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sabato 26 agosto 2017

ADDIO A UN AMICO FRATERNO
di Angelo Gaccione

Giovanni Bianchi a sinistra fra Gaccione, Ferretti e Migliorati
alla Sala del Grechetto della Biblioteca Sormani di Mialno
 per Cassola il 12 aprile 

Non mi era stato possibile vergare questo ricordo, la notizia della sua morte mi era giunta alla stazione di San Vincenzo di Livorno lunedì 24 luglio verso mezzogiorno e mezza, dove ero stato accompagnato per prendere un treno per Roma. La sera prima avevo tenuto una conversazione su Cassola ed il suo carteggio antimilitarista, in piazza della Gogna a Castagneto Carducci. Nella marina di Donoratico Cassola aveva avuto una casa e il Comune di Castagneto aveva voluto ricordarne il centenario. Ad avvisarmi della morte di Giovanni Bianchi era stata una telefonata di Renato Seregni. Sempre da Renato avevo saputo verso metà luglio che la situazione di salute di Giovanni era peggiorata. E tuttavia il pomeriggio di sabato 22, il giorno prima di partire per Castagneto, con mia moglie eravamo andati a vedere la sistemazione definitiva del giardino di Largo Corsia dei Servi che, su iniziativa del “Comitato di Odissea per Turoldo” di cui Giovanni era uno degli esponenti di spicco perché di Turoldo era stato amico fino alla morte, il Comune di Milano deve dedicare al celebre frate poeta e partigiano. Volevo dargliene notizia attraverso la moglie Silvia finché fosse ancora lucido ed il male non lo avesse del tutto devastato. Gli avevo lasciato anche i saluti e mandato un abbraccio e in cuor mio nutrivo la speranza di una remissione miracolosa che ce lo restituisse perché potesse prendere parte, come per tutto il 2016 avevamo caldeggiato, ai festeggiamenti pubblici e alle letture poetiche quando ufficialmente il Comune avrebbe fissato la data dell’intitolazione per Turoldo. Da Roma ero andato direttamente in Calabria senza rientrare a Milano e dunque non avevo potuto fare alcunché. Ero stato raggiunto da una telefonata dell’amico Alessandro Zaccuri, l’ottimo critico letterario del quotidiano Avvenire e scrittore di particolare sensibilità, che l’indomani gli dedicò un ricco ricordo e riprodusse il lungo stralcio di uno dei magnifici pezzi che Bianchi aveva pubblicato nella sua rubrica “Segnali di Fumo” di Odissea.

Giovanni Bianchi al centro, a sin. Renato Seregni, a des. Gaccione
nella sede milanese delle Acli di via della Signora per Turoldo

Giovanni è morto nella sua casa di via Petazzi 8 a Sesto San Giovanni, città (e strada) di cui ha parlato di continuo nei suoi scritti e che a volte assumeva come un vero e proprio osservatorio privilegiato. La chiesa di Santo Stefano dove si sono svolti i funerali, è su quella stessa piazza. A Giovanni bastava affacciarsi dal balcone per trovarsela davanti: per un credente praticante come lui doveva essere di grande consolazione. Tutto è precipitato in un tempo contratto e a nessuno di noi erano apparsi i segni; la sua energia era straordinaria e Giovanni era infaticabile: scriveva con una velocità ed una voracità incredibili e continuava ad andare da un capo all’altro dell’Italia per incontri di ogni tipo. Negli ultimi tempi il suo impegno per la memoria della Resistenza era divenuto intensissimo, della Resistenza di quei Partigiani Cristiani di cui era stato eletto presidente. Il 23 maggio aveva preso parte ad un incontro sul contributo dei partigiani cristiani nella Resistenza in Lombardia nel salone della chiesa di San Michele Arcangelo nel quartiere Precotto di viale Monza, voluto da Ferdy Scala e dove era stata anche allestita una magnifica mostra sull’argomento a cura del Comitato Ambrosianeum. Era stato brillante e ricco di notizie come sempre. In quello stesso salone il 21 aprile assieme avevamo ricordato Turoldo, come assieme il 12 aprile avevamo ricordato Cassola ed il suo carteggio disarmista alla Biblioteca Sormani.

Giovanni Bianchi il primo a destra fra Piscitello, Gaccione
e Lanza, alla Casa della Cultura di Milano per Schwarz

Nato a Sesto San Giovanni il 19 agosto del 1939 Giovanni è stato presidente nazionale delle Acli, deputato dal 1994 al 2006, presidente del Circolo Dossetti di Milano, saggista, poeta, scrittore, conferenziere. Era un uomo che ha sposato tutte le cause dei perdenti e che aveva conservato la sua anima popolare che gli derivava dalla famiglia operaia da cui proveniva. Credente, ha sempre guardato a quella chiesa povera e autentica che sta in mezzo al disagio ed ha avuto un occhio attento ad ogni apertura e ad ogni diversità, anche a quella più radicale, purché dotata di umanità e di buona volontà, i principi su cui si fonda ogni possibile decente cambiamento. E soprattutto per questo che si trovava bene in Odissea, e non solo perché poteva dire e scrivere tutto quello che avrebbe voluto. Giovanni è stato un politico onesto, fra i più puliti che io abbia conosciuto. Amico fraterno è stata una figura importante del dibattito pubblico italiano e prezioso collaboratore di Odissea. Quanti bei ricordi al tempo della nostra campagna contro la costruzione del Ponte di Messina, e che giornate divertenti in quella surreale spedizione a Roma con l’arca delle firme portata in pellegrinaggio a Montecitorio dove nella Sala Stampa delle missioni estere tenemmo un incontro per i giornalisti, proprio il giorno dello sciopero nazionale della stampa e della venuta nella capitale di George Bush! Tantissimi i suoi scritti sulla prima pagina di Odissea e nella sua rubrica “Segnali di Fumo”, ma anche nelle rubriche “Officina”, “Litterae” e “Agorà”, perché gli interessi di Giovanni erano molteplici e spaziava in modo ampio e articolato in vari ambiti espressivi e del pensiero.

