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mercoledì 21 giugno 2017

AI MATURANDI DI TUTTA ITALIA
di Chiara Pasetti

Nessun continente è sessualmente così corrotto come l’Europa
a causa del matrimonio monogamico contro natura.
Arthur Schopenhauer

A. Schopenhauer


In questi giorni migliaia di studenti affrontano gli esami di maturità. Ricordo ancora con emozione e anche un po’ di (giusta?) ansia il momento del tema, che ora si chiama “prima prova”, ed è per tutti i maturandi che scrivo queste righe, come un mio personale “in bocca al lupo” che permetta loro di conoscere meglio uno degli autori che da sempre, sugli studenti dell’ultimo anno delle scuole superiori che hanno studiato filosofia, esercita il fascino maggiore: Arthur Schopenhauer.
Il «saggio di Francoforte», detto anche «il solitario», è molto gettonato per le tesine interdisciplinari. Le tematiche che lo chiamano in causa sono molteplici: l’amore, la morte, il dolore, la sessualità, la noia, argomenti che intrigano molto i diciottenni (e non solo) che in quinta si sono trovati alle prese con il secolo dell’idealismo e del romanticismo, del positivismo, del naturalismo e del verismo, del simbolismo-decadentismo, e con le grandi avanguardie del ’900. Anticipatore delle teorie freudiane, malgrado il padre della psicoanalisi non abbia riconosciuto a sufficienza il debito contratto nei suoi confronti, Schopenhauer ha esercitato il suo influsso su molti artisti e filosofi, primi fra tutti Nietzsche, Wagner, Mann, ma anche Tolstoj, Kafka, Borges, Flaubert e Maupassant, Proust, e molti altri, tanto che il germanista Verrecchia, uno dei massimi studiosi italiani del filosofo, in un testo a lui dedicato lo chiama «il Musagete», e scrive: «come definire altrimenti un filosofo che ha fornito i canoni estetici a generazioni di artisti?».
Quando si parla di Schopenhauer tutti gli studenti ricordano la nota teoria del pendolo, secondo la quale la vita umana è appunto un «pendolo» che oscilla incessantemente fra il dolore e la noia, passando attraverso l’intervallo fugace (e comunque illusorio) del piacere e della gioia. Questa teoria è una conseguenza della scoperta principale del filosofo: l’essere è la manifestazione di una Volontà infinita, una volontà di vivere che pervade ogni essere della natura, sia pure in forme distinte e secondo vari gradi di consapevolezza, e costituisce pertanto la radice noumenica dell’universo. Come ha suggerito Magee, avrebbe fatto meglio a chiamarla «energia», per liberare questo concetto dall’idea di qualcosa di umano e consapevole e per rendere quindi più lampante come la sua scoperta anticipasse, anche se per via puramente speculativa, una visione del mondo cui ci avrebbe abituato solo la fisica del Novecento. Forse è proprio questa mancanza di incisività (solo nominale!) nel concetto base della sua filosofia che ha provocato l’insuccesso iniziale del suo Mondo come volontà e rappresentazione, testo fondamentale dell’Ottocento, che verrà apprezzato soltanto molti anni dopo la pubblicazione. Sostenendo che ogni essere ha in sé un forza, cieca, senza scopo, eterna, unica e inconscia, la Volontà appunto, Schopenhauer dice anche che vivere è desiderare, e desiderare significa trovarsi in uno stato continuo di mancanza, di assenza, di vuoto, di tensione… di dolore, dunque.

Il desiderio, la privazione, sono infatti condizioni preliminari di ogni gioia. Ma con la soddisfazione cessa il desiderio, e quindi anche la gioia. La soddisfazione, la felicità, si riducono in fondo alla liberazione da un dolore e da un bisogno. […] Di che s’ha una conferma nell’arte, fedele specchio dell’essenza del mondo e della vita: e specialmente nella poesia. Un poema epico o drammatico conduce alla meta gli eroi, e appena raggiuntala, fa calare il sipario. Non rimane più altro, infatti, che dimostrare come lo splendido fine in cui l’eroe sognava di ottenere la felicità, non fosse che un inganno; come il conseguimento non abbia reso l’eroe più felice di prima. La felicità vera e duratura, essendo irrealizzabile, non può nemmeno costituire l’oggetto dell’arte.

