CRISI DEL MODERNO E ARTICOLAZIONE DEL DISCORSO
POLITICO
di Franco Astengo
La ricostituzione di un soggetto
della sinistra politica richiede, in questa fase di tumultuosa modificazione
nei parametri di riferimento, un ritorno in profondità nella ricerca teorica.
È cambiato
radicalmente il possibile ruolo e compito degli intellettuali; sono mutate le
categorie di classificazione delle fratture sociali; sfugge l’idea di un
rapporto tra pensiero, espressione di soggettività, organizzazione politica. In
Italia questo complesso insieme di elementi può essere affrontato nutrendosi di
una particolare visione del passato, ma ciò non è sufficiente: deve essere
ripensata, prima di tutto, la storia delle dottrine politiche.
Si tratta di
occuparsi, come si sta cercando di fare da qualche parte con esiti ancora
parziali e contradditori, di quella che è stata definita “crisi della
democrazia”.
La storia
delle dottrine politiche (o del pensiero politico) si muove tradizionalmente
fra la storia politica, la storia delle istituzioni, la storia delle filosofia
pratica. La storia delle dottrine politiche è, infatti, una disciplina che ha
come proprio obiettivo l'analisi dell'incessante discorso sulla politica, sulla
sua legittimazione o sulla sua delegittimazione, che caratterizza l'intero arco
cronologico della civiltà occidentale. Nel fare la storia delle dottrine
politiche, non possiamo però pensare di estraniarci da una funzione e da una valenza
dichiaratamente politica. Non esiste, dunque, separatezza tra storia delle dottrine
politiche, analisi della situazione politica, azione politica diretta. Esistono,
certamente, diversi metodi di analisi che dipendono dal tempo storico e dagli
obiettivi che, di volta in volta, ci si propongono.
Si può,
infatti, privilegiare la continuità di lungo periodo, attorno ad alcune idee-
guida (il cosiddetto “percorso carsico”), oppure tentare di rintracciare i
punti di cesura epocale (“nulla sarà come prima”).
È possibile
tentare l’esplorazione del “politico”
nella sua autonomia, oppure scrutare l’interno del potere nella sua essenza di forza sociale. Si
può sviluppare un tentativo di cogliere nella varietà degli assetti
istituzionali e nel rapporto tra questi e i soggetti economici, l'urgenza della
determinazione dei rapporti di forza che, alla fine sistematizzano proprio
quegli equilibri di potere cui già accennavamo. Oppure si può esplorare
l'intreccio degli eventi di vario spessore intellettuale che fanno circolare
idee, mettendo in moto quelle entità immateriali e impersonali che formano il
cosiddetto “spirito del tempo”, formando l'opinione pubblica. Ancora: si può
cercare di oggettivizzare al massimo la propria la riflessione e la propria
azione politica, adattandola alla contingenza immanente, facendola così aderire a quelle che, di volta
in volta, si presentano come le reali dinamiche dei poteri.
Tutto
dipende, insomma, da come si riesce a declinare il nesso tra sapere e prassi,
fra storia e progetto. Disgiungere questi elementi e cercare la via di un
pragmatismo, apparentemente invitante ma in realtà impossibile, significa
abbandonare ogni possibilità di ricollegare concretamente politica e vita. In
questo quadro di riferimento metodologico si pongono così, per quanti cercano
di riflettere sulla realtà politica di oggi, almeno due campi di iniziativa:
a) definire i termini reali in cui
si è consumata definitivamente la “modernità” costruita tra '800 e '900. Una
“modernità” fondata sul cosmopolitismo di Kant e sul lavoro e la nozione di
Hegel. Quei due punti, cioè, sui quali la modernità ha voluto farsi concreta
(lo Stato e la legge morale dell'individuo, che ne ha regolato il funzionamento
effettivo) e, al contempo, aprirsi alle proprie contraddizioni (le grandi
utopie: tragiche utopie?).
Questa fase
si è esaurita nell'esaurirsi di un’idea di rapporti plurale, di effettivo
dualismo, con quel grande “tracciato della storia” rappresentato dalla
“rifondazione marxiana”.
Dopo aver
rischiato il collasso totalitario (Heidegger, Schmitt, Gentile) ci si è
arrestati sul riproporsi di un unico orizzonte della politica (i progetti
neokantiani e neo liberali);
b) Inquadrato il punto precedente,
da qualche parte descritto come approdo al “pensiero unico”, il nostro compito
diventa, allora, quello di pensare e praticare la politica, oltre le rovine del
moderno.
Per avviare
un discorso di questo tipo, mi pare ci sia una sola strada: tentare di
spezzare, o almeno di articolare l'ottica occidentale della lettura della
storia, così come questa si è misurata attorno a punti “classici” del
conflitto, che hanno generato le cosiddette “fratture” su cui si sono collocati
i soggetti politici del ‘900: individuo/stato; società/sovranità;
libertà/disciplinamento; soggettività/potere; democrazia/élite.
Globalizzazione,
sovranazionalità, estensione del conflitto sociale, mutamento nella narrazione
morale. Attorno a questi fattori,
parzialmente inediti sulla scena della nostra azione politica la lettura
occidentale della storia ha tentato, nel post – caduta del socialismo reale, di
rispondere (fallendo) contrabbandando la guerra come elemento di “esportazione
della democrazia”. La considerazione (sbagliata) era quello di un potere delle istituzioni considerato ormai come esaustivo della
legittimità del “comando politico”.
Deve,
invece, andare in discussione, al fondo questo tipo di formalizzazione data per
universalmente acquisita. Nello stesso tempo deve essere messa in discussione
quell’idea dei diversi rapporti che si
sono stabiliti tra l’esercizio della politica come strumento “separato” e il
parallelo costituirsi della moderna soggettività individuale. Nella sostanza la
crisi da analizzare è quella tra la formalità della concezione dello Stato (sbrigativamente intesa come esigenza di
“cessione di sovranità” da parte dello Stato-Nazione”) e lo stabilirsi
dell’egemonia culturale dell’individualismo. Occorre recuperare la capacità
dell'intellettuale di presentarsi come portare di un pensiero concreto della
pluralità, del conflitto, dell'immanenza, del materialismo, non cedendo
all'idea che soltanto una religione potrà salvarci dalla caduta della modernità
(Habermas), chiamando a raccolta quelle forze che si sottraggono, oggi, alla
politica, ma non possono tirarsi fuori dal procedere, inesorabile, delle
dialettica della storia.
Una
dialettica che non può risolversi semplicemente presentando la propria
coscienza individuale al cospetto dell’immutabilità di funzione del potere
costituito. Non è sufficiente “la legge morale dentro di sé” e la competizione
politica ridotta all’ “individualismo competitivo”.
Al compito
di ritrovare i termini della ribellione collettiva verso l’idea della “fine
della storia” e il predominio dell’io come soggetto esaustivo dell’agire
politico, è chiamata la sinistra e soprattutto quegli intellettuali che non
intendono ridurre il loro ruolo a quello di “maitre a penser” del potere.