Un abbraccio affettuoso di Giovanni Bianchi (di spalle)
con il filosofo Fulvio Papi alla Sormani durante la presentazione
per il decennale di "Odissea"
Al tavolo Gabriele Scaramuzza, Giorgio Colombo e Roberta De Monticelli 

Ho cercato di fissare qualche ricordo in treno, su un blocchetto, dentro uno scompartimento che ballava, ma era la sua voce che prevaleva, il monito a riprendere al più presto l’impegno per la pace e contro la guerra, divenuto prioritario ed epocale. Ne avremmo ridiscusso dopo la pausa estiva perché i fatti internazionali ne sottolineavano l’urgenza.

Altro momento alla Sormani, Giovanni è il primo a sinistra

Ne è passato di tempo da quel lontano premio Stresa in cui lo premiammo per il suo romanzo La stupidità dei Navigli che a me sembrò subito gaddiano per lingua e per umori. Avevamo cenato assieme al Regina Palace con le mogli, e poi mi aveva portato a casa con la sua auto. Ricordo che mi aveva fatto vedere i sorci verdi, guidava, così avrebbe detto un altro caro amico scomparso, Ugo Ronfani, come Nicky Lauda.
Ho pensato a quanti scritti in questi anni gli ho seguito e curato: non solo per Odissea di cui è stato una presenza costante, ma per il volumone Poeti per Milano nel 2002 dove ho inserito i suoi versi; nella fortunata antologia di racconti Ti parlerò di me nel 2008 per il suo racconto “Beniamino”; e poi il poemetto Due Americhe nel 2011 e il saggio Attraversare il disordine nel 2012, entrambi pubblicati nelle edizioni di Odissea. In quello stesso anno sentì il bisogno di raccogliere nel volume Cercare maestri i suoi saggi su Bonhoeffer, Turoldo, Martini, Gorrieri, Martinazzoli, che pubblicai nelle Edizioni Nuove Scritture e a cui seguirono, sempre per queste edizioni, i lavori di narrativa Non è Macondo e Lo smog non tramonta (2013). Nel 2014 tornò alla poesia con il poemetto L’inutilità delle mappe  e nel 2016 con l’emozionante La steppa urbana che si apre con "La ballata di Sara", interrogazione mesta e su quella terribile prematura morte, su quel destino ineffabile per la perdita di una così giovane figlia. Io non so se la causa del male di Giovanni sia stata quella tremenda perdita, se è stato quel dolore a roderlo in maniera vigliacca e silente, e mi auguro davvero che vi sia da qualche parte un luogo dove egli l’abbia potuta rincontrare e ricongiungersi. Il 2016 era stato anche l’anno del romanzo memoriale Le compagne, ma Giovanni pubblicava a volte quasi in contemporanea libri con altri editori, tanto era il bisogno della scrittura, tanto era l’urgenza del dire.

Bianchi è il secondo a sinistra fra Ravizza e Gaccione
a seguire Arzuffi e Seregni alla Biblioteca Vigentina
in occasione della presentazione del romanzo di Oliviero Arzuffi
Il suo numero di telefono è rimasto registrato nel cellulare, penso con dolore che non potrò più sentire la sua voce, né chiamarlo. Restano le ultime foto che ci ritraggono assieme in varie occasioni, quelle alla sede delle Acli di via della Signora quando ci vedemmo tutti assieme, noi del Comitato per Turoldo, quelle più recenti alla Biblioteca Sormani, nella Sala del Grechetto assieme all’amico critico Gian Carlo Ferretti per ricordare Cassola, e quelle di Precotto.   
     
Bianchi col microfono mentre fa il suo intervento
per il decennale di "Odissea"

***


La copertina del libretto dedicato a Turoldo
per il centenario della nascita

                                                                  ***
La copertina di Poeti per Milano



La copertina di Ti parlerò di me


Le Copertine di alcuni libri di Giovanni curati da Gaccione



Le due Americhe (2011)
Attraversare il disordine (2012)
Cercare maestri (2012)
Non è Macondo (2013)
lo smog non tramonta (2013)
L'inutilità delle mappe (2014)

La steppa urbana (2016)

Le compagne (2016)

Un saluto per l’amico Giovanni Bianchi
Oggi il vento strappa le nuvole e sbatte il sole caldo e pungente su questa terra maltrattata. Questa mattina è giunta la notizia che tu te ne sei andato là dove ti aspetta la tua cara figlia. Le lotte, i pensieri, le parole, le poesie e il tuo desiderio assetato di ricerca si sono  esauriti improvvisamente dietro i tuoi occhi chiusi.
Vorrei essere lì ancora una volta intento ad ascoltarti, a seguire le tue argomentazioni  precise, documentate e tese alla svolta dell’ottimismo e invece ho le mani giunte implorando un amen che fatica a chiudere questa pagina. Ciao.
Vito Calabrese [25 luglio 2017]
LE STRAGI  NAZI-FASCISTE NELL’ESTATE 1944:
QUESTO È PROPRIO IL MOMENTO GIUSTO 
PER NON DIMENTICARE
a cura di Franco Astengo


È in corso una vera e propria offensiva di recupero del fascismo: dalla spiaggia di Chioggia, ai campi estivi neo-nazisti, ai manifesti inneggianti alla bontà di governo di Mussolini.
Più in generale il clima è di allentamento al riguardo dei principi fondamentali dell’antifascismo, sulle sue ragioni profonde, sulla realtà storica dei fatti. Ha contribuito a questa sorta di rilassatezza culturale l’attacco alla Costituzione tentato nel corso die mesi scorsi e (provvisoriamente?) respinto con il voto del 4 Dicembre 2016.
Per questi motivi è bene tener viva la memoria, perché senza di essa si smarrisce l’identità repubblicana dell’Italia: il profondo significato etico e politico di questa identità conquistata con la lotta. Queste le ragioni del tentativo di rinnovo del ricordo contenuto in questo intervento, partendo dalle due stragi-simbolo compiute dai nazifascisti nell’estate del 1944 a Sant’Anna di Stazzema e a Marzabotto.
Intervento che si conclude con l’elenco delle 139 stragi compiute su tutto il territorio nazionale per un totale (secondo l’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia) di circa 23.000 vittime

