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venerdì 30 giugno 2017

Il cyber-bullismo, da dove iniziare?
di Giuseppe Oreste Pozzi

Giuseppe Oreste Pozzi

Premessa
«Se hai mai amato il tuo tenero padre…Vendica il suo assassinio ignobile e mostruso!» (Atto I, scena 5). Chi parla è il Ghost che torna a domandare ad Amleto di pagare, al suo posto, il debito cha ha per il fatto di essere morto «falciato nel pieno fiore dei [suoi] peccati». Ciò che fa di questo padre (di Amleto) una vittima ma anche un bullo dei nostri giorni, per così dire, è il fatto che egli, in quanto padre, domanda vendetta. Un padre che lascia in eredità al figlio la responsabilità di una vendetta e di una rivendicazione radicale. Il padre si presenta come castrato (è addirittura morto), ma rifiuta di sopportarne lui stesso il prezzo di tale condizione. Lo spettro si mostra come un io ideale, come eroe tradito che rivendica giustizia per mano del figlio. Un eroe che non accetta i suoi limiti, i suoi peccati, i suoi sintomi, potremmo precisare, cioè la sua condizione di soggetto che parla, di soggetto nato come essere parlante e, quindi, come essere limitato.
Anche Caino, molto tempo prima del Ghost di Amleto, non vuole pagare il suo debito (di castrazione per i suoi peccati/sintomi). Preferisce, anzi, sceglie di uccidere il fratello Abele intento nel sacrificare a Dio in quanto consapevole del proprio limite, del proprio sintomo di essere umano e parlante, del proprio essere di soggetto mancante di qualche cosa.
Il nostro tempo non ha più niente a che vedere con il peccato (almeno sul piano sociale e politico), non ha più nulla a che vedere con la mancanza e con la privazione. La psicoanalisi potrebbe proporre di usare, al posto del termine peccato, il termine sintomo che per Freud va a braccetto con il godimento. Sintomo/Godimento costituiscono, quindi, il peccato sfacciato della modernità. Rimane il fatto che, l’odio e la vendetta, sono segnali chiari e sono lì a dimostrarci che le cose non stanno proprio così. Questo tempo non è passato affatto. Il peccato o meglio il sintomo esistenziale che testimonia del malessere dell’essere parlante, continua a mostrare il dis-agio della modernità e a esistere imperterrito anche se il paradigma sociale moderno appoggia la propria illusione sul “perché no?” per tutto quanto un tempo era proibito, non giusto etc.. Questo mi piace, quest’azione mi dà adrenalina, questo oggetto mi fa godere ed allora perché no?


La salita allo zenit dell’illusione del possesso dell’oggetto, avviene di pari passo con la salita allo zenit dell’illusione di avere tutte le libertà che si vogliono e anche con la così detta evaporazione del Padre. Un’evaporazione che arriva ad abolire il Sacro, arriva a far legiferare alcuni Stati che aboliscono il reato di blasfemia. In questa prospettiva, il rispetto per il soggetto (dell’inconscio) è già morto da tempo. Si tratta di una morte perseguita dalle istituzioni sociali quando tendono a articolarsi attorno alle ideologie del benessere, date dall’oggetto posseduto e/o da possedere, dagli standard, dai protocolli, dalla materialità dei benefici e dei risultati da ottenere a qualunque costo, al punto che sul trono c’è sempre un oggetto da volere e possedere per una qualche soddisfazione necessaria.
Il soggetto, totalmente fuso con il suo oggetto da consumare, rischia di venirne alienato o sepolto. Istituzioni mortifere e tombali che non riescono a dare spazio al soggetto pur essendo mosse dall’illusione di volerlo salvaguardare sotto l’egida della giustizia e del benessere uguale per tutti. 
Le istituzioni stesse, per altro, offrono e costituiscono il palcoscenico, il teatro, la palestra per l’esibizione del proprio sintomo/godimento, della propria volontà di potenza sugli altri. L’altro è spesso il diverso da me da vessare, da usare, da sfruttare al servizio del proprio interesse personale. Il battito desiderante del soggetto, come strumento per la costruzione del legame sociale e al servizio della pulsione di vita, lascerebbe il posto alla pulsione di morte che si è insinuata in tutte le istituzioni a partire dalla famiglia. Il principio dell’individualismo, dell’utilitarismo e del personalismo invece di cedere il passo all’interesse e al legame sociale contamina le istituzioni a partire dalla famiglia come istituzione che persegue in modo chiuso e radicale il proprio individualismo istituzionale.


