Pagine

mercoledì 13 settembre 2017

IL NUMERO CHIUSO
di Fulvio Papi

 
La protesta dei ragazzi per il “numero chiuso” alle Facoltà umanistiche, non ha mancato di sorprendermi, e come ogni sorpresa, impone di cercare la comprensione che il lessico spontaneamente suggerito dalla sorpresa non è capace di fare, perché, senza che lo si sappia, narra di se stessi e dei propri pregiudizi da qualsiasi parte essi guardino. La cultura umanistica da tempo è in grave crisi. A livello universitario ricordo, ormai sono passati molti anni, quando nelle Facoltà tedesche appariva prevalente la tendenza a sostituire le cattedre di letteratura greca e latina (vecchie glorie) e anche di filosofia con insegnamenti di sociologia che però non venivano da Adorno. Poi, magari, c’è stato qualche pentimento. A livello sociale era sempre più limitato il numero di persone che potessero avere un’idea anche vaga di che cosa poteva rappresentare la “Germania” di Tacito nel coro della cultura imperiale romana, o per lasciare ad altri osservazioni così sofisticate, quale fosse l’evoluzione imperialistica della cultura politica di Crispi che nasceva garibaldino. La guerra del Parlamento inglese che inaugurava la storia, il significato e i diritti del parlamento moderno, era per il ricordo vago e senza senso di una scuola fatta male. Tutti “vuoti” del resto pienamente giustificati da poteri che consideravano il sapere come l’apprendimento di tecniche operative e saperi linguistici da menti retrocesse a un disarmante primitivismo tecnologico. Erede involontario di quest’aura è stato il proposito (comprensibili in astratto) di istituzionalizzare un rapporto istruzione scolastica-abilità lavorative. Non ci vuole un grande intelletto per comprendere che l’assioma sociale, solo silenziosamente suggerito, era lo sviluppo ad infinitum della produzione. Credevo che questa situazione, a livello dei valori d’uso giovanili, corrispondesse a quei prodigiosi strumenti dai quali si può trarre ogni informazione, oltre che entrare nella vita del prossimo con delle telefonate. Invece no. La “corona di Berenice” di Callimamo è divenuta un desiderio. Questo però non è più vero del fatto che il cielo è fatto da “un manto di stelle”. E allora? È molto più probabile che questo sia un caso, piuttosto diffuso, nel quale una vita sociale che crea liberi consumatori, ma anche, a certe condizioni che sarebbe bene sapere, liberi cittadini, i quali, di fronte ad ogni forma di limitazione (talora conta più la percezione del contenuto), hanno la capacità di protestare e di argomentare il loro diritto. In una società non partecipativa, è un modo per essere qualcuno, al di là delle impudenti apparizioni mediatiche. Ipotesi, in ogni caso. Non so proprio perché sia nato il problema del “numero chiuso”. Posso cercare di indovinare che sia stato “inventato” da docenti che, dopo anni, avevano considerato l’affollamento delle aule una ragione di deperimento culturale dell’Università. Se era questo il problema i professori avrebbero dovuto resistere prima quando iniziò il processo di degrado della cultura accademica, giudizio che oggi sono in grado di dare solo i vecchi, poiché, alla lunga, ogni cosa che accade nel mondo, viene percepita come normale. E poi, diciamolo francamente, l’ “Università critica di massa”, di cui parlava un carissimo amico dirigente comunista, non è possibile. Il rapporto qualita-quantità era ovvio nella “Logica” di Hegel che il mio carissimo amico aveva dimenticato. Ma il “tutti dottori” è lo stesso un ideale umoristico. Poiché se è vero, com’è costituzionale, che l’accesso agli studi superiori deve essere garantito a chiunque abbia talento idoneo, anche se povero, è anche vero, almeno dal mio punto di vista, che ogni lavoro, ben fatto e onestamente compiuto esige l’eguale considerazione e valore sociale rispetto ad ogni altro compito. Questa mi pare l’uguaglianza etica del vivere civile, superiore ad ogni altra differenza sia nell’idea, come pregiudizio sia nel denaro, come potere.
Se poi i ragazzi vogliono avere il diritto di studiare, allora prendiamo sul serio la parola “studiare” (più che istituzioni, burocrazie, corsi, esami, lauree ecc.). Evitiamo ogni parodia dello studio che ha spesso ridotto i primi anni di Università a un livello che, un tempo, non sarebbe bastato per affrontare la maturità liceale. Sarebbe importante che con i ragazzi questo fosse il tema del diritto all’Università, affrontato con pazienza e virtù collaborativa, ma, in effetti, una rivoluzione