SANT’ANNA DI STAZZEMA


All'inizio dell'agosto 1944 Sant'Anna di Stazzema era stata qualificata dal comando tedesco come "zona bianca", ossia una località adatta ad accogliere sfollati: per questo la popolazione, in quell'estate, aveva superato le mille unità. Inoltre, sempre in quei giorni, i partigiani avevano abbandonato la zona senza aver svolto operazioni militari di particolare entità contro i tedeschi. Nonostante ciò, all'alba del 12 agosto 1944, tre reparti di SS salirono a Sant'Anna, mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle sopra il paese di Valdicastello. Alle sette il paese era circondato. Quando le SS giunsero a Sant'Anna, accompagnati da fascisti collaborazionisti che fecero da guide[10], gli uomini del paese si rifugiarono nei boschi per non essere deportati, mentre donne, vecchi e bambini, sicuri che nulla sarebbe capitato loro in quanto civili inermi, restarono nelle loro case. In poco più di mezza giornata vennero uccisi centinaia di civili di cui solo 350 poterono essere in seguito identificate; tra le vittime 65 erano bambini minori di 10 anni di età. Dai documenti tedeschi peraltro non è facile ricostruire con precisione gli eventi: in data 12 agosto 1944, il comando della 14ª Armata tedesca comunicò l'effettuazione con pieno successo di una "operazione contro le bande" da parte di reparti della 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS nella "zona 183", dove si trova il territorio del comune di S. Anna di Stazzema; l'ufficio informazioni del comando tedesco affermò che nell'operazione 270 "banditi" erano stati uccisi, 68 presi prigionieri e 208 "uomini sospetti" assegnati al lavoro coatto. Una successiva comunicazione dello stesso ufficio in data 13 agosto precisò che "altri 353 civili sospettati di connivenza con le bande" erano stati catturati, di cui 209 trasferiti nel campo di raccolta di Lucca I nazistifascisti rastrellarono i civili, li chiusero nelle stalle o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra, bombe a mano, colpi di rivoltella e altre modalità di stampo terroristico. 


La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni(23 luglio-12 agosto 1944). Gravemente ferita, la rinvenne agonizzante la sorella maggiore Cesira (Medaglia d’Oro al Merito Civile) miracolosamente superstite, tra le braccia della madre ormai morta. Morì pochi giorni dopo nell'ospedale di Valdicastello. Infine, incendi appiccati a più riprese causarono ulteriori danni a cose e persone. Non si trattò di rappresaglia (ovvero di un crimine compiuto in risposta a una determinata azione del nemico): come è emerso dalle indagini della procura militare di La Spezia, infatti, si trattò di un atto terroristico premeditato e curato in ogni dettaglio per annientare la volontà della popolazione, soggiogandola grazie al terrore. L'obiettivo era quello di distruggere il paese e sterminare la popolazione per rompere ogni collegamento fra i civili e le formazioni partigiane presenti nella zona. La ricostruzione degli avvenimenti, l'attribuzione delle responsabilità e le motivazioni che hanno originato l'Eccidio sono state possibili grazie al processo svoltosi al Tribunale militare della Spezia, conclusosi nel 2005 con la condanna all'ergastolo per dieci SS colpevoli del massacro; sentenza confermata in Appello nel 2006 e ratificata in Cassazione nel 2007. Nella prima fase processuale si è svolto, grazie al pubblico ministero Marco de Paolis, un imponente lavoro investigativo, cui sono seguite le testimonianze in aula di superstiti, di periti storici e persino di due SS appartenute al battaglione che massacrò centinaia di persone a Sant'Anna. 


Fondamentale, nel 1994, anche la scoperta avvenuta a Roma, negli scantinati di Palazzo Cesi-Gaddi, di un armadio chiuso e girato con le ante verso il muro, ribattezzato poi armadio della Vergogna, poiché nascondeva da oltre 40 anni documenti che sarebbero risultati fondamentali ai fini di una ricerca della verità storica e giudiziaria sulle stragi nazifasciste in Italia nel secondo dopoguerra. Prima dell'eccidio di Sant'Anna di Stazzema, nel giugno dello stesso anno, SS tedesche, affiancate da reparti della X MAS, massacrarono 72 persone a Forno. Il 19 agosto, varcate le Apuane, le SS si spinsero nel comune di Fivizzano (Massa Carrara), seminando la morte fra le popolazioni inermi dei villaggi di Valla, Bardine e Vinca,nel comune di Fivizzano . Nel giro di cinque giorni uccisero oltre 340 persone, mitragliate, impiccate, financo bruciate con i lanciafiamme. Nella prima metà di settembre, con il massacro di 33 civili a Pioppetti di Montemagno, in comune di Camaiore (Lucca), i reparti delle SS portarono avanti la loro opera nella provincia di Massa Carrara. Sul fiume Frigido furono fucilati 108 detenuti del campo di concentramento di Mezzano (Lucca), mentre a Bergiola i nazisti fecero 72 vittime.

MARZABOTTO


Dopo l'eccidio di Sant'Anna di Stazzema avvenuta il 12 agosto 1944, gli eccidi nazisti contro i civili sembravano essersi momentaneamente fermati. Ma il feldmaresciallo Albert Kesselring aveva scoperto che a Marzabotto agiva con successo la brigata Stella Rossa e voleva dare un duro colpo a questa organizzazione e ai civili che l'appoggiavano. Già in precedenza Marzabotto aveva subito delle rappresaglie, ma mai così gravi come quella dell'autunno 1944.
Capo dell'operazione fu nominato il maggiore Walter Reder, comandante del 16º battaglione esplorante corazzato (Panzeraufklärungsabteilung) della 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS, sospettato a suo tempo di essere uno tra gli assassini del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss. La mattina del 29 settembre, prima di muovere all'attacco dei partigiani, quattro reparti delle truppe naziste, comprendenti sia SS che soldati della Wehrmacht, accerchiarono e rastrellarono una vasta area di territorio compresa tra le valli del Setta e del Reno, utilizzando anche armamenti pesanti. «Quindi – ricorda lo scrittore bolognese Federico Zardi – dalle frazioni di Pànico, di Vado, di Quercia, di Grizzana, di Pioppe di Salvaro e della periferia del capoluogo le truppe si mossero all'assalto delle abitazioni, delle cascine, delle scuole», e fecero terra bruciata di tutto e di tutti.