Con i buoni sentimenti si fa cattiva letteratura, diceva Gide. Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare un appagamento durevole, e assomiglia «all’elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento». Se il dolore si identifica con il desiderio, che è la struttura stessa della vita, ne consegue una visione estremamente tragica, che si esprime nell’ultrapessimismo della «nullità dell’esistenza». Per liberare l’uomo non dal dolore, ma dalla stessa volontà di vivere, Schopenhauer propone un iter salvifico che si articola in tre momenti essenziali: l’arte, la morale, e infine l’ascesi. I primi due sono in grado di spezzare solo temporaneamente le catene della volontà; il solo modo per estirpare totalmente il proprio desiderio di esistere, di godere e di volere consiste nell’ascesi, che fa capo al nirvana buddista. Ora, il primo passo dell’ascesi è la castità perfetta, che deve liberare l’uomo dalla prima e fondamentale manifestazione della volontà di vivere, ossia l’impulso alla generazione e alla propagazione della specie. In uno suo scritto, da lui stesso definito «una perla», La metafisica dell’amore sessuale, ci dimostra che l’amore, la più violenta e tirannica delle passioni, è un inganno della natura, alla quale sta a cuore la specie e non l’individuo, che essa tratta come uno strumento o un semplice «zimbello».
Non c’è amore senza sessualità, ogni innamoramento affonda le sue radici nell’istinto sessuale, e l’unico amore di cui il filosofo può tessere l’elogio non è quello generativo dell’eros, ma quello disinteressato della pietà, ma siamo sicuri che lui seguì davvero, in pratica, quello che andava elaborando in teoria? Assolutamente no! Questo gli studenti non lo sanno. Schopenhauer non è soltanto il filosofo del pessimismo, del pendolo e dell’ascesi, non è il «salice piangente della filosofia», e meno che mai un misogino, come i passi sulle donne possono far pensare (uno per tutti, «alle donne come ai preti non va fatta alcuna concessione»…). Ebbe moltissime amanti, moltissime passioni, fu un donnaiolo insomma, un «predone di alcove». Ebbe anche vari amori italiani, fra cui una veneziana di nome Teresa Fuga, per colpa della quale mancò un incontro con un’altra natura, al pari della sua, «demoniaca o dionisiaca a seconda delle circostanze», ossia il grande Byron. Lui stesso scrive che in Italia non godette «solo il bello, ma anche le belle», predicava bene e razzolava male, dunque? Certo è che quando afferma che «se la passione di Petrarca fosse stata appagata, il suo canto sarebbe ammutolito», lascia intendere che la cosa non valeva affatto per se stesso… «Ho insegnato che cosa sia un santo, ma non ho detto che lo sia io», appunto! La sua amante Teresa Fuga gli spedì una lettera in cui gli comunicava il suo desiderio di rivederlo e riabbracciarlo; questa lettera era indirizzata «all’Onoratissimo signor Arthur Scharrenhans» [sic!]. Il filosofo deve essere inizialmente inorridito per questa storpiatura, lui che si rifiutava di pagare le fatture se il suo cognome era scritto con due p! Ma a sbagliare la grafia era stata una bella donna, che gli piaceva, e molto, se per lei attraversò l’Italia ritornando da Roma a Venezia, e dunque fece buon viso a… cattivo cognome!
Ragazzi, futuri maturandi e non, almeno voi cercate di scrivere il cognome del grande filosofo, così come quello del suo allievo più celebre, Friedrich Nietzsche, fra i più storpiati della storia della filosofia, correttamente!
E ancora in bocca al lupo di cuore per gli esami di maturità, e per il proseguimento dei vostri studi.