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martedì 14 novembre 2017

Il daimon alla macchina per scrivere
di Claudio Zanini


Chiamiamolo daimon del linguaggio, questo spirito umbratile che ci pervade, ci colma la mente e ci signoreggia costringendoci a trascrivere parole e immagini che suggerisce.
Di lui scrive James Hillman, sulle le tracce di Jung:
“Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine, un disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro.” (1)
Suggestiva ipotesi in cui, tuttavia, si parla di anima prima della nascita; un concetto ambiguo questo che, a mio parere, sarebbe da maneggiare con cautela; mi sembra di gran lunga preferibile ciò che scrive, parecchi anni prima, Giacomo Leopardi nello Zibaldone (1827): “Io veggo dei corpi che pensano e che sentono. Dico dei corpi; cioè uomini ed animali (...). Dunque dirò: la materia può pensare e sentire; pensa e sente.” (2)
Confortati da Leopardi, possiamo sostenere che il daimon non sarebbe prima e al di fuori di noi, vale a dire un’entità metafisica, di cui tutto si può dedurre, ma assai poco resta di certo; bensì è parte profonda della nostra psiche (inconscio inteso come ne parla qui Leopardi), quindi estensione di ciò che noi chiamiamo materia e di cui abbiamo limitatissima cognizione. Dunque, una parte dell’io che è ben presente, tuttavia, sconosciuta e sconfinata; che non registra la realtà empirica (termine peraltro sfuggente e d’incerta definizione), poiché per tal compito funziona la nostra parte dell’Ego cosciente; un io, quindi, che fa parte integrante della nostra personalità. Il daimon è “quel qualcosa che esiste in ciascuno di noi, che ci rende unici e irripetibili, e che contrassegna i nostri vissuti e i nostri agiti in modo irriducibile.” Qui, ancora Hilmann citando Platone, delinea, appunto, il concetto di personalità.
Ritornando a Leopardi, egli di nuovo afferma che “noi sentiamo corporalmente il pensiero: ciascun di noi (…) sente che egli pensa con una parte materiale di se, cioè col suo cervello, come egli sente di vedere co’ suoi occhi, di toccare colle sue mani.”(3)
Questo sentire corporalmente, è importante in quanto implica l’intera nostra fisicità confermando l’unità della persona, e ben s’attaglia a una figura di daimon consustanziale al nostro essere.
A proposito di un daimon che nasce dal nostro inconscio più segreto, Franco Romanò (4) cita Garcia Lorca quando afferma che il duende (daimon in spagnolo) è “un potere misterioso”, inspiegabile, che sorge dall’interno, “nelle più recondite stanze del sangue (…) prossimo alle profondità dell’inconscio”. A tal proposito Lorca narra un famoso aneddoto che Romanò riporta e, in sintesi, così dice: La cantaora spagnola Pastora Pavon si esibiva in una taverna di Cadice. Il suo canto, modulato con sapiente maestria e grande capacità tecnica, lasciò tutti freddi e indifferenti. Uno di essi sbottò dicendo qualcosa in cui s’intendeva che tecnica e mestiere non bastavano, che ci voleva qualcosa di più. La Pavon, sferzata da tali parole, si alzò come una folle, ingoiò un bicchiere d’acquavite e, stravolgendo la canzone, cantò con la gola riarsa e la voce rauca, ma con “un duende furioso e rovente” che conquistò gli spettatori suscitando il loro entusiasmo.
Questo episodio mi ha richiamato alla mente il momento in cui ho sentito la voce selvaggia del duende: ne L’amor Brujo (L’amore stregone) di Manuel de Falla, scritto per orchestra e cantaora, su richiesta di Pastora Imperio, famosa danzatrice di flamenco.
La sensibilità della poetessa Claudia Azzola individua un’ulteriore aspetto del multiforme daimon, in “un che di mezzo tra il mortale e l’immortale”, come dice Socrate. Una figura, prosegue Azzola, che ci chiama e “che dà il senso, il senso nell’urna poetica, del tragico esistenziale, negato.”(…) Suscita in noi “il senso recondito del fare.” (…)  “Il forte e primordiale daimon capisce, prende in mano la situazione e domina parti del sé, domina la materia grezza, raw material, incontra l’ombra che si vorrebbe non vedere, il senso astruso della morte. È la penetrazione nella carne viva della parola.”
(Un’avvertenza, qui giunti, urgentemente s’impone: l’essere posseduti o pervasi dal nostro daimon consustanziale - sia esso venuto da un’altrove trascendente, ovvero sia emerso, come noi riteniamo, da qualche riposto penetrale della nostra coscienza -, non è condizione sufficiente per produrre alcunché di profondo né d’interessante; anzi spesso esso genera banali e oscuri guazzabugli. Diffidare, dunque, di chi, estatico, si proclama posseduto dal daimon. Il daimon folgorante e geniale si riconosce dai risultati.