Nella frazione di Casaglia di Monte Sole la popolazione atterrita si rifugiò nella chiesa di Santa Maria Assunta, raccogliendosi in preghiera. Irruppero i tedeschi, uccidendo con una raffica di mitragliatrice il sacerdote, don Ubaldo Marchioni, e tre anziani. Le altre persone, raccolte nel cimitero, furono mitragliate: 197 vittime, di 29 famiglie diverse tra le quali 52 bambini. Fu l'inizio della strage: ogni località, ogni frazione, ogni casolare fu setacciato dai soldati nazisti e non fu risparmiato nessuno. La violenza dell'eccidio fu inusitata: alla fine dell'inverno fu ritrovato sotto la neve il corpo decapitato del parroco Giovanni Fornasini.
Fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, dopo sei giorni di violenze, il numero delle vittime civili si presentava spaventoso: circa 770 morti. Le voci che immediatamente cominciarono a circolare relative all'eccidio furono negate dalle autorità fasciste della zona e dalla stampa locale (Il Resto del Carlino), indicandole come diffamatorie; solo dopo la Liberazione lentamente cominciò a delinearsi l'entità del massacro.

Elenco degli eccidi e delle stragi riconosciute (da Wikipedia)


A
Strage di Acerra
Eccidi dell'alto Reno

B
Eccidio di Barletta
Strage della Benedicta
Eccidio di Bergiola Foscalina
Eccidio della Bettola
Strage della valle del Biois
Massacro di Biscari
Bombardamenti di Foggia del 1943
Eccidio di Borga
Strage di Borgo Ticino
Eccidio di Boves
Eccidio di Braccano
Bus de la Lum

C
Eccidio di Cadè
Strage di Caluso
Strage di Campagnola
Strage del palazzo Comunale di Campi Bisenzio
Strage di Canicattì
Eccidio di Capistrello
Strage di Castello
Strage di Castiglione
Strage di Cavriglia
Eccidio del Colle del Lys
Eccidio di Cravasco
Strage di Cumiana

E
Eccidi di San Ruffillo
Eccidio di Santa Giustina in Colle
Eccidio de La Storta
Eccidio dei conti Manzoni
Eccidio dei XV Martiri di Madonna della Pace
Eccidio del Castello dell'Imperatore
Eccidio del Ponte dell'Industria
Eccidio del pozzo Becca
Eccidio dell'Aldriga
Eccidio della caserma Mignone
Eccidio della famiglia Arduino
Eccidio delle Fosse Reatine
Eccidio di Argelato
Eccidio di Bari
Eccidio di Cadibona
Eccidio di Caffè del Doro
Eccidio di Cavazzoli
Eccidio di Cibeno
Eccidio di Civitella
Eccidio di Codevigo
Eccidio di Crespino sul Lamone
Eccidio di Gardena
Eccidio di Guardistallo
Eccidio di Maiano Lavacchio
Eccidio di Malga Bala
Eccidio di Massignano
Eccidio di Monte Manfrei
Eccidio di Monte Sant'Angelo
Eccidio di Pessano
Eccidio di Piavola
Eccidio di Pietralata
Eccidio di Portofino
Eccidio di Pratolungo
Eccidio di San Michele della Fossa
Eccidio di San Piero a Ponti
Eccidio di Schio
Eccidio di Trivellini
Eccidio di Valdagno
Eccidio di Vallarega
Eccidio di Vattaro
Eccidio di via Aldrovandi
Eccidio di Malga Zonta


F
Strage di Falzano
Eccidio dell'aeroporto di Forlì
Strage di Forno
Strage delle Fosse del Frigido
Eccidio di Fragheto

G
Bombardamento di Grosseto
Strage di Grugliasco e Collegno
L
Eccidio di Salussola
Strage di Lasa
Strage di Leonessa

M
Martiri di Fiesole
Martiri ottobrini
Strage di Marzabotto
Strage di Matera
Strage della cartiera di Mignagola
Strage della Missione Strassera
Strage di Monchio, Susano e Costrignano
Eccidio di Montalto
Eccidio di Montemaggio


N
Eccidio di Nola

O
Operazione Ginny
Operazione Piave
Operazione Wallenstein

P
Eccidio di Procchio
Eccidio del Padule di Fucecchio
Strage di Pedescala
Strage di Penetola


