell’avversario, ma non quella del (presunto o reale) responsabile o, se si è tentato, non si è riusciti ad ottenere il risultato?
E non si sostenga che l’eliminazione fisica del nemico non è cosa democratica né civile: la guerra non ammette democrazia e neppure civiltà, poiché di entrambe è negazione assoluta.


2.2.Quasi tutte le guerre – anche quelle combattute senza ricorrere alle “armi” propriamente dette – al loro interno esaltano quei principi che di solito sono ritenuti propri della competizione economica ed ai quali si riconosce una libertà assoluta dai limiti giuridici, etici, morali e religiosi.
Il Presidente degli Stati Uniti è un imprenditore di successo. Significa che nel suo DNA è presente il principio fondamentale secondo il quale occorre cogliere ogni occasione favorevole alla affermazione della propria impresa sul mercato di riferimento, e che la rapidità nel farlo è essenziale al successo. Ed è un principio che afferma che la concorrenza va battuta, e i mezzi per farlo si trovano indicati in un sistema economico che prescinde da ogni altra regola diversa dalla libertà più assoluta, appena limitata da un minimo di norme che dovrebbero regolare in qualche modo il mercato in modo da non trasformarlo in automatico in un teatro di guerra armata.
Che è cosa quasi altrettanto difficile del “regolare giuridicamente la guerra”.
Il Presidente ha affermato che è suo dovere fare dell’economia statunitense la più forte e del suo Paese il più ricco. Vuol dire prima di tutto tornare a fare gli interessi immediati della gente, ovviamente disinteressandosi e sacrificando quelli dei non americani. E gli interessi immediati sono, in concreto, posti di lavoro (riaprire le miniere di carbone è un modo per ricreare lavoro, come lo è il sostenere il mercato del petrolio e il rifiuto di limitare tutte le attività che recano danni all’ambiente); e poi, far accettare gli USA come limite invalicabile ad ogni azione che non sia nell’interesse del Paese e, a maggior ragione, far desistere in partenza coloro che gli siano in qualche modo ostili. E per questo è (anche) opportuno e necessario che il mondo riconosca gli Stati Uniti come il Paese più forte, in ogni senso, e si astenga dunque –il mondo- dal contrastarlo, tanto non ci riuscirebbe e andrebbe incontro ad un sicuro disastro. Mettere in moto le portaerei, lanciare missili, dimostrare di essere in grado di reagire militarmente a (vere o supposte) provocazioni…
Significa, se così posso esprimermi, validare a livello planetario la battuta di Franca Valeri sul marito (Alberto Sordi) imprenditore, da lei (quasi) affettuosamente chiamato Cretinetti: “vuol fare concorrenza alla Montecatini!”. Se ricordo bene, si tratta de “Il Vedovo”, diretto da Dino Risi, secondo me un capolavoro di umorismo nero: se sostituite “Montecatini” con “USA” e “Cretinetti” con uno Stato qualsiasi…


2.3.La conquista del potere, il suo accrescimento e il suo mantenimento sono obbiettivi sempre, dovunque e comunque giustificati dal “bene comune” della nazione (come dell’impresa) di riferimento. E dunque, ottime ragioni per stroncare sul nascere qualsiasi opposizione. In politica come in economia.
Meglio: il perseguire il bene comune è una vera e propria argomentazione di vendita diretta a fare accettare “dalla gente” quanto i detentori del potere fanno o hanno in animo di fare, in genere nel proprio esclusivo interesse e in quello dei clienti e sodali, in perfetta malafede. I pochissimi in buona fede sono sempre stati considerati idealisti illusi quando non perfetti imbecilli.
Credo non sia mai esistito e non esista al mondo “uomo politico” e ancor di più “uomo forte” a capo di uno Stato che non faccia l’impossibile per proporsi ed essere accettato come detentore della ragione, della conoscenza di ciò che è bene per il popolo, del dovere di difendere lo status quo da una massa di incompetenti disonesti nemici. E che sappia resistere alla tentazione di chiamare in causa Dio quale fonte del potere e ragione dell’uso dei mezzi ritenuti adatti a mantenerlo e accrescerlo.
E sia chiaro: Dio viene evocato anche quando lo si nega, poiché ogni politico crede di esserlo in proprio e cerca di vendersi alla gente come tale.
Immaginiamoci quando si tratti di un dittatore, detentore del potere assoluto!
Tutto questo giustifica qualsiasi cosa, anche la detenzione e la tortura e la pena di morte e i comportamenti più biecamente crudeli nei confronti di chiunque “non creda”. La storia ci dice che spesso è bastata una obbiezione o anche il solo sospetto di una possibilità di contrasto per eliminare fisicamente anche figli, coniugi, fratelli, parenti…
In politica, come in economia, ciò che conta sono i rapporti di forza.
Con almeno una possibile aggiunta: gli imprenditori – come i politici- essendo “uomini illuminati” sono in grado di prevedere il futuro e, in molti casi, addirittura di preordinarlo operando sul presente affinché cambi l’avvenire.
Che in genere scarseggino di autocritica e di senso dell’umorismo è un’altra questione, peraltro suffragata dalla storia.


