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sabato 30 settembre 2017

PER GIULIO QUESTI
di Fulvio Papi

Giulio Questi

Quando Fulvio Papi mi ha annunciato che avrebbe scritto un ricordo sul regista Giulio Questi, ho provato una immediata entusiastica gioia e gliene ho spiegato i perché. La sua idea ha provocato fulmineamente in me tutta una serie di “resurrezioni della memoria”, come Proust magnificamente le definisce nel settimo volume della sua monumentale opera. La mia mente è tornata di colpo in un luogo, in un tempo e in uno spazio, che erano stati completamente rimossi. E poiché tutto avviene e si determina in più dimensioni, ho ritrovato anche le sensazioni e i volti di quell’evento. Ho ritrovato l’atmosfera fumosa di un cinema, uno fra i primi aperti nella Calabria interna del Novecento, che si era chiamato per lungo tempo “Cinema Impero” e che di quel nome e di quell’epoca voleva evocare i fasti. Fasti che erano del tutto scomparsi quando negli anni Settanta del secolo scorso, cedendo alla “modernità” e “ristrutturato”, mutò nome da Impero a Moderno, e noi, giovani di belle speranze e dall’animo ribelle, lo utilizzammo come naturale contenitore di un Cineforum lungo una stimolante e vivace stagione di impegno intellettuale e civile, ahimè del tutto scomparsa. In quel lontano 1972 che Papi ha fatto affiorare in me, Giulio Questi era venuto ad Acri ed in quel Cinema, a proiettare e dibattere con noi, in anteprima, il suo film Arcana, girato proprio quell’anno. I motivi di quella scelta non risiedevano soltanto nella nostra passione per la settima arte, Acri era allora nota per il suo radicale fermento politico e i contatti esterni erano tantissimi, ma anche perché il film di Questi raccontava una vicenda di meridionali che aveva come ambientazione Milano, e questo ci interessava ovviamente come figli di quel Meridione.
Ero molto giovane a quel tempo, avevo 21 anni, e la giovinezza è quasi sempre spavalda e arrogante. Stupidi non lo eravamo, tutt'altro, ma l’arroganza spesso può essere più feroce e tragica della stupidità. Mi sono risuonate vivide come allora le critiche a quel film e a quel regista, che forse da noi si aspettava quell’attenzione e quella fraterna solidarietà ideale che gli rifiutammo. Molto più tardi seppi che egli era stato anche un valoroso partigiano e ne ebbi doppiamente rimorso. Quel rimorso è rimasto nel fondo di me stesso per ben 45 anni, e, seppure a una così grande distanza di tempo, sono grato all’amico filosofo che scrivendone un ricordo, mi permette di unire il mio risarcimento al regista e al partigiano. [Angelo Gaccione]   
  
La copertina del libro

Giulio Questi, dopo venti mesi, dal primo all’ultimo giorno, di guerra partigiana in una zona tra le più dure, abitava a Bergamo, la città che, in tempi più recenti, ha offerto alla cultura e alla politica del paese personalità di primo piano. Credo che ogni tanto Questi venisse a Milano e ne parlavano i compagni che avevano cinque o sei anni più di me. In ogni caso in questi incontri ero (giustamente) escluso come immaturo rispetto alle esperienze, ai ricordi, ai propositi che potevano costituire il tessuto di quegli incontri. A me arrivava un’eco che segnalava una personalità superiore e, forse, persino un po’ imbarazzante per gli interlocutori stessi. Seppi poi che era andato a Roma nell’ambiente del cinema dove sarebbe divenuto uno dei registi più importanti della nostra cinematografia. Una lontananza oceanica rispetto ai modi del mio crescere, e tuttavia il suo nome, per tutta la vita mi risuonò come un caso prezioso irrimediabilmente perduto. Non c’è quindi da stupirsi se quando, tempo fa, comparve da Einaudi un libro di Giulio Questi Uomini e comandanti cercai di leggerlo con grande cura. Non sapevo affatto che Questi avesse anche un’attitudine narrativa che, mi pare, portò in superficie un mondo autobiografico considerata sempre secondo una “bassa” essenzialità, un po’ come Fenoglio che aveva affettuosamente conosciuto e con il quale doveva anche fare un film, rimasto poi solo un proposito per la morte di Fenoglio. Questi aveva modificato il famoso libro Una questione privata (un testo “perfetto” come diceva Calvino). E a me sarebbe piaciuto sapere il “perché” delle modifiche, dato che in questa decisione potevano celarsi altri motivi importanti per Questi, soprattutto per la traduzione cinematografica. Ma questa “curiosità”, penso non futile, dovrà tacitarsi, come altre e a me non resterà che seguire, grato, notizie e interpretazioni del bellissimo saggio di Angelo Bendotti che appare come postfazione dell’opera di Questi. Due elementi nella lettura mi sarebbero parsi di vero interesse. L’uno il senso particolare del realismo resistenziale di Questi nel quadro classico del realismo letterario che Calvino teorizzò nella seconda edizione de Il sentiero dei nidi di ragno