In orbita Opsat-3000, primo satellite-spia italiano
di Manlio Dinucci


È stato lanciato dalla Guyana francese, con un razzo Vega dell’Agenzia spaziale europea costruito in Italia dalla Avio, il satellite Opsat-3000 del ministero della Difesa italiano. Il satellite non è però italiano, ma israeliano. È stato acquistato nel 2012 nel quadro di un accordo di cooperazione militare tra Roma e Tel Aviv (il manifesto, 31 luglio 2012), in base al quale Alenia Aermacchi (azienda di Finmeccanica, ora Leonardo) ha fornito a Israele 30 velivoli militari da addestramento avanzato M-346 e le Israel Aerospace Industries hanno fornito all’Italia l’Opsat-3000 e un primo aereo G550 Caew. L’Opsat-3000, collocato in orbita bassa (450 km di altitudine),  serve non a una generica «osservazione della Terra», ma a fornire dettagliate immagini ad altissima risoluzione di «qualsiasi parte della Terra» per operazioni militari in lontani teatri bellici. Le immagini raccolte da Optsat-3000 arrivano a tre centri in Italia: il Centro interforze di telerilevamento satellitare di Pratica di Mare (Roma), il Centro interforze di gestione e controllo Sicral di Vigna di Valle (Roma) e il Centro spaziale del Fucino di Telespazio (L'Aquila).
L’Opsat-3000 è collegato allo stesso tempo a un quarto centro: la Mbt Space Division delle Israel Aerospace Industries a Tel Aviv. Ciò conferma che l’accordo militare italo-israeliano prevede non solo la collaborazione tra le industrie militari, ma una sempre più stretta cooperazione strategica tra i due paesi. Nel quadro dello stesso accordo del 2012, le Israel Aerospace Industries hanno consegnato all’aeronautica italiana, nel dicembre 2016, il primo dei due aerei G-550 Caew: sono Gulfstream 550, jet di lusso per executive made in Usa, che le Israel Aerospace Industries trasformano in sofisticatissimi aerei da guerra. Dotati dei più avanzati sistemi radar, di spionaggio e comunicazione adeguati agli standard Nato,  questi aerei costituiscono la punta di lancia di un sistema di comando e controllo per l’attacco in distanti teatri bellici.
Tutto questo costa. L’Opsat-3000 viene pagato dall’Italia 182 milioni di dollari, cui si aggiungono gli ingenti costi per la messa in orbita e la gestione del satellite, la cui «vita» è prevista in circa 7 anni. I due aerei G-550 Caew, con relativi centri di comando e controllo, costano circa 800 milioni di dollari. Complessivamente oltre un miliardo di dollari pagato con denaro pubblico. Il miliardo di dollari, ricavato dalla vendita a Israele dei 30 velivoli da addestramento M-346, entra nelle casse di Leonardo SpA, nuova denominazione sociale di Finmeccanica, in cui il Tesoro detiene una quota del 30%. Viene in tal modo realizzato il «Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa» a firma della ministra Pinotti, trasformato lo scorso febbraio in disegno di legge che delega al governo «la revisione del modello operativo delle Forze armate». Modello in cui l’industria militare assume il ruolo di «pilastro del Sistema Paese», in cui le Forze armate hanno il compito di difendere «gli interessi vitali del Paese», intervenendo nelle aree prospicienti il Mediterraneo - Nordafrica, Medioriente, Balcani - e, al di fuori di tali aree, in Afghanistan e ovunque nel mondo siano in gioco gli interessi dell’Occidente rappresentati fondamentalmente dalla Nato sotto comando Usa.  L’acquisizione di sistemi militari quali il satellite-spia Opsat-3000 e gli aerei G-550 Caew non lascia dubbi che la via tracciata, demolendo i pilastri costituzionali della Repubblica italiana, è sempre più quella della guerra.

mercoledì 23 agosto 2017


DISARMO E DISARMO UNILATERALE
di Paolo Di Stefano
Prendendo le mosse dal dibattito aperto dal carteggio di Carlo Cassola: “Cassola e il disarmo. La letteratura non basta”, Paolo Di Stefano sviluppa questa serie di riflessioni.


Premessa
Devo ammettere di non essere mai stato un profondo conoscitore del Cassola politico. Di Cassola ho sempre apprezzato le qualità di scrittore e di giornalista, ho seguito -anche se non con particolare assiduità- il suo lavoro al Corriere, prima, e su altre diverse testate poi. Ma il Cassola politico mi è rimasto abbastanza lontano. Io vengo da un tempo in cui -ad esempio- era quanto meno disdicevole avere a che fare con personaggi definiti “pacifisti” (per esempio, Aldo Capitini a Perugia, dal quale un paio di volte sono andato, di nascosto soprattutto di mio padre magistrato, con il mio professore di Diritto Romano Guglielmo Nocera: era la seconda metà degli anni 50 del 1900, e di Cassola con Capitini non mi è mai capitato di parlare. Neppure ricordo un qualsiasi accenno da parte di Aldo Capitini. Eppure erano gli anni del Centro di orientamento religioso -COR- fondato con l’ottantenne inglese Emma Thomas e del convegno su la non violenza riguardo al mondo animale e vegetale (12 settembre 1953). Ricordo che la Chiesa a Perugia vietava la frequentazione del Centro di Orientamento religioso (COR) e nel 1955 mise all’indice dei libri proibiti l’appena pubblicato Religione Aperta. Il 24 settembre 1961 organizzò la marcia per la pace e la fratellanza dei popoli da Perugia ad Assisi. Il 21 ottobre 1968 a due giorni dalla morte di Capitini Pietro Nenni scrive nel suo diario: “Mi dice Pietro Longo che a Perugia era isolato e considerato stravagante. C’è sempre una punta di stravaganza ad andare contro corrente, e Aldo Capitini era andato contro corrente all’epoca del fascismo e nuovamente nell’epoca post-fascista. Forse troppo per una sola vita umana, ma bello.”
Che potrebbe essere una chiave di lettura della proposta di Cassola sul disarmo unilaterale: andare contro corrente per richiamare l’attenzione. L’altra chiave di lettura, potrebbe essere la volontà di fare ricorso alla dialettica degli opposti come mezzo per il raggiungimento, se non della verità, almeno di un accordo. Ecco allora che si oppone un estremo (disarmo unilaterale) al militarismo più radicale, in modo che si possa giungere ad un “corretto utilizzo delle armi”, male gravissimo ma inevitabile, le armi, con un “corretto uso delle armi attraverso una organizzazione militare corretta”.


La questione affonda le sue radici, come del resto accade per tutte le attività umane, nella esistenza dei bisogni e nel loro disporsi secondo una scala di importanza e di intensità, da un lato, e, dall’altro, dall’essere le strutture sociali a loro volta portatrici di bisogni, anch’essi disposti secondo una scala di importanza e di intensità. Wilfredo Pareto, economista, è stato il primo a parlare di “scala di bisogni” ed a trarne conseguenze all’epoca dirompenti. La sistemazione dei bisogni più nota oggi sembra essere quella di Maslow -generalmente detta “piramide di Malslow”, secondo la quale alla base di tutto esistono i bisogni fisiologici o di sopravvivenza e, subito dopo, i bisogni relativi alla sicurezza. Tutte le altre categorie di bisogni seguono nell’ordine: appartenenza, stima, autorealizzazione. Importante ricordare come gli individui non passino alla soddisfazione dei bisogni di grado più elevato se non dopo aver soddisfatto quelli di livello inferiore, e ciò in ragione della importanza delle diverse categorie: vivere e sopravvivere è assolutamente essenziale, e la sicurezza segue precedendo gli altri. Significa in due parole che la cosa essenziale per l’individuo è vivere, subito seguita dalla categoria dei bisogni relativi alla sicurezza. E quando si parla di sicurezza, il primo aggancio è con la vita: sicurezza vuol dire innanzitutto “non vedere messa in pericolo la propria vita” ad opera di chicchessia. Il che immediatamente comporta il concetto di “difesa” e, a cascata, quelli di “difesa preventiva” e di “mezzi in grado di garantire la possibilità di difendersi e di reagire se necessario”.
Per soddisfare questi due bisogni -difesa e difesa preventiva- occorrono strumenti adatti innanzitutto a scoraggiare gli eventuali malintenzionati; poi a reagire ad azioni offensive; infine a prevenire attacchi. Se tutto questo è vero, almeno tre considerazioni:
La prima: quando si parla di “armi” in genere, si attinge alla base della scala dei bisogni degli individui;
La seconda: la sicurezza è assolutamente legata ai rapporti tra gli individui, e dunque non è ipotizzabile se non con estrema fatica una “sicurezza” che prescinda dai rapporti con gli altri.
La terza: la “piramide dei bisogni” si ripete per ogni gradino di quella che chiamiamo “scala sociale”.
E tutto quanto fin qui esposto vale per gli individui singoli e per gli individui collettivi, dunque per le persone fisiche e per i gruppi di persone i quali, proprio perché gruppi, non possono prescindere e di fatto non prescindono dal “bisogno di organizzazione” allo scopo di soddisfare i “bisogni della comunità”.