2.4.Nel caso di Assad, (ma quello di Kim Jong-un non è poi troppo diverso) mi pare di poter dire che ci troviamo di fronte ad un dittatore talmente illuminato da essere in grado di occuparsi non solo del presente, ma più ancora del futuro del suo Paese e della sua gente. Presente e futuro che si chiamano come lui. E di questo sono forse convinti coloro che lo sostengono.
I quali un giorno loderanno l’uso delle armi chimiche e la strage degli innocenti come il tentativo di preservare la Siria dai rischi di una popolazione che pretenderebbe pace e lavoro, se la si lasciasse fare, e ciò farebbe anche ricordando gli anni della guerra, della miseria, delle stragi, delle fughe. Cosa di più efficace, se così è, del cancellare la memoria attraverso l’eliminazione fisica della attuale generazione e di quella futura? Oppure (o anche) ritenere che è meglio salvare i giovani da un futuro nero, quale sarebbe quello senza di lui, uccidendone il maggior numero possibile, in base ad uno dei sacri principi fondamentali: a mali estremi, estremi rimedi.
E poi, il bene del mondo! Non mi stupirebbe affatto se si scoprisse che l’obbiettivo ultimo è quello di contribuire alla riduzione del numero della popolazione mondiale: una popolazione ridotta avrebbe maggiori risorse a disposizione e quindi una vita migliore.
Se così fosse, Assad si proporrebbe come un modello di perfezione irraggiungibile. Dimostrerebbe di perseguire il perpetuarsi della specie e la qualità di vita dell’intero genere umano a costo di sacrificare gli interessi della sua gente.
Anche ignorando un altro dei sacri principi fondamentali: il numero è potenza. 
Egli ha rinunciato a copiare da coloro che hanno pianificato e gestito campagne demografiche, magari stabilendo premi per la nascita dei figli (cosa peraltro che in qualche modo sembra tentare alcuni dei nostri politici e sociologi, preoccupati per il basso tasso di natalità nel nostro Paese) e, soprattutto, ha provveduto ad impegnare tutte le risorse possibili per non correre il rischio insito in una migliore qualità di vita: quello di desiderare di mettere al mondo più figli. La povertà, la schiavitù, le malattie vanno incentivate, e in Siria (e non solo: la Corea del Nord segue a ruota) questo è successo, poiché le risorse sono provvidenzialmente andate alle armi ed alla ricchezza dei pochi meritevoli perché necessari a guidare la nazione alla fine.
Un segnale certo della decadenza di civiltà tra di loro diverse ma almeno in parte fatte di una cultura abbastanza avanzata da consentire affermazioni del tipo “la guerra va respinta”, “la violenza non paga”, “il convincimento è il mezzo migliore” (…), tutte affermazioni che hanno già perduto gran parte del significato loro proprio. Il ritorno all’uso della violenza e della forza più o meno bruta, a tutti i livelli e sotto tutti i cieli, è un passo indietro di immensa portata e tale da non poter essere ignorato. Si tratta del frutto di una “ignoranza di ritorno” alla quale sembra nessuno possa almeno per ora sottrarsi, in una con quello che appare come il trionfo della imbecillità.


3.Da qualche parte è stato affermato che la previsione degli attentati terroristici e la ricerca e la individuazione degli organizzatori e dei responsabili sia un qualcosa di praticamente impossibile. Il che rende difficilissima la difesa e casuale ogni eventuale successo.
Io credo che se si provasse ad approfondire il tema della imbecillità e dei suoi rapporti con gli individui e con gli eventi, con qualche probabilità si potrebbe compiere qualche passo positivo.
Una delle caratteristiche dell’imbecille è l’imitazione. L’imbecille è spinto dal proprio status a replicare azioni a suo parere in grado di produrre notorietà e dunque di toglierlo dall’anonimato.  Chi, magari da giovanissimo, non ha partecipato ad una dimostrazione (studentesca, in genere) senza neppur sapere il perché di quell’accadimento, scagli la prima pietra. In più di una occasione, quella partecipazione si è dimostrata il seme dei successivi comportamenti da imbecille, tutti in genere caratterizzati dalla mancanza assoluta di creatività e più ancora di consapevolezza.
E se fosse vero che una qualsiasi forma di notorietà è una delle molle della imbecillità, potrebbe pensarsi a combattere proprio la notorietà, rinunziando a dare risalto alle azioni degli imbecilli ed a quelle di chi le utilizza. Non sarebbe certo la soluzione ai problemi creati dal terrorismo, ma probabilmente la riduzione di una motivazione di un certo rilievo, questo sì.
Che sarebbe cosa positiva.