La questione
Il bullismo è un fenomeno noto agli esseri parlanti dai tempi di Caino e Abele, sempre che non si voglia andare più indietro nella storia. Come il bullo moderno, di tale uccisione Caino non se ne fa carico, quando il Padre Eterno gli chiede dove sia suo fratello, lui nasconde la mano “non sono io custode di mio fratello”. Dio, diversamente dal Ghost, in questo caso, non viene a chiedere vendetta. Chiede semplicemente a Caino dove abbia messo la sua questione, cosa stia facendo con la sua stessa esistenza, chiede a Caino cosa abbia fatto del suo legame fraterno, del suo legame sociale! Sulla metafora di Caino e Abele, come struttura di base del Cyber-bullismo ci torneremo fra un istante.
Il Cyber bullismo sarebbe un’esperienza storica recente che si basa, tuttavia, su vecchi schemi e antichi modelli. Schemi e modelli molto noti non solo a tutti i sistemi mafiosi o di intelligence che, come noto, conoscono e praticano quotidianamente tale schema. Da quando, cioè, chi comanda e ordina la violenza contro qualcuno, non è la stessa persona che la agisce. Anche Caino nega l’esistenza di quella parte di sé che agisce la violenza per l’invidia e la gelosia che cova l’altra parte di sé. La rete internet favorisce questo sdoppiamento di personalità e diventa uno strumento potente e micidiale nascondendo o comunque tenendo nell’ombra chi schiaccia il bottone, chi preme il tasto. Un fenomeno molto noto e verificabile anche in tutte le famiglie e non c’è bisogno che ci siano tanti figli per capire come funziona la logica di questa operazione distruttiva. Si tratta sempre di una logica soggettiva anche se cerchiamo di affrontare la questione con strumenti sociali. È fin troppo noto l’esempio che riporta lo stesso Sant’Agostino quando racconta della grande rabbia del fratellino che ancora non parlava ma già si avventava contro il neonato percepito usurpatore della madre, cioè del proprio bene inalienabile. La madre come bene inalienabile nella percezione del bambino occorre che diventi interdetta dal padre e non dal bambino piccolo geloso e invidioso del neonato. 


Questa funzione interdittiva va costruita già nell’istituzione famiglia perché possa diventare l’elemento propulsore che, proprio nel momento in cui riesce a separare simbolicamente il bambino dalla madre, cioè a svezzarlo, riesce a organizzare e costruire il legame sociale. Il legame sociale come effetto dello svezzamento/separazione tra madre e bambino. Valorizzare la differenza tra soggetti significa proprio imparare ad andare oltre l’invidia e la gelosia per costruire un legame simbolico e, per questo, sociale. Dal momento in cui la madre riesce a distrarsi dal proprio bambino come oggetto di godimento questo stesso fatto costituisce la base perché il bambino impari a riconoscere che cosa sia un desiderio. La madre che desidera al di là del bambino permette al bambino di imparare a giocare. Il gioco della dialettica desiderante. Un gioco che passa dall’oggetto del desiderio, dall’oggetto artistico in quanto oggetto inventato per esplorare il funzionamento della dialettica desiderante. La serie infinita delle invenzioni e delle creatività artistiche sono già l’effetto di questa abilità del bambino al gioco simbolico.
Noi abbiamo deciso, allora, di utilizzare, nel nostro lavoro clinico, gli strumenti e gli oggetti messi a disposizione dall’arte. 
Il connubio arte e psicoanalisi è particolarmente fecondo. Forse più sorprendentemente fecondo del tentativo di far dialogare tra loro scienza e psicoanalisi, medicina e psicoanalisi. Non che queste differenti posizioni siano in antagonismo tra loro, ma certamente la scienza o meglio lo scientismo è molto più segregativo (come i sistemi burocratici) che non l’arte. Non è un caso che per J. Lacan e per S. Freud l’arte è sempre aventi un passo dalla psicoanalisi ed allora, noi psicoanalisti abbiamo deciso di fonare delle istituzioni (rette sul sistema burocratico) ma facendo praticare ai nostri ospiti esperienze ed incontri con l’arte, con l’espressività.
L’espressione artistica o il gioco simbolico-espressivo permettono al soggetto di presentarsi già con un suo discorso. “Senza l’arte ci sarebbero troppe cose da spiegare” si legge sui muri delle case di Pavia, nel centro storico. L’angoscia e il godimento non sono spiegabili ma testimoniabili in qualche modo perché vengono manifestati. Il fatto stesso di poterli testimoniare ed avere un luogo ed un tempo per poter esprimere in un atelier-laboratorio espressivo quanto si vorrebbe dire senza avere le parole per dirlo è già una esperienza di incontro pacificante per l’individuo.