Allora, ecco tre annotazioni su quanto scrive Cassola a Gaccione (pag.70): “…L’articolo 52 (della Costituzione) nella prima e importante norma prescrive che la difesa della patria è sacro dovere del cittadino. Del cittadino, non dello Stato: per cui è inutile che lo Stato si prepari a un compito impossibile, la difesa del territorio nazionale in caso di invasione (…)”
1.Forse Cassola non ha considerato che se “la difesa della Patria” venisse demandata al singolo cittadino in quanto tale, salterebbe una parte importante della conquista costituita dal rifiuto della ragion fattasi, conquista di civiltà;
2.Forse, Cassola non ha chiari i compiti della organizzazione Statale, che nasce appunto per soddisfare i bisogni dei cittadini almeno per la parte coincidente con quelli dello Stato stesso;
3.Forse Cassola, avvalendosi anche della dialettica degli opposti, intende giungere ad un risultato: il riconoscimento della funzione del cittadino nella attività dello Stato, attività che non può attuarsi se il cittadino non collabora nella piena consapevolezza del suo “essere” lo Stato.
E una annotazione ulteriore su quel “disarmo unilaterale” più volte in queste lettere ribadito pervicacemente.
Pag.91, lettera del 21 ottobre 1978: “Salto le questioni teoriche su cui siamo d’accordo (del resto sono molto semplici: basta tenere ferma la proposta del disarmo unilaterale) …”
Pag.166, lettera del 7 settembre 1979: “…che al di fuori dell’antimilitarismo non c’è salvezza, e che il solo modo serio di fare l’antimilitarismo è quello di puntare al disarmo unilaterale. (…)”
Per ciò che concerne l’antimilitarismo, è forse opportuno ricordare che esso esprime il pensiero di coloro che si oppongono alla “prevalenza” delle forze armate sulla Politica, che è un modo per riaffermare il principio che la Politica “viene prima” della organizzazione e dei mezzi che è opportuno utilizzare affinché gli obbiettivi della Politica possano essere raggiunti.
Ingenuo

Nel diritto romano gli ingenui erano i figli dei cives -titolari della cittadinanza di Roma- e dunque nella pienezza dei diritti e quindi liberi: nati liberi e sempre rimasti liberi. Solo molto tempo più avanti, all’attributo “ingenuo” si è dato il significato che ha oggi di costantemente fiducioso o estremamente sprovveduto per un fondo di candore, semplicità o inesperienza.
NAZIONALISMO
di Franco Astengo

Stiamo assistendo al rapido passaggio dall’ineluttabilità di un superamento dello “Stato Nazione” e della velocità apparentemente impressa ai processi di cessione di sovranità a organismi sovranazionali (dall’UE ai vari trattati di commercio e libero scambio) al ritorno imperioso dei Nazionalismi. Un vero e proprio “salto nella Storia” guidato addirittura dalla superpotenza che, a partire dall’ultimo decennio del XX secolo, si era addirittura arrogata il compito di “esportatrice della democrazia” e di “solo gendarme del mondo”.
Adesso invece gli USA riscoprono tutta la strumentazione nazionalista sia sul piano economico, sia,  in previsione ma già annunciata, militare. Il fenomeno è in evidente ascesa e nell’Occidente, complice anche il fallimento dei processi geo politici tentati in varie direzioni, assume le forme di movimenti politici che se anche non riusciranno a realizzare obiettivi di governo hanno già portato a mutamenti culturali di grande rilievo e, per quel che riguarda l’Europa, al riaprirsi (se mai potesse essere considerata chiusa) della “faglia” Est/Ovest: un punto di rottura ben determinato tenuto anche conto del fatto che a Oriente, in molti paesi importanti, le forze nazionaliste hanno assunto un ruolo di governo e come sia in atto un confronto bellico in un paese di grandi dimensioni e collocato al centro di quel settore strategico come l’Ucraina.
È bene quindi ripassare il concetto classico di “Nazionalismo” perché attraverso questa rilettura è possibile riprendere piena consapevolezza dei pericoli in atto (fondamentale sotto quest’aspetto il testo Nazioni e Nazionalismo di Ernest Gellner oltre ai lavori di Stuart Woolf ed E.J. Hobsbawm). Un’assoluta identificazione con la nazione e con l’interesse nazionale ha rappresentato, almeno a partire dalla seconda rivoluzione industriale, il tratto più tipico del nazionalismo. L’ideologia propriamente nazionalista è stata adoperata, a suo tempo, per contrastare il processo di emancipazione e d’integrazione delle masse (con precipua propensione di utilizzo del nazionalismo in funzione antisocialista). Alle masse sarà così proposta da parte dei nazionalisti la piena identificazione con il destino dello Stato.
Da questo principio sono derivati due fenomeni:
1). Quello dell’autoritarismo in difesa dell’interesse nazionale
2). Quello della guerra conseguente al primo come identificazione dell’interesse nazionale con l’intervento armato.
Il nazionalismo è stato accompagnato, in passato, dall’emanazione di leggi antisociali e illiberali addirittura di origine biologista (leggi razziali, leggi di discriminazione di genere) e presupponenti, in fondo, a una vocazione di tipo colonialista (vi sono esempi da questo punto di vista riguardanti il ruolo di paesi Europei in Africa nei tempi più recenti come la Francia nel Mali e lo stesso comportamento italiano in Libia che ci ha fatto rievocare il 1911). Si tratta di tensioni di natura che possono essere ben considerate di natura neofascista e che si accompagnano con l’idea personalistica-assolutistica di detenzione del potere politico: un fenomeno che, in Italia, si presenta ancora sulla scena con estrema pericolosità anche dopo aver respinto il tentativo di modifica della Costituzione attraverso il voto del 4 dicembre 2016.
È evidente che a questo stato di cose, che si lega all’assoluto fallimento degli obiettivi di governo della fase estrema della globalizzazione portati avanti dai Paesi occidentali al di là delle specifiche formule politiche di maggioranza o di minoranza, e dall’arretramento che è derivato proprio dall’acquisizione acritica da ciò che si stava imponendo attraverso la gestione del ciclo capitalistico, sulle condizioni materiali di vita e di sicurezza sociale per popoli interi. Sarebbe necessario, allora, rispondere portando avanti sul piano internazionale movimenti in grado di contrastare efficacemente prima di tutto il riemergere dei pericoli di guerra e in secondo luogo le ragioni universali della solidarietà e dell’uguaglianza.
Ragioni che risultano essenziali per definire un nuovo quadro di progresso: termine sicuramente ambiguo che è però possibile usare di nuovo in questo momento proprio per sottolineare l’esigenza di alterità rispetto al processo di arretramento storico in atto.
Ragioni che non dispongono, nell’attualità, di una sufficiente progettualità e di un’adeguata strutturazione sul piano politico.