Il regista in età più giovane

E poi una scrittura che s’inoltra sempre nel buio, nell’azione necessaria che, nel suo obbligo, non ignora la violenza, ma la seppellisce sotto la legge invisibile della realtà. Come altri, sono tutti desideri che restano vuoti. Del resto il saggio di Bendotti può supplire, certamente al meglio, ai miei impossibili desideri. In sostanza conoscere un personaggio importante per il suo lavoro cinematografico e letterario, di cui da un tempo lontanissimo conservo solo il fantasma mitico, sarebbe una bella prova della costruzione della memoria. Ci sono tuttavia due citazioni di Questi che derivo dal saggio di Bendotti che riferirò per intero, cercando di ricavarne una riflessione. Bendotti: “Nei frammenti di ‘Documenti’, angosciosi presagi di morte, il narratore fa i conti con una singolare processione funebre, con attori, quattro o cinque uomini, che portano una bara vuota,  non una bara vuota, scoperchiata, che aspetta solo lui:
I loro visi erano scarni, infossati. Malgrado ciò li riconobbi. Li avevo uccisi io negli ultimi giorni di guerra. Erano venuti a prendermi. Non mi pareva con astio. Semplicemente perché adesso toccava a me”. Il testo di Bendotti così prosegue: “In  ‘Visitors’ lo sparuto gruppo di uomini che portano la bara è costituito da affiliati a una singolare società, l’ANMA, Associazione Nazionale di Morti Ammazzati: loro compito è quello di far visita ai testimoni ancora viventi della guerra civile. A costoro viene recapitata una inquietante lettera elettronica dal protocollo ignoto: “Gentile superstite, dopo ricerche durate cinquant’anni, grazie alle nuove tecnologie siamo riusciti a trovare il suo indirizzo. Siamo un gruppo di fascisti che lei uccise con armi da fuoco negli anni lontani della nostra comune giovinezza, consumata in una guerra civile su fronti opposti. Finalmente l’abbiamo individuata. Le nostre assidue visitazioni a casa sua non vogliono essere intimidatorie, ma solo l’occasione per un incontro chiarificatore e forse un’accorata richiesta. Senza rancori,
ANMA”.
Giulio Questi


Sono citazioni di non facile comprensione. La prima mi pare affermi che quale sia stato il senso della vita di ognuno la morte istituisce un tipo di pareggio che, come vedremo, non è affatto un comune destino che eguaglia le differenti tracce mondane. La seconda citazione approfondisce il tema con un confronto tra la memoria dei defunti e dei superstiti di una guerra, e l’elaborazione storica, l’interpretazione che, incontra il terreno terribile dello scambio di morte, e costituisce un sapere e un’identità storica future. La memoria circoscrive i fatti, assegna loro lo spazio della soggettività, talora ha una sua verità che può diventare scrittura: è però il processo interpretativo della storia che seleziona il senso della vicenda, l’identità di chi non c’era, e deve vivere dopo la tragedia e l’ideale della partecipazione personale per uno scopo etico. È questa differenza che pure la morte comunque non può pareggiare. Non so Questi, ma temo che anche per la sua esperienza sia sopravvenuto, per i tempi grigi, un pareggiamento ingiusto dovuto alla dimenticanza sociale, alla doverosa consegna interpretativa ai custodi della storia. Ora però la scrittura - si dice – non muore per sempre, ed è qui, tra memoria e storia, che ho desiderato ricordare Giulio Questi, partigiano, uomo di cinema, scrittore.