Testimonianze di artisti
Perché utilizziamo l’arte anche per poter incontrare i così detti bulli ed aiutarli ad essere in grado di misurarsi con le loro paure e con le loro difese troppo distruttive?
Perché l’arte ha il valore della trasparenza simbolica favorendo lo slancio immaginario, per così dire, lo slancio creativo sia a livello delle forme sia livello dei contenuti. Per poter aiutare i ragazzi e gli adolescenti a non avere paura della vita e a superare i momenti di angoscia esistenziale che li disorienta, occorre che imparino a parlarne. Là dove la parola non riesce ancora a prendere corpo, l’azione espressiva può agevolare la domanda di aiuto, può aiutarli a testimoniare quanto urge dentro la loro condizione esistenziale insopportabile. Tutti i comportamenti distruttivi dei ragazzi, quelli contro sé stessi ed il proprio corpo e quelli contro gli altri e contro le regole sono una testimonianza evidente, attraverso i loro agiti scomposti, di una non preparazione a sentirsi accolti e riconosciuti nel loro discorso personale e anche perché non hanno ancora gli strumenti utili, opportuni e necessari, per poter essere loro stessi a pronunciare o a farsi degnamente rappresentare dal loro stesso discorso.
L’arte o gli atelier dell’espressività sono lì a disposizione per permettere ai ragazzi e agli adolescenti di potersi far rappresentare da un qualsiasi segno che loro stessi, tuttavia, decidono di proporre e di offrire. Ogni segno, ogni discorso è pur sempre una domanda rivolta all’Altro che potrà, quindi, accoglierlo. La domanda rivolta all’Altro è già un modo simbolico per evitare l’agito immaginario e difensivo. Quello che conta è che qualcuno sia lì ad accogliere questa domanda. Non si tratta, allora di diagnosticare chi sa quale bisogno da curare, ma di favorire l’espressione e la rappresentazione della domanda che urge dentro anche se non ci sono ancora le parole per pronunciarla, una domanda di aiuto possibile, riconoscibile e accoglibile.


Come insegnano Freud e Lacan, l’angoscia, quella esistenziale che attanaglia i ragazzi e gli adolescenti e non solo loro, è sempre una risposta alla libido. Un troppo di libido ci sommerge di angoscia ed è quindi la libido che deve essere, per così dire, negativizzata, contenuta, aggirata, limitata, circumnavigata, presa in giro, bordando il buco stesso di tale angoscia. Sì perché l’angoscia è un vero e proprio buco nero. Freud parlava di angoscia senza oggetto mentre per la stessa ragione Lacan parla dell’angoscia il cui oggetto è l’oggetto vuoto, il buco nero, appunto, l’urlo di Munch è, se vogliamo, una testimonianza esemplare di come possa prendere forma il buco nero dell’angoscia. L’arte è lo strumento principe per mettere al lavoro queste operazioni di aggiramento o meglio di circumnavigazione del buco nero dell’angoscia. Gli atelier-laboratori che organizziamo e sviluppiamo valorizzano ovviamente gli oggetti dell’arte.