Edita dalla Fondazione Zanetto
LEOPARDI E I SUOI “CANTI” IN UNA NUOVA PUBBLICAZIONE
DI VINCENZO GUARRACINO
di Federico Migliorati


Su Giacomo Leopardi si sono spesi fiumi d’inchiostro tanto che appare difficile, oggigiorno, pensare di dare alle stampe opere nuove legate al genio recanatese senza rischiare di riprodurre il già scritto. Ci riesce e con felice intuizione Vincenzo Guarracino, che di Leopardi è in Italia uno dei massimi conoscitori, autore tra l’altro di una “Guida alla lettura di Leopardi” che condensa con efficace elaborazione vita e opere del poeta. La sua più recente pubblicazione, edita dalla Fondazione Zanetto di Montichiari che ormai veleggia verso i  230 titoli complessivi in catalogo, è “L’infinito e altri Canti” nella quale affronta con felice sintesi non disgiunta da un linguaggio elegante e diretto 18 Canti leopardiani. Introdotti da note descrittive che ne illustrano il contesto e la genesi ad esse sottesi, sono seguiti da appunti, riflessioni, pensieri che lo stesso poeta marchigiano aveva annotato in diari, lettere, memoriali. Facile, dunque, orientarsi anche per il neofita della letteratura così come apprezzabile si presenta l’intero corpus letterario così realizzato per l’appassionato e lo studioso di Leopardi. Quello messo in atto da Guarracino è un vero e proprio percorso nel mondo dei versi, in alcuni casi con inedite riflessioni che denotano l’attento interesse anche filologico del curatore. Dal “Sabato del villaggio” al “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, dalla “Quiete dopo la tempesta” alle “Ricordanze” i Canti “rappresentano -scrive Guarracino nel testo di presentazione- il vertice dell’esperienza intellettuale e artistica dell’autore. Essi costituiscono veramente la ‘storia di un’anima’ risolta attraverso una scrittura poetica in cui si trascrivono e sublimano occasioni della vita e della cultura”. “L’infinito e altri Canti” è corredato anche da una postfazione a firma di Marzia Borzi per la quale “i Canti ci aiutano a comprendere l’autore e la sua poetica, una vera ‘medicina’ dell’Io, con versi che ci conducono lontano, sensibilizzando il nostro esistere e rendendoci filosofi del reale”. Interessanti le opinioni di scrittori e critici, pure inserite nel volumetto, che nel corso dei secoli hanno affrontato la prosa e la poesia di Leopardi, tra i quali quella di Benedetto Croce che definì “vita strozzata” l’esistenza del poeta; per contro Francesco De Sanctis eleva l’anima leopardiana perché il recanatese “non crede al progresso, e te lo fa desiderare, non crede alla libertà, e te la fa amare”. A corredo di testi e contributi, l’opera di Guarracino è arricchita da immagini tra cui un ritratto di Leopardi del 1826; la copertina racchiude uno scatto della statua che in Piazza Leopardi a Recanati raffigura l’inclito figlio della città in atteggiamento pensoso e riflessivo.  



LIBRI
FILIPPO RAVIZZA. LA COSCIENZA DEL TEMPO  
di  Sebastiano Aglieco

Filippo Ravizza e Gianmarco Gaspari
nel cortile di Casa Manzoni a Milano

Gianmarco  Gaspari, nell’introduzione al libro, fa spesso riferimento a una poesia di stampo civile. Il “civile” è senz’altro da intendersi in riferimento a quella branca del romanticismo che si fece carico della coscienza e della liberazione dei popoli, quindi di stampo manzoniano per intenderci, prima di quella svolta che portava lo “Sturm und drang” verso il declino esistenzialista, e poi, di corsa, alle estreme conseguenze del novecento - simbolismo etc… -.
Queste considerazioni valgono, in realtà, per tutta l’opera di Filippo Ravizza, attraversata da un dettato febbrile, a voce alta, che ha il suono di un vento di lago, come mi è capitato di dire in altre occasioni, e che portano questa poesia verso il territorio di un dettato “altisonante”, da pronunciare a voce spiegata, proprio come le vele di Ulisse verso le Colonne d’Ercole.
Ed ecco l’altro risvolto della medaglia: abbiamo a che fare, appunto, con una parola che, cosciente dell’assolutezza del concetto di Tempo e di Storia per le sorti del genere umano - Fatti non foste a viver come bruti… - ce ne mostra, col gesto di rivoltamento di una maschera, l’efferatezza e la tragicità comica, il viaggio verso l’estremo baratro. Ogni cosa - vicenda, azione, pensiero - se da una parte proclama l’abnormità genetica della specie umana, la grandezza, dall’altra riporta tutto il senso della nostra Storia verso la voragine del non senso, di un Nulla che abita le cose.
Un momento della presentazione del libro
da sin. Aglieco, Gaspari, Ravizza, Fantato

