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mercoledì 25 ottobre 2017

Italia 2017
di Davide Di Felice
Davide Di Felice

Principia Belpaese  da Piemonte,                   
ove a baluardo torreggiò Fassino,
capitan de la guardia di Torino:
ma al Grillino dovè chinar la fronte;
(Principia… Piemonte:
Gran barbacani eresse qui Fassino,)
Ma al Grillino…

Non valser Chiamparini e Littizzetti,               
né i fossati di Stura e del Lingotto,
ché ’l compagno pensò:  “or me ne fotto
d’una sinistra omai fatta d’inetti”.

Per Po discendi in quella Lombardia                   
Ov’ogni amor carnal era bandito,
fosse pur de la moglie co’ ‘l marito:
tal fu di Formigoni l’omelìa  (;)                          

fin che nove puttane tuttavia                                        
volse ‘l popol che a Silvio rese omaggio;
(di puttane disioso, tuttavia,
era ‘l vulgo e…  a Silvio rese omaggio;)
(e… di Silvio fè l’assaggio)
Irata, e offensa da cotanto oltraggio,
la nobil acqua presta fuggì via

ad insalarsi in mar presso a Vinegia.       
Trascorri pur Friuli, anco Trentino:
di Luca non vedrai maggior cretino,
però di Zaia Veneto si  fregia.

Il nobile lignaggio d’esto sito,                           
che strombazza ‘l miracul del  Nordeste,
solerte è sempre a raschiar le ceste
d’un erario già messo a mal partito.

Vagando per cittadi marinare,                                                    
obliar non déi il Beppe genovese;
d’esser profeta avanza le pretese
e gl’idioti no’l cessan d’acclamare.

Idioti?!,  e che diran i Malatesta                                   
dei predappiani e di quel Poletti,
medaglia d’or fra tutti li suggetti
che di membro viril hanno la testa?

Poi  che sul sesso me se n’ gì l’accento,                   
par che Renzi a la ninfa di Valdarno
tenda  i suo’  lacci, forse non indarno.
(tenda suo’ lacci: Dio non voglia indarno!)
(ch’anch’ io per esso lui sarò contento,)
(sarei per esso lui ben io contento)   
Per una volta anch’io sarò contento,

dopo lazzi sì crudi e duri strali,                                
se ‘l suo fulmin terrà dietro al baleno;
ma potriangli le forze venir meno
se son pari ai trionfi elettorali.

Or ne fa prova il prode Gentiloni,                         
vanto d’Ancona e ancor di Recanati,
forse ‘l miglior tra tutti li mal nati:
e però se ‘l torràn da li coglioni.

Coglioni:  un po’ ci son e un po’ ci fanno               
quei che, pascendo pecore e maiali,
non temono tremuoti ed altri mali
e,  cocciuti, di là non se ne vanno.

Perciò  Francesco  diligea le fiere,                           
sola forma di vita intelligente
ne le province, ov’ ora un presidente
in loco del cerébro have ‘l sedere.

Forse perché di tant’Italia fella                             
Terni, con Rieti, s’erge a  baricentro,
Tevero istesso sdegna intrarci dentro:
ahi, ch’in bragia cadrà da la padella!

Ché l’imbiondire ne la landa opaca                                 
di Tuscia e di Sabina per vie tòrte,
non gli varrà scansar le gore morte
serpeggianti ne l’inclita Cloaca.

Imagina, lettor, a quale prezzo                                                             
ora potrei cantar, e con qual metro
argomento sì ‘mmenso e pur sì tetro
del qual, sol a nomar,  m’uccide ‘l lezzo.

Per discettar di fogne e di liquami,                        
l’alloro cedo a qualche imbonitore
(alloro miglior cinge imbonitore)
dal calamo ruffian e servidore,
che, ‘ntinto in guazzo, fa gran bei ricami.
(… , scaglia gran proclami.)

Onde, a fuggire dal mortal ferétro                           
fatto de l’aere denso che qui esala,
novo Dedalo, ratto levo l’ala
sovra Tirreno, chiaro come vetro.