I quadri di Michele Miotto
Un esempio classico di come la questione soggettiva può essere messa in gioco a partire da un’esperienza di incontro con l’arte figurativa è quella che ci offre Michele Miotto che ha partecipato al festival dell’espressività Stanze di Psiche del 2016 il cui titolo era “Cosa Mangio e con chi Parlo?”. Di seguito qualche testimonianza di tale artista. Questo quadro porta il titolo “Il tormento di Ligabue”, per esempio ed è stato donato, dall’autore ad Artelier. Lo si può vedere, ora, esposto presso il Centro Diurno Antennina di Milano all’interno della Società Umanitaria di Milano. Il quadro “Senza nome” rimanda alla oscurità di un futuro ancora innominabile e, per questo, pieno di angoscia, di terrore e di attesa non conoscibile, non pensabile, non percepibile e, forse, ancora insostenibile.
Michele Miotto "Il tormento di Ligabue"

Dopo questi lavori espressivi l’autore ha capito che poteva rimettersi in viaggio e tornare alla sua terra. Riannodare la sua vita alle sue stesse radici invece che rimanere in Italia dove aveva potuto riprendere sì in mano la propria vita, ma senza riuscire a sentirsi a proprio agio, senza sentirsi a casa propria. La rabbia da esule si trasforma in energia per riprendere la propria strada nella propria terra, in Africa.

Michele Miotto "Senza titolo"


Autori famosi
Se ora decidiamo di accostare i prodotti artistici di autori famosi ci potremo rendere conto, molto semplicemente ed empiricamente, di come le questioni che vengono messe in evidenza e che rinviano alla elaborazione personale e soggettiva sono facilmente connesse con una modalità di elaborazione personale dell’angoscia indipendentemente dalle latitudini e dai tempi storici.
L’urlo”, realizzato a Oslo, da Eduard Munch è uno ei più famosi dipinti dell’espressionismo nordico. Angoscia e smarrimento non segnano solo il pittore norvegese, ma la vita di tutti gli esseri parlanti, anche se un artista, forse, è più sensibile dei comuni mortali. Potremmo usare come metafora significativa e suggestiva una delle tante spiegazioni di questo quadro che potrebbe essere la rappresentazione di un uomo il quale, nel vedere un tramonto rosso e così incantevole, si mette ad urlare il suo grande stupore, la sua grande meraviglia e la sua grande angoscia nel sentirsi troppo piccolo nell’immensità dell’universo in cui vive.

Munch "L'urlo"


La presenza partecipata e trasparente degli adulti
L’effetto pacificante delle opere, anche di quelle appena proposte, dipende sostanzialmente dal fatto che si riescano a realizzare e ad avere qualcuno che le riconosca, che le accetti. Accettare un oggetto realizzato da qualcuno significa accettare e riconoscere chi lo ha fatto, chi lo ha prodotto. Quando un’opera riesce a ben testimoniare il dramma soggettivo del suo ”artista” allora è possibile che raggiunga un effetto educativo perché rappresentativo del discorso del soggetto. Almeno per due ragioni:
L’autore, il soggetto, si concentra sul suo fare e sul suo esprimere quanto sente e questo ha già, come effetto una migliore gestione di quanto sente, di quanto percepisce;
Il soggetto, l’autore, realizza qualche cosa che ha a che fare con il suo desiderio esistenziale anche se non riesce a soddisfare o tacitare o calmare completamente quanto gli urge dentro (la pulsione  che gli “urla” dentro);
Le condizioni che gli permettono di fare quello che riesce a rappresentare lo distraggono sia della propria angoscia sia dalla propria paranoia ed odio esistenziale;
Le condizioni che gli permettono di fare quello che riesce a rappresentare lo trattengono anche dal praticare danni su di sé e sugli altri.



Il lavoro che ci troviamo a fare è di dedicare del tempo a coloro che si rivolgono a noi e ai loro familiari per capire meglio, non a partire da una diagnosi che di solito bisogna fare in fretta e usando schemi preconfezionati e rischia di diventare una grave etichetta sociale più che uno strumento clinico. Non per sottolineare e dare troppa importanza ai sintomi che sono di solito fin troppo evidenti, come aggressività, crisi reattive etc. Ci diamo del tempo per capire, caso mai, da dove vengono questi disturbi, che storia personale e familiare e sociale hanno questi sintomi. Si tratta di cogliere, allora, la questione preliminare e soggettiva ad ogni possibile trattamento clinico. C’è sempre una pista per cogliere una qualche congiuntura drammatica anche se negata dal soggetto, per incominciare a costruire quella fiducia di base da cui far nascere un percorso personalizzato e possibile. L’arte come strumento è certamente un mezzo. Diagnosi e cura sono la cadenza temporale di un discorso unico ed armonico e non un modo per separare il tempo ed il luogo di chi fa diagnosi da chi fa terapia, come succede in tutte le istituzioni sanitarie e scolastiche.