Assunta la natura umana del daimon, si può, quindi, condividere il concetto paradossale ma fulminante espresso dallo scrittore Philip Dick quando scrive:
«Diciamo che io sono ispirato a scrivere quello che scrivo da un’entità creativa al di fuori della mia personalità cosciente. (…) Non c’è dubbio che in tutta franchezza io non scrivo i miei romanzi nel vero senso della parola: essi provengono da qualche parte di me che non sono io.» Dick continua, giungendo addirittura ad affermare paradossalmente che «I miei libri sono falsificazioni. Nessuno li ha scritti. È stata la dannata macchina da scrivere, è una macchina da scrivere magica». (5)
Tale macchina stregata è autonoma nel suo agire e mette in discussione la figura dell’autore quale organizzatore cosciente e razionale di un materiale che domina e di cui dispone a suo capriccio.
Siamo nell’epoca in cui il soggetto (vedi Beckett) smarrisce la propria individualità, scomponendosi e frantumandosi nel mondo. Nell’operazione di dissolvimento di questa figura demiurgica, Michel Foucault, sostiene che: «L’autore, o ciò che ho provato a descrivere come la funzione/autore, è probabilmente soltanto una delle specificazioni possibili della funzione/soggetto»
«Si può immaginare (scrive ancora Foucault) una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero ricevuti senza che la funzione/autore apparisse mai. Tutti i discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore e qualunque sia il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero nell’anonimato del mormorio».(6)
Si potrebbe ipotizzare il ready made (l’oggetto trovato delle Avanguardie Storiche, di cui oggi si fa eccessivo e banale abuso. Per esempio il marchio pubblicitario “trovato” agli inizi da Warhol, che forse si rifà ai collage Dada); dunque, si può pensare il ready made quale spia e immediato segnale del bisbiglio anonimo di un’epoca.
A questo mormorio collettivo (di cui tutti inconsciamente abbiamo sensibilità più che intelletto) in cui la figura dell’autore sfuma ai margini d’un più vasto scenario complessivo, non è fuorviante accostare il concetto di Kunstwollen (7), elaborato dallo storico dell’arte Erwin Panofsky (amico e collega del filosofo Cassirer); Kunstwollen, cioè il volere artistico vigente, il quale nasce dalla visione del mondo dell’epoca ed è assunto quale ispiratore di un periodo artistico (emblematico il titolo della sua opera più nota: La prospettiva come forma simbolica, che potrebbe riassumere l’intero Rinascimento). Kunstwollen, ovvero territorio in cui il daimon scorrazza e di cui approfitta; ne scopre i confini e, nel migliore dei casi, li viola oltrepassandoli verso nuovi orizzonti.
Un daimon, dunque, che stimola, ispira alla funzione/autore l’elaborazione dei materiali della realtà (empirica e “spirituale”) come spunto per dare nuova forma allo sconfinato mondo che il suo io cosciente intuisce ma non vede, per esprimerlo in potenti “falsificazioni”, formidabili macchine teatrali dell’immaginazione, “maschere” in grado di lavorare per “rendere visibili” quei significati su cui il pensiero umano si è da sempre arrovellato.
Intravediamo, dunque, un daimon che si esprime obliquamente, parla per immagini ed elabora finzioni; il suo non è un discorso razionalmente critico, il sogno potrebbe essere una sua specifica modalità di comunicazione.



