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sabato 1 luglio 2017

AUTUNNO DELLA SCUOLA
di Fulvio Papi



Da molti anni la nostra scuola è oggetto di interventi  governativi marginali che hanno inciso molto poco sul senso educativo dei ragazzi sempre più condizionati dalle forme educative che sono implicite nella vita sociale. Quest’anno è stato varato il piano scuola-lavoro con una certa enfasi che credo andrebbe moderata fin quando non si hanno dati certi sull’iniziativa che siano obiettivi  e non risultati di alcuna propaganda positiva o anche negativa per incrementare meriti politici ai quali tuttavia credono in pochi. In attesa di conoscere i dati di questa esperienza è abbastanza ovvio osservare che la scuola come istituzione soprattutto nei gradi superiori è fortemente deteriorata, non svolge affatto una formazione dei giovani che ricavano desideri e identità dalle forme di offerta sociale, consumo che sollecita desideri spesso inconsapevoli e, alla lunga pericolosi per l’equilibrio etico dei più giovani. Qualcuno che estremizza la situazione sostiene che sarebbe necessario ripristinare il servizio militare obbligatorio, altri meno aggressivi propongono un servizio civile (più ragionevole). Ma volontario o obbligatorio? La differenza non è trascurabile, soprattutto per la differenza che potrebbe fare tra i ragazzi ricchi e/o in ogni caso privilegiati, e ragazzi decisi a prendere quello che c’è viste le difficoltà, di trovare un lavoro continuativo a livello civile. La scuola un tempo era un centro educativo sociale molto rilevante, anche se bisogna aver ben chiaro in mente quali fossero gli obiettivi di questa educazione. Nell’epoca post risorgimentale fiorivano i valori pubblici e privati che concorsero a formare l’unità nazionale, una mitologia ideologica molto manipolata con lo scopo di formare cittadini patriottici e obbedienti al loro stato sociale. La scuola fu, a poco a poco, “fascistizzata” durante i venti anni di dittatura e lo scopo era quello di formare coscienze devote al regime e alle sue forme di governo.  È inutile qui rievocare per filo e per segno l’organizzazione fascista della scuola e dei ragazzi. Di fronte a questi modelli storici che avevano una loro forza istituzionale nei confronti dell’insieme sociale (sbagliata di sicuro, ma i suoi effetti c’erano), oggi abbiamo una scuola che sempre più appare come uno stanco “apartheid” che ha ben poca influenza sull’identità dei ragazzi e sulla società nel suo insieme. Una volta si diceva un parcheggio dei giovani non inseriti nel processo lavorativo, oggi si potrebbe dire un obbligo sopportato soprattutto per i vantaggi collaterali che offre alla vita giovanile. Materie (che conosco) come l’italiano, il latino, il greco, la filosofia, la storia hanno caratteristiche così fragili da poter sembrare persino delle parodie. Le esagerazioni sono sempre dannose, ma qui sfioriamo il tempo perduto.  In una situazione di crisi che non è rimediabile con “tappabuchi” d’occasione bisogna pensare a un rinnovamento della scuola che ridia una sua efficienza interna e una autorevolezza sociale. Credo che il primo problema sia l’obiettivo educativo che si può immaginare nel mondo contemporaneo, una prospettiva che è necessario assumere dopo quella globalizzazione che ha fatto del pianeta un unico mercato, con tutte le derivazioni del costume, dei desideri, delle opportunità e anche delle immaginazioni che ne derivano. Non credo, dal Brasile alla Cina che, con le differenze storiche e culturali che vi sono, il modo di vivere e di scegliere la vita sia uguale a 50 anni fa. E questo è un tema che ci riguarda poiché queste trasformazioni, in un modo o nell’altro, finiscono col riflettersi sulla nostra vita, magari passando proprio dalle suggestioni del mercato. La conseguenza scolastica che accade di pensare è una trasformazione radicale dell’insegnamento. Detto in due parole: la sostituzione delle materie che o sono scarne ripetizioni di saperi organizzati teoricamente e incomprensibili a scuola, o aggiornamenti tecnologici che i bambini di 10 anni hanno già realizzato per conto loro, con i “problemi” che interessano la contemporaneità. Certamente occorre essere disponibili a queste trasformazioni che non sono affatto solo tecnologiche, ma investono la nostra relazione vitale con il mondo. Faccio alcuni esempi. La filosofia non deve più essere una riflessione su se stessa, ma una apertura sulla propria identità storico-sociale, sulle altre civiltà, sul rapporto civiltà natura: è in questa direzione che si recupera la dimensione umanistica non retorica. La storia dovrebbe centrare la propria conoscenza su due assi fondamentali: la trasformazione della manifattura capitalistica alle attuali forme di produzione delle grandi compagnie internazionali con nuove tecniche lavorative, rapporti con i territori. E poi la psicologia dovrebbe indagare quali figure individuali e sociali nascono in questa nuova situazione. L’antropologia e l’etnologia dovrebbe far conoscere l’attuale ibridazione di tutte le culture. La matematica : la sua importanza decisiva su tutto l’arco delle scienze contemporanee dalla fisica alla biologia all’economia (in questo caso con effetti non sempre positivi). L’importante è non ripetere una banale miniaturizzazione dei saperi adulti (che non serve a niente) e incrementare la conoscenza del dove, del come e del perché siamo quelli che siamo. I problemi sono un riconoscimento della nostra realtà fuori da ogni linguaggio propagandistico che non è innocente, ma ci guida verso forme di dannosa e pericolosa cecità. La scuola acquisterebbe in questo modo una sua autorevolezza, e i ragazzi forse imparerebbero a distinguere il loro sapere concreto rispetto alle assordanti chiacchiere mediatiche. E, indirettamente, servirebbe una siffatta situazione a rieducare indirettamente un sapere politico che attraversa un periodo di grande oscurità. Il pensiero è così troppo avanti? Per quello che è possibile manteniamolo come problema nella nostra difficile identità.