Un caro amico psichiatra, psicoanalista e organista che lavora da anni  con i criminali del Carcere di massima sicurezza di Catania ha trovato come valorizzare la musica per un lavoro clinico efficace con loro. Sono molto interessanti i suoi racconti e i suoi articoli che descrivono come sia riuscito a costruire, tra quelle mura e con tali personaggi apparentemente incalliti del crimine, delle condizioni favorevoli sul piano clinico per la riabilitazione dei condannati per pene molto gravi. Si trova, cioè, ad ascoltare le crisi di pianto di questi criminali incalliti che dimostrano di non avere paura a mostrarsi a piangere davanti a brani musicali particolarmente toccanti.  È, per loro, la porta di ingresso per incominciare a testimoniare un proprio discorso soggettivo di elaborazione possibile dei loro misfatti che né loro, né il direttore del carcere non pensavano certo di incontrare in questo luogo.

Un breve esempio clinico
Non si tratta di usare un sapere valido per tutti.
Si tratta di capire come usare il sapere al servizio del soggetto, uno per uno e non per tradurlo in una tecnica “standard” valida per tutti.
Avendo da gestire Comunità terapeutiche residenziali per minori e centri diurni per minori, adolescenti e giovani adulti, dove ovviamente abbiamo dovuto installare Pc ed internet ci troviamo anche noi esposti a questioni delicate e da gestire nel regolamentare l’uso di tali strumenti. Il caso che vi presento tuttavia non è preso dalla questione con internet perché credo riesca a mostrare più facilmente il sistema come intervento clinico da pensare.
Vi propongo, quindi, un esempio la cui dinamica è evidente agli operatori che se ne occupano sapendo che il format di tale dinamica è analoga a quella che stiamo ascoltando oggi sul tema del Cyber Bullismo.


Due ragazzi uno che mostra tutta la sua forza e la sua violenza contro chiunque ed un altro ragazzo che, invece, si presenta come pulito ben educato e intelligente. Abbiamo bisogno di un po’ di tempo per capire che, insieme, costituiscono una coppia devastante nei confronti del  gruppo in cui si trovano inseriti, all’interno di uno dei nostri  Centri Diurni.
1. Quando abbiamo capito che Renzo (il ragazzo che fa il bullo) è semplicemente la mano armata di Luciano (la mente che decide come utilizzare la mano), decidiamo che si deve affrontare la questione con molta delicatezza ma anche con grande trasparenza e nel rispetto di tutti. Facciamo allora una riunione con i due ragazzi dichiarando apertamente quello che ci pare di capire che avvenga tra loro ed il gruppo che in certi momenti sembra proprio ostaggio della coppia, benché nessuno riesca a cogliere immediatamente il legame  che c’è tra Renzo e Luciano.
2. I due ragazzi, prima incontrati a tu per tu e poi insieme, non hanno difficoltà ad ammettere. Con il loro assenso decidiamo che è necessario stabilire un accordo e proponiamo loro delle ipotesi. Ci penseranno una settimana e nel frattempo concordiamo di informare anche i loro familiari;
3. I familiari concordano sulla proposta;
4. Incontriamo nuovamente i due ragazzi per stabilire i termini dell’accordo che viene scritto e sottoscritto dai ragazzi stessi: il Centro Diurno organizzerà sempre due tipi di atelier-laboratori: mentre tutti i ragazzi potranno decidere a quale laboratorio iscriversi per loro, la scelta, sarà obbligata nel senso che il laboratorio frequentato dall’uno non potrà essere frequentato anche dall’altro. Il nuovo programma avrà una durata di due mesi e poi si rifarà il punto della situazione insieme, ragazzi ed operatori;
5. Il monitoraggio ha subito mostrato una maggiore possibilità di gestione dei due ragazzi. I tempi del monitoraggio sono diventati i tempi di una scansione clinica che mostra che è possibile. Il delirio a due che si era innescato è stato spezza a favore di una costruzione simbolica difficile ma possibile.