La poesia di Filippo Ravizza, in modo più evidente in questo libro, si dispiega, dunque, nella tensione feconda di due forze. E potremmo pensare a due raggruppamenti estremi di pensiero e di poetica per ben intenderla; da una parte tutte quelle opere che esprimono una idealità di intenti, di un miglior mondo possibile: l’Utopia di Tommaso Moro, La città del sole di Tommaso Campanella, Il contratto sociale, di Jean Jacques Rousseau, il Socialismo Utopista, Hegel… Dante Alighieri, Ugo Foscolo. Dall’altra parte le opere della deriva, della perdita di una idealità di pensiero, premonitrici di una “distopia”, piuttosto che di una “utopia”: Holderlin, per esempio, e la sua poetica dell’erranza, Rimbaud, Heidegger.
https://miolive.files.wordpress.com/2017/06/18921921_10156251271453206_4578469582259300057_n1.jpg?w=300&h=225Probabilmente, però, le radici sono assai più profonde, e risalgono a un fatalismo di stampo greco e al nichilismo del Qoelet biblico.
Mi è necessario ricorrere a questi riferimenti alti per sottolineare il fatto che la poesia di Ravizza sembra pendere da un sottile filo sospeso nel vuoto caricandosi di due necessità: ribadire l’assenza che abita tutte le azioni umane - persino la logica interna di tutti i sistemi biologici - proclamare la necessità del “contratto sociale”, dell’essere un “noi tutti” piuttosto che un io. Ricorrenza importante da un libro all’altro, per chi conosca l’opera di Ravizza, è la sparizione di un’idea di mitteleuropeismo; un vagare, esule, da una capitale all’altra, alla ricerca di qualcosa che è andato perduto e disperso. Così, l’osservazione dei cambiamenti e dei guasti, provoca in lui il desiderio di un ritorno verso la Patria ideale di una lingua vergine: l’antica Toscana dove nacque la nostra idealità linguistica e culturale. Filosofia dello svelamento, dell’abbassamento della maschera, fino alla rivelazione della vera essenza delle cose: un totale Nulla. Si tratta di una feconda contraddizione tra l’Essere come Apparire - l’Essere inteso come destino collettivo - e l’Apparire inteso come “Ipocrisia” delle forme dell’esistere.
Alla base di tutto, insomma, c’è sempre Ananke, la Necessità, l’ineluttabilità, il precipitare di tutte le cose:
tutto è uno scatto
meccanico uno stare avanti
slittare avanti
[p. 63]
Ecco: se le nostre considerazioni si fermassero qui, potremmo, e a buona ragione, considerare l’opera di Ravizza come una splendente realizzazione da sistemare nella casa di un nichilismo tutto novecentesco, restio a ogni desiderio di salvezza. Così non è.

La copertina del libro

Ciò che rende questo libro palpitante e bellissimo, è la commozione, in senso etimologico; la capacità, cioè, di condurre il lettore verso una riflessione assai poco astratta sul senso della vita e del nostro destino. “Dunque ora tu siedi, abbi pace, / calma la tempesta del dolore, / resta nell’alba e nella quiete / mio lettore, mio fratello; come / paglia bruceremo in pochi istanti, / nulla nel nulla”, p. 18.
Così leggiamo di domande incessanti, a volte lasciate senza risposta, sospese in un balbettamento, in una reiterazione singhiozzante che va a capo, che imita la balbuzie infantile del respiro - credo ci sia una forte potenzialità teatrale nell’opera di Ravizza, un monologare a voce alta, come del Poeta al quale non viene più riconosciuta alcuna funzione sociale, costretto a parlare alle stelle, dalla cima di una montagna - . Il poeta canta singhiozzando, rivangando le sorti di un’alta idealità che non si è realizzata - una notevole suggestione, leggendo questo libro, mi è venuta ascoltando l’ultimo movimento della nona sinfonia di Beethoven, quell’Inno alla gioia intriso del sentimento di una speranza tradita, musica che si fa gesto, azione -.

La bellezza perduta per sempre
“Sì, certo, ora qualcuno mi ascolta, legge,
ma nella lucidità degli occhi infligge
dolore doverti dire quello che sto
per dire amico mio gettato nel vento
e dal destino già provato e vinto,
amico mio, mia sorte, e ora ingenuo
passato, futuro certo: ascolta, ascoltami
allora tu: adesso qualcuno mi legge sì,
ma la bellezza di essere un giovane
poeta, quella è perduta, perduta
per sempre”.
Così dicevo a me di me così
cantavo la perdita di me
con me chino sulla carta,
in mano la matita come una
vita giocata con la spada e
la nera ombra della mina,
parola parola che cammina
e dà cuore e forza e alza
in volo il nulla..
[p. 71]
Ravizza è capace di consegnarci di sé un’immagine umilissima e vera: “figuretta di seconda fila io / seduto là nell’angolo più / lontano della stanza io / che ora scrivo qui e chiedo / che senso abbia nascere e / crescere ed essere buoni / e non fare mai il male e / invecchiare e morire così / soli sempre più soli che mai / da soli nonostante l’amore / che pure c’è stato ma non / serve non soccorre non / paga non consola”, p. 79.
Mi sembrano tra i versi più belli pubblicati negli ultimi anni e che si trascinano dietro un’altra immagine: quella della matita, alla quale affidiamo la nostra poesia come se si trattasse di un atto definitivo, di una giustizia che forse ci spetta; un riscatto, fuori dalle ingiustizie e dalle promiscuità della Storia. La “Storia” scritta con la S maiuscola, Clio, musa e semidea, non del tutto dipendente dalle nostre azioni e dalla nostra volontà. A sottolineare una circolarità, una ripetizione impunita, e quindi, in qualche modo, un fato annidato dentro la nostra gracile idea di libertà.

Filippo Ravizza
La coscienza del tempo
La Vita Felice 2017
Pagg. 88 € 13,00