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domenica 10 dicembre 2017

COMACCHIO
di Angelo Gaccione


Non si dovrebbe mai caricare un luogo di troppe aspettative e forse ha ragione Proust, come scrive in Dalla parte di Swann, perché si rimane delusi “come coloro che partono in viaggio per vedere con i loro occhi una città desiderata e credono possibile provare nella realtà il fascino dell’immaginazione”. Forse non è possibile e la realtà finisce per deludere l’immaginazione. Gli è che a furia di dilazionare questo incontro, Comacchio aveva finito per sovraesporsi nella mia attesa e nella mia mente. Piccola Venezia, così la magnificavano le lodi che leggevo qua e là, ed invece, arrivandoci, mi sono reso conto di quanto possa mostrarsi deludente. Intendiamoci: non che Comacchio manchi di fascino e di bellezza. Forse è altrettanto vero che la visita di un luogo è condizionato anche dal nostro stato d’animo soggettivo, dall’umore del momento, e di sicuro ero molto indispettito dalla guida disinvolta e criminale dell’autista del pullman su strade trafficate e per nulla ben tenute, ma la mia immaginazione era enormemente suggestionata dalla Laguna, dalla Salina, dai fenicotteri e dalle altre specie acquatiche che affollano un’oasi naturalistica spettacolare, dalle brume che in autunno si addensano nelle Valli, e dunque essa, la mia immaginazione, era assetata di bellezza e di perfezione, perciò aveva creduto che questa piccola enclave distesa lungo il delta del Po e affacciata sull’Adriatico, avesse conservato perfetto ogni manufatto, ogni pietra, ogni muro. 


Che non vi fosse nulla di dissonante, di stridente, di contraddittorio con la sua storia e la sua vocazione. Che ogni angolo dovesse essere autentico, ogni scorcio curato e che i canali riflettessero nelle loro acque finestre infiorate e gentili, piante ben tenute, e che di “nuovo”, di “moderno”, non ci fossero, dopo la renovatio urbis, che i palazzi neoclassici e le chiese. Me l’aspettavo come il tipico villaggio di pescatori con le casette basse le une addossate alle altre, colorate e disposte lungo i canali, e che quasi nulla si elevasse oltre una certa misura, nulla di invasivo. Ed infatti se si supera il Trepponti e li si attraversa tutti: Ponte di San Pietro, Ponte dei Sisti, Ponte dei Geromiti, Ponte degli Sbirri, Ponte Borgo, Ponte Pasqualone, Ponte del Teatro, Ponte del Carmine, Ponte Pizzetti, volgendo gli occhi altrove per evitare le brutture del moderno che stride e guasta, gli edifici religiosi che si incontrano, pur costruiti fra il Sette e l’Ottocento, le dimore signorili o borghesi, hanno avuto cura di tenersi ad un livello di altezza accettabile. A base quadrata e su due livelli Palazzo Tura, su due piani il Palazzo Patrignani, contenuto in altezza il Palazzo Bellini che si allunga tra via Agatopisto e via Botteghe. Di volumetria più alta è forse solo il Palazzo Vescovile. La settecentesca cattedrale di San Cassiano in piazza XX Settembre è invece decisamente straripante; a fianco la Torre Campanaria, stranamente non addossata al Duomo, si presenta tozza e senza slancio: pare che un crollo verificatosi alla fine dei lavori, ne abbia ridotto saggiamente l’altezza.


Di interessante ai miei occhi la Loggia del Grano (seicentesca); la Torre Civica invece è stata rifatta nell’Ottocento per ricostruire quella trecentesca crollata nel 1816. Ma fondamentalmente gli angoli e l’atmosfera di alcuni scorci, la parte popolare con i caratteristici ingressi porticati che sbucano sorprendentemente al lato opposto e dove si scoprono altre abitazioni, volte, bassi, cortili e spesso piccoli giardini con fiori e piante e dove gli abitanti possono sedersi, mangiare non visti dall’esterno, nel silenzio più completo e in piena intimità. Questa è la parte più affascinante, assieme ad alcune casette ben tenute che seguono l’ondulato andamento dei canali, e a piccoli gioielli come l’antica Pescheria nella piazzetta omonima. Entrare in questi stretti tunnel abitativi e trovarsi in improvvisi spazi che non ti aspetti, è una vera sorpresa. Sono abitazioni piuttosto basse e raramente superano il livello di un piano. Ho percorso le vie Mercanti e Rinascita ed il corso Mazzini per vederle quasi tutte. Sono arrivato fino alla punta estrema dove la chiesa di Santa Maria in Aula Regia chiude il piazzale Padre Cassiano.


Non è una chiesa particolarmente bella; non so perché non l’abbiano chiamata Madonna del Popolo, visto che a questa devozione è consacrata. Bello invece, ma tenuto molto male, è il suo seicentesco colonnato coperto, formato, se ho contato bene, da 142 arcate. Ha una fuga prospettica magnifica questo colonnato e le arcate vi conducono fino alla chiesa protetti dall’acqua se piove, e dalla luce intensa del sole che picchiava feroce quando vi sono approdato io. Il gioco di luce ed ombra che il porticato rimanda, è molto suggestivo, come posso vedere dalle varie foto che abbiamo scattate.
Alla Manifattura dei Marinati sono approdato per ultimo. È a ridosso del porticato e vi si accede da una sua apertura. È la classica struttura industriale dotata di 12 ciminiere a mattoni, dove avveniva la salagione e la marinatura dei pesci della Laguna e in particolare delle anguille per cui Comacchio è famosa. Visitarla è un’esperienza unica; vi suggerisco anche di salire al piano di sopra  dove proiettano dei filmati d’epoca in bianco e nero sulla pesca, la marinatura, la conservazione di questo versatile prodotto perché vi mostra tutta la fatica, la solidarietà, il sostegno reciproco, la collaborazione che questa pratica richiede, e di quanta ferocia e poesia, ad un tempo, vi è racchiusa.   

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