Per un legame sociale costruttivo
Se le guerre si fanno sempre in due, nel nostro caso tra una vittima e un carnefice, la pace la si costruisce e la si raggiunge da soli, possiamo dire. Che cosa significa?
Le guerre sono figlie dell’immaginario che funziona come luogo della fuga in una vita inautentica come dice Carlo Sini. La vita inautentica è una questione di tutti, accompagna la vita di tutti. Non ho mai conosciuto una persona che possa dire di essere completamente soddisfatta -continua Carlo Sini- Non abbiamo ragioni molto valide per argomentare questa insoddisfazione di una vita inautentica (1).
Peer questo è necessario quello che chiamiamo il lavoro simbolico del soggetto, uno per uno. Si tratta di un lavoro, appunto. Come tutti i lavori richiede impegno, costanza, applicazione personali e si può incominciare, anzi conviene incominciare ad esercitarsi, in questo lavoro simbolico, a partire dal un battito desiderante che di solito si produce in tutti gli esseri parlanti! Non si tratta di un divertimento prêt á porter, per così dire. Si tratta di un lavoro che passa certo attraverso il gioco, il gioco simbolico, appunto, e richiede esercizio, non una fuga.
Carlo Sini, rivolgendosi ai giovani, li esorta in modo forte: “Prendi coscienza della tua non originalità” (citando Sartre) “incomincia a pensare che quello che pensi non è proprio affare tuo – la rivoluzioni che pensi di essere l’originale interprete non è proprio tutta tua etc.”
La prima forma di vita inautentica è il furore e l’odio di vivere, sottolinea Carlo Sini. L’odio e il furore che vengono tramandati e che non vengono elaborati sarebbero la prima forma di vita inautentica per l’essere parlante.


L’effetto delle bugie dei grandi
“La lotta per il diritto ad avere dei segreti non condivisi dai genitori è uno dei più importanti fattori della formazione dell’Io, della delimitazione e realizzazione di una volontà propria” (2), scrive Viktor Tausk, 1879, psicoanalista morto nel 1919 giovane e poco noto e anche forse un po’ scomodo per quello che scopriva con le sue ricerche ma non meno importante nel movimento del pensiero psicoanalitico, scrive un testo straordinario sulla schizofrenia descrivendo il funzionamento della così detta “macchina influenzante”. In una nota a pag. 163, del testo citato, arriva a puntualizzare come avviene il passaggio dall’epoca in cui il bambino non dubita ancora del fatto che i genitori e gli educatori siano onniscienti all’epoca invece in cui scopre l’importanza del diritto alla bugia. La prima bugia riuscita segna uno spartiacque importante e il periodo delle bugie inizia molto presto, fin dal primo anno di vita. “Le ho osservate soprattutto in bambini che resistono alla rigida regolamentazione dell’attività escretoria... preferendo fare i loro bisogni nel letto piuttosto che nel vaso. Quando un bambino ha interesse a mentire per difendere un piacere proibito, l’educatore, che in questo caso si lascia ingannare, per salvare la propria autorità e costringere il bambino a dire la verità, può appellarsi soltanto all’onniscienza divina (siamo tra l’800 e i primo del ‘900). L’introduzione di un Dio onnisciente nel progetto educativo diventa tanto più necessaria in quanto i bambini imparano a dire bugie proprio dagli educatori”. L’alibi della divinità che sa tutto non esiste più da molto tempo ma anche allora i bambini anche molto piccoli riuscivano a “smascherare in Dio il fantasma del potere genitoriale detronizzato, prima di tutto quello paterno.” 
Il fatto che prima il bambino crede che i grandi possano conoscere i suoi pensieri e poi che lui stesso riesca a imbrogliare i grandi avendo imparato da loro appartiene al fatto di essere soggetti di parola e figli di esseri parlanti. È proprio il ricorso alla parola, tuttavia, che può sempre offrire una via di uscita all’impasse esistenziale a condizione che si tratti di parola svelante l’azione e il pensiero del soggetto anche se è impossibile poter conoscere tutta la verità soggettiva. Anche se è impossibile contenere con la parola le pulsioni che agitano il soggetto, anche se è impossibile eliminare, con la parola, il godimento mortifero di certe azioni del soggetto. Pur non avendo, la parola simbolica un potere così grande da contenere tutte le pulsioni e pacificare definitivamente il soggetto è pur vero che l’arte come forma simbolica educabile ha un valore ed una potenzialità clinico-culturale significativa. È importante allora, come educatori, come clinici, come genitori, essere alla ricerca delle condizioni che permettono l’incontro con l’oggetto dei propri interessi, quanto meno per contribuire a far nascere quel battito desiderante che può dare uno scopo ed un orientamento alla pulsione. Un orientamento che può trasformare l’energia della pulsione da distruttiva a costruttiva di un legame sociale possibile.


