AUTUNNO DELLA SCUOLA
di Fulvio Papi
Da molti anni la nostra scuola è
oggetto di interventi governativi
marginali che hanno inciso molto poco sul senso educativo dei ragazzi sempre
più condizionati dalle forme educative che sono implicite nella vita sociale.
Quest’anno è stato varato il piano scuola-lavoro con una certa enfasi che credo
andrebbe moderata fin quando non si hanno dati certi sull’iniziativa che siano
obiettivi e non risultati di alcuna
propaganda positiva o anche negativa per incrementare meriti politici ai quali
tuttavia credono in pochi. In attesa di conoscere i dati di questa esperienza è
abbastanza ovvio osservare che la scuola come istituzione soprattutto nei gradi
superiori è fortemente deteriorata, non svolge affatto una formazione dei
giovani che ricavano desideri e identità dalle forme di offerta sociale,
consumo che sollecita desideri spesso inconsapevoli e, alla lunga pericolosi
per l’equilibrio etico dei più giovani. Qualcuno che estremizza la situazione sostiene
che sarebbe necessario ripristinare il servizio militare obbligatorio, altri
meno aggressivi propongono un servizio civile (più ragionevole). Ma volontario
o obbligatorio? La differenza non è trascurabile, soprattutto per la differenza
che potrebbe fare tra i ragazzi ricchi e/o in ogni caso privilegiati, e ragazzi
decisi a prendere quello che c’è viste le difficoltà, di trovare un lavoro
continuativo a livello civile. La scuola un tempo era un centro educativo
sociale molto rilevante, anche se bisogna aver ben chiaro in mente quali
fossero gli obiettivi di questa educazione. Nell’epoca post risorgimentale
fiorivano i valori pubblici e privati che concorsero a formare l’unità
nazionale, una mitologia ideologica molto manipolata con lo scopo di formare
cittadini patriottici e obbedienti al loro stato sociale. La scuola fu, a poco
a poco, “fascistizzata” durante i venti anni di dittatura e lo scopo era quello
di formare coscienze devote al regime e alle sue forme di governo. È inutile qui rievocare per filo e per
segno l’organizzazione fascista della scuola e dei ragazzi. Di fronte a questi
modelli storici che avevano una loro forza istituzionale nei confronti
dell’insieme sociale (sbagliata di sicuro, ma i suoi effetti c’erano), oggi
abbiamo una scuola che sempre più appare come uno stanco “apartheid” che ha ben
poca influenza sull’identità dei ragazzi e sulla società nel suo insieme. Una
volta si diceva un parcheggio dei giovani non inseriti nel processo lavorativo,
oggi si potrebbe dire un obbligo sopportato soprattutto per i vantaggi
collaterali che offre alla vita giovanile. Materie (che conosco) come
l’italiano, il latino, il greco, la filosofia, la storia hanno caratteristiche
così fragili da poter sembrare persino delle parodie. Le esagerazioni sono
sempre dannose, ma qui sfioriamo il tempo perduto. In una situazione di crisi che non è
rimediabile con “tappabuchi” d’occasione bisogna pensare a un rinnovamento
della scuola che ridia una sua efficienza interna e una autorevolezza sociale.
Credo che il primo problema sia l’obiettivo educativo che si può immaginare nel
mondo contemporaneo, una prospettiva che è necessario assumere dopo quella
globalizzazione che ha fatto del pianeta un unico mercato, con tutte le
derivazioni del costume, dei desideri, delle opportunità e anche delle
immaginazioni che ne derivano. Non credo, dal Brasile alla Cina che, con le
differenze storiche e culturali che vi sono, il modo di vivere e di scegliere
la vita sia uguale a 50 anni fa. E questo è un tema che ci riguarda poiché
queste trasformazioni, in un modo o nell’altro, finiscono col riflettersi sulla
nostra vita, magari passando proprio dalle suggestioni del mercato. La
conseguenza scolastica che accade di pensare è una trasformazione radicale
dell’insegnamento. Detto in due parole: la sostituzione delle materie che o
sono scarne ripetizioni di saperi organizzati teoricamente e incomprensibili a
scuola, o aggiornamenti tecnologici che i bambini di 10 anni hanno già
realizzato per conto loro, con i “problemi” che interessano la contemporaneità.
Certamente occorre essere disponibili a queste trasformazioni che non sono
affatto solo tecnologiche, ma investono la nostra relazione vitale con il
mondo. Faccio alcuni esempi. La filosofia non deve più essere una riflessione
su se stessa, ma una apertura sulla propria identità storico-sociale, sulle
altre civiltà, sul rapporto civiltà natura: è in questa direzione che si
recupera la dimensione umanistica non retorica. La storia dovrebbe centrare la
propria conoscenza su due assi fondamentali: la trasformazione della
manifattura capitalistica alle attuali forme di produzione delle grandi compagnie
internazionali con nuove tecniche lavorative, rapporti con i territori. E poi
la psicologia dovrebbe indagare quali figure individuali e sociali nascono in
questa nuova situazione. L’antropologia e l’etnologia dovrebbe far conoscere l’attuale
ibridazione di tutte le culture. La matematica : la sua importanza decisiva su
tutto l’arco delle scienze contemporanee dalla fisica alla biologia all’economia
(in questo caso con effetti non sempre positivi). L’importante è non ripetere
una banale miniaturizzazione dei saperi adulti (che non serve a niente) e
incrementare la conoscenza del dove, del come e del perché siamo quelli che
siamo. I problemi sono un riconoscimento della nostra realtà fuori da ogni
linguaggio propagandistico che non è innocente, ma ci guida verso forme di
dannosa e pericolosa cecità. La scuola acquisterebbe in questo modo una sua
autorevolezza, e i ragazzi forse imparerebbero a distinguere il loro sapere
concreto rispetto alle assordanti chiacchiere mediatiche. E, indirettamente,
servirebbe una siffatta situazione a rieducare indirettamente un sapere
politico che attraversa un periodo di grande oscurità. Il pensiero è così
troppo avanti? Per quello che è possibile manteniamolo come problema nella
nostra difficile identità.