Ed ecco, fiera del suo popol sardo,                           
l’Isola, fertil d’uomini contenti
di scaldare li scranni più eminenti,
pria che calasse Bossi longobardo.

Poscia, per evitar l’usato puzzo,                                       
volte le terga a l’erculée colonne,
volo d’un balzo in terra di Marchionne,
e, mentre leggi, sono già in Abruzzo.

Quest’è patria d’Ovidio, e dell’Antonio                       
sodal, a un tempo, a Silvio ed a Di Pietro:
sgorga la sua favella dal didietro,
ché la faccia non è di miglior conio.

E mentre quei contra la luna latra,                               
priego la dolce Musa che m’assista;
novo è ‘l cammino, nova ancor la pista
che mena a la region uggiosa ed atra.

Già l’ora tarda tinge d’ametista                                     
il mar, ch’in cielo sfuma;  a l’orizzonte
la sagoma m’appar bruna d’un monte:
è Gargano che s’offre a la mia vista.

Sotto le sue pendici padre Pio                                        
infinocchiò le turbe d’innocenti
ch’or una gamba, or tutti li denti
speravano sanar da morbo rio.

Tu devi ben saper il fatto empio:                                    
tanto fu l’oro tolto a’ suoi seguaci,
che, vegliato da monaci rapaci,
n’avanzò pur per innalzargli un tempio.

Ma non pensar, lettor, che li terroni                               
ognora sian o sciocchi o ben pasciuti;
savi e frugali, più ch’altrove aguti,
a Palermo han fatto li milioni.

Ed altri son, s’io son degno di fede,                                        
 rifatti fessi  ov’ urge gir in guerra,
come fece già Ulisse in la sua terra;
ma crudo è ‘l fato d’ogni Palamede.

E ‘l padre Dante, ch’ebbe così caro                                 
lo ’ndugiar appo i savi d’Antinferno,
non potea  divisar che ’l Padre etterno
avea già proclamato Catanzaro

fucina somma d’ogni vera scienza.                             
Erede d’Alessandria e, pria, d’Atene,
ogni animal che viva qua se n’ viene
a perseguir virtute e conoscenza.

Uscita da le selve d’Amatrice,                                            
dicon giungesse la superba Lupa:
tornata in Lazio molto meno cupa,
fu dei fasti di Roma levatrice.

De la Lupa non so, ma Mariastella                                   
vi piovve ch’era sol ringhiosa cagna:
dopo pochi esercizi alla lavagna,
più di Gorgia sapiente, montò in sella

e diè volta a l’amata sua Leonessa;                                   
fu poi lustro a l’italica nazione,
ministra de la Pubblica Istruzione,
e nel dritto eccellente dottoressa.

Maligna  alcun che ‘l titolo di studio                                  
che ne la Magna Grecia è procacciato
valga sol per il posto ne lo Stato,
sempre occasion d’universal  tripudio.

E intanto da li spalti di Padania,                                          
adorni de li usati ceffi tristi,
viepiù belli del grifo dei leghisti,
si leva ad una voce l’aspra lagna:

“Razza di lazzaron, o tu!, Vesuvio!,                                      
ch’ ancora lasci l’opra tua  incompiuta
sovra Napoli e plebe sua cornuta:
foco non hai per l’ultimo diluvio?”

 Saprò già mai de’ due chi fu ’l primiero,                           
se Cavurre, o ‘l prence di Savoia,
più acconcio a reclutare qualche troia
ch’ a cingere corona e pur cimiero,

a vaneggiar l’idea d’Italia unita?                                             
Un dubbio mi riman: che ‘l Masnadiero
in Sicilia volgesse ‘l suo veliero
per rimpiazzare la defunta Anita.

Ma  concupire tutto ‘l Meridione,                                       
qual  meretrice guasta, a buon mercato,
or ch’ altro morbo è metastatizzato,
non fu gran giovamento a la Nazione.

D’Esperia omai n’è dato l’abitare                                   
la liquida necropoli fetente:
Oh, beata d’Atlantide la gente,
poi ch’ebbe ad affogar in acque chiare!

[I fatti di cronaca citati sono tratti da stampa
o informazione radiofonica di risonanza nazionale]