L’insegnamento dei fratelli Caino e Abele e Amleto con suo padre
Platone definisce l’uomo Mortale e parlante. L’essere di linguaggio si definisce per la sua finitezza, per il suo limite mortale. I miti di Caino e Abele e anche quello di Amleto sono rappresentazioni drammatiche di tale realtà. Il desiderio, come forma di vita e di speranza per l’essere parlante, per il soggetto, rischiano come insegnano questi miti, di soffocare e di non produrre gli opportuni effetti di piacere esistenziale a causa della pulsione di morte che attacca il desiderio alla radice. Il desiderio vitale di ciascuno è attraversato costantemente dalla pulsione di morte, a meno che il soggetto non incominci a lavorare con sé stesso, per elaborare la propria condizione di essere mortale imparando a incontrare e accettare, in questo modo, il proprio destino. Accettare e incontrare il proprio destino è il lavoro necessario per pacificarsi nella propria esistenza e gioire della propria vita quotidiana. Senza questo lavoro utile e necessario si è più facilmente esposti all’eredità della vendetta personale, familiare e sociale. Una vendetta che assieme alla noia esistenziale troppo spesso sono alla base dei fenomeni di bullismo che invadono scuole e strade di ogni città. Ogni forma di aggressione può essere considerata come un modo per difendersi illusoriamente della mancanza strutturale che ci appartiene fin dalla nascita. L’illusione di onnipotenza, l’illusione di potere avere tutto quello che si vuole, sono le seduzioni più semplici e più disastrose per ciascuno di noi. Queste illusioni sono le vere bugie che il soggetto si racconta anche per giustificare il proprio comportamento quando non riesce a gestirsi la propria condizione di malessere di base.
Sono proprio questi miti che abbiamo rievocato a insegnarci la necessità di diventare coscienti della nostra limitatezza personale e sociale, della nostra condizione di esseri finiti e mancanti. Forse è proprio questa la prospettiva attraverso la quale la coscienza dell’inauteticità di cui siamo affetti, può diventare la nostra opportunità di autenticità.


Il paradosso e la sfida più utile e opportuna sono dati dalla condizione necessaria per diventare soggetto autentico in quanto desiderante. È a partire da ciò che non ho, accettandolo, che occorre imparare a muoversi nel mondo. La tentazione, invece, è quella di darsi da fare per rivendicare quello che vogliamo, con odio e con la rivoluzione.
Meglio, allora, trovare il modo di conquistare la propria posizione nel mondo con invenzione e creatività, sempre incompleta e insoddisfacente ma pragmatica e concreta. Non l’assimilazione a un modello come quello offerto dall’odio e dalla vendetta ma la creatività soggettiva dell’uno per uno e, in questo, l’espressività e l’arte sono strumenti, non obiettivi, ma tali da poter finalmente offrire il modo per incontrare la propria autenticità, la propria follia d’amore per la vita accettata e riconosciuta. Testimoni e attori del proprio destino incontrato e incontrabile ogni giorno.

Note
1).Si possono trovare queste questioni nella sua conferenza
Come si diventa ciò che si è?  Su YouTube
2). Tausk Victor, Scritti psicoanalitici, Astrolabio, 1979, pag. 163