Abbiamo appena accennato allo stimolante concetto di falsificazione nell’agire artistico; a tal riguardo, facciamo attenzione ai versi di Ferdinando Pessoa:
Il poeta è un fingitore./ Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente.”
Versi sibillini che mi hanno suscitato un’osservazione guardando la scultura delle Tre grazie di Antonio Canova. Questi ha dovuto fingere, nel marmo, la pressione delle dita sulla carne, per rappresentare un corpo più vero di quello reale. Noi, vedendo il cedere della carne sotto il tocco dei polpastrelli, immaginiamo una carne viva; la realtà più autentica, dunque, non può che essere rivelata nella finzione.
A proposito di finzione quale sostanza e artificio dell’opera estetica, si può pensare al teatro, che mette in scena la realtà; finge, cioè, un accadimento per rivelarne i meccanismi più segreti, basta pensare a Shakespeare; mentre la grande arte barocca della Controriforma dimostra, per esempio, nei suoi esiti migliori, nell’estrema finzione dei suoi scenari l’ineludibile contraddizione tra vita e morte. (Borromini e la figura della Merope in Parlare a Gwinda, di Claudia Azzola) Si può essere d’accordo con Nietzsche, quando dice: “Tutto ciò che è profondo ama la maschera”, e in essa si rivela, aggiungiamo noi.       
Il concetto di “finzione” richiama anche il distacco dell’artista dall’opera una volta compiuta, poiché egli sa, “sente” che è finzione; e il controllo finale sulla materia linguistica che, insieme al coinvolgimento emotivo e alla sorpresa per ciò che di nuovo e inedito appare - quei fogli scritti che la magica macchina di Philip Dick ha prodotto - denotano il fare artistico.
A proposito di ciò cui l’opera si riferisce, permetto di citarmi:
Io non dipingo ciò che vedo. Neppure ciò che penso, poiché il pensiero dovrebbe venire prima, (ma prima è qualcosa di molto diverso). Neanche ciò che so, o credo di sapere, perché quando dipingo comincio a sapere quello che sto dipingendo mentre lo faccio. Forse dipingo quello che vedrò, quello che penserò e saprò una volta finito il quadro.” (C.Z. Il servizio Mason’s)
René Magritte sa perfettamente che la pipa dipinta non è la pipa reale (infatti lo scrive: Ceci n’est pas une pipe!), ma neppure la pipa reale è il referente; il referente è l’enigmatica finzione del linguaggio pittorico.
Tra l’altro, neanche lo storico dell’arte Ernst Gombrich, in Arte e illusione (1957)(8) identifica come referente dell’opera artistica la realtà empirica quanto il linguaggio figurativo delle opere precedenti (il susseguirsi delle finzioni). Attenzione, questo riferirsi alla storia dell’arte non vuol dire negare il continuo corpo a corpo che l’artista ingaggia con il brutale apparire della realtà empirica, con la sua opaca quotidianità e le sue catastrofi.  
Paul Klee, infine, scrive che “L’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile” e “l’arte (…) si finge situazioni più ricche (…)”(9) poiché, aggiunge Merlau Ponty, esiste una “visibilità dell’invisibile”.


Una notazione. È forse questo invisibile (più ricco e complesso, ma in fermento incessante, tanto da costituire una costante e implicita critica del presente, dell’empirico quotidiano) a essere sgradito a tanta cosiddetta arte attuale? Forse perché l’invisibile è irrimediabilmente opposto alle categorie dell’omologazione?
Oggi, a mio parere, nella dispersione e molteplicità dei codici (figurativi, letterari, musicali, ecc.) funzionali al consenso globalizzato, alla narrazione si è sostituito l’aneddoto, l’episodio, la trovata eclatante. Non il linguaggio ma la lingua dei copy “da dépliant turistico (…) Anzi, stile da baccalà, così stirato, secco, essiccato” (come scrive Bargellini) oppure il balbettio, spesso supponente e fastidioso di una critica estenuata. A tal proposito, commenta Massimo Recalcati, oggi, nell’epoca cosiddetta postmoderna, alla natura verticale della sublimazione (che affonda nella storia e con gran travaglio la trasforma) si sostituisce quella orizzontale della desublimazione materialista. Non ci s’immerge più nella complessità della storia ma si celebra l’attimo decontestualizzato. Non si lavora più all’icona “alta” ma alla celebrazione della “bassa” materia del presente. L’opera deve coincidere con l’azione dell’artista, con la banalità luccicante della sua vita squadernata clamorosamente dai media. L’oggetto, l’opera, spariscono; prolifera l’incessante narrazione delle sue spiegazioni
Nella produzione dell’icona “alta”, lo scarto tra la finzione che rende visibile, e la pretesa mimesi del reale empirico, del puro visibile, nell’icona “bassa”, avviene nel linguaggio.
Per dare visibilità all’invisibile è necessaria una scrittura in grado di farsi carico della storia per affrontarla. Allo stesso modo, per avere una “macchina da scrivere magica, che scrive finzioni” essa deve poter rovistare entro un serbatoio linguistico (che qui chiamiamo per comodità madrelingua) pressoché illimitato che, tuttavia, permette un’elaborazione “forte”, coerente e complessa. Questo è il territorio dove il daimon dovrebbe scorrazzare con felice ebbrezza, rapinare i materiali più ricchi e farli propri.
Il linguaggio ha il compito di sovrapporsi alla realtà empirica (proprio in quanto è altro, estraneo rispetto ad essa); lavora nello scarto che da essa lo divide, “non ne dà nessuna spiegazione, anzi le rimanda il riflesso conferendole un senso” (Mariano Bargellini); cerca disperatamente di riempirlo; finge, nello spazio di tale scarto, altri mondi.
È un potente sistema di “simulazione” in cui è riflessa la concezione dei rapporti tra gli esseri e gli oggetti (10), che istituisce una dialettica tra ordine dato e sua violazione; trasgredisce un ordine (e un codice vigente) acquisito e consolidato, trasformando l’esistente e introiettando elementi inediti, estranei, perturbanti, “perversi” (Roland Barthes, nell’accezione di diverso dalla normalità, deviato rispetto al senso comune). Assorbe potenza dalle sue radici per diventare narrazione stratificata, verticale, densa e complessa. Nella storia si originano le grandi fratture, i rovesciamenti decisivi e liberatori, non al di fuori di essa.


Un’ulteriore e ultima riflessione feconda di stimoli è suscitata dall’intendere lo scarto come rifiuto. Rifiuto nel senso di cui parla W. Benjamin, vale a dire quello che il mondo vuole ignorare: il micrologico, l’insignificante, il marginale, il superfluo. Attenzione e conoscenza devono, oggi, rivolgersi soprattutto verso “ciò che è rimasto per via: ai prodotti di scarto e ai punti ciechi che sono sfuggiti alla dialettica della (storia); all’essenza del vinto, il quale appare “nella sua impotenza, inessenziale e ridicolo” (11) e, in quanto non riducibile alle logiche del globalizzazione neoliberista, pericoloso e da cancellare.
“L'arte è pura interrogazione, una domanda retorica senza la retorica” scrive Beckett negli anni ’30. Deve affermare l’indicibile, testimoniare l’enigma incessante su cui costantemente ci s’interroga. Quell’epifania che dilegua non appena si volge lo sguardo, ma di cui si ha una costante e segreta nostalgia.

                                                                                                                                                                                                                                         


  Note                                            
  1)  James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, (1997)
  2)  Giacomo Leopardi, Zib. 4252
  3)  Ibid. Zib. 4289
  4)  Franco Romanò, La bottiglia di Klein (pag.127/28), in Das unheimliche nella
        Letteratura - Costruzioni Psicoanalitiche  a. XIV  n. 27/2014
  5)  Philip K. Dick, L’esegesi, Fanucci Editore (2016)
  6)  Michel Foucault, «Che cos’è un autore?», in Scritti letterari, Feltrinelli, Saggi
        UE 2010. Il testo di Dick e quello di Foucault sono tratti dall’articolo  Autore…
        chi? di Giuliano Spagnul sul Blog di Daniele Barbieri La bottega del Barbieri,
        21.02.2017
  7)  Erwin Panofsky in La prospettiva come forma simbolica (1927) 
  8)  Ernst Gombrich, in Arte e illusione (1957)
  9)  Paul Klee, in Confessione creatrice, (1920)
10)  Jurji M. Lotman, La struttura del testo poetico, Mursia (1972)
11)  Theodor W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi (1954)