Pagine

giovedì 21 dicembre 2017

22 DICEMBRE 1947, SETTANT’ANNI FA:
L’ASSEMBLEA COSTITUENTE VOTA
LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA
di Franco Astengo


22 dicembre 1947: l’Assemblea Costituente approva il testo della Costituzione Repubblicana con 453 voti favorevoli e 62 contrari, dopo 170 sedute di discussione. Il 27 dicembre la Costituzione sarà firmata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola che assumerà il titolo di Presidente della Repubblica, dal presidente dell’Assemblea Costituente Umberto Terracini, dal Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e dal Guardasigilli Giuseppe Grasso. Il testo entrerà in vigore il 1 gennaio 1948 al momento della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Una data da ricordare con grande evidenza in particolare in questa fase storica, dopo che il voto popolare – 4 dicembre 2016 – ha respinto un tentativo di modifica in senso autoritario di alcune norme fondamentali e – a distanza appunto di settant’anni – abbiamo ancora parti del dettato costituzionale non applicate oppure solo parzialmente attuate. Non solo: abbiamo già verificato modifiche in senso negativo come quella riguardante l’articolo 81 con l’inserimento dell’obbligo del pareggio di bilancio o la pasticciata “deforma”, votata nel 2001, del titolo V riguardante il rapporto tra lo Stato e le Autonomie Locali. Vale la pena allora ritornare sia pure schematicamente su alcuni punti di riflessione sviluppati attorno al testo della nostra Carta fondamentale.


La Costituzione democratica e la trasformazione dello Stato
La Costituzione Repubblicana è stata scritta, com’è noto, mentre andava rompendosi la solidarietà antifascista e i conflitti crescevano d’intensità su tutti i terreni, schierando le forze politiche e sociali in due campi contrapposti sul piano nazionale e internazionale.
In quel frangente verificatosi all’indomani di una delle più grandi tragedie della storia, le forze politiche rappresentative della società italiana presenti nell’Assemblea Costituente scelsero la strada di ricercare un intento comune definendo l’obiettivo del rinnovamento dello Stato, in linea con l’esito elettorale del 2 giugno 1946, allorché cittadine (ammesse per la prima volta al voto) e cittadini avevano scelto la Repubblica. Il dato di novità più importante, registratosi subito all’avvio del lavoro nuovo consesso ed espressosi anche nella composizione stessa della Commissione dei 75 incaricati di redigere materialmente il nuovo testo costituzionale che avrebbe sostituito lo Statuto Albertino, fu rappresentato dal ruolo dei partiti che si presentavano subito come protagonisti di una scena politica profondamente trasformata rispetto al passato. Nella dialettica tra continuità e mutamento che ha segnato gli anni della formazione dell’Italia Democratica, la Costituzione repubblicana ha rappresentato un elemento essenziale attorno al quale si raccolsero gli altri due momenti fondanti del nuovo periodo della storia italiana: la lotta di resistenza antifascista e la battaglia per la repubblica. La Carta Costituzionale, è bene precisarlo subito, è stata anzitutto il risultato politico dell’intesa tra i tre grandi partiti di massa, la DC, il Pci e il Psi, che su questo terreno riuscirono a intendersi meglio e procedere in un accordo ben maggiore di quanto non fosse riuscito loro a livello di governo e di confronto politico e ideologico. Il punto d’incontro fu rappresentato, ed è bene rilevarlo proprio in quest’occasione, dalla concordanza sui principi fondamentali dello Stato repubblicano, ben più articolati e innovativi di quelli posti a fondamento dello Stato liberale. Lo stato liberale era espressione di una società semplice, non ancora distinta per interessi e partiti organizzati, rappresentata da un ceto politico omogeneo di estrazione largamente proprietaria – borghese: ecco, al di là del proprietario – borghese, ma sotto l’aspetto di un “ceto politico omogeneo” questo è il punto di arretramento al quale intendono portarci adesso i fautori della personalizzazione (primarie e collegi uninominali, presidenzialismo) e della governabilità. 


Piero Calamandrei

Torniamo però al modello di Costituzione scaturita dall’accordo tra i partiti di massa, nell’intento di superare – appunto – la concezione dello Stato liberale nella sostanza, come “Stato – amministrativo”, nell’avversione verso il principio politico di segno democratico della sovranità popolare. Nella Costituzione repubblicana del ’48 si era affermata, invece, la funzione centrale dei partiti politici, come strumento per l’esercizio della sovranità del popolo, e non più solo dello Stato come amministratore. La assegnazione ai partiti di un rango di livello costituzionale attraverso l’articolo 49 (mai completamente applicato, peraltro) ha significato, in sostanza, la scelta di una Repubblica parlamentare come forma di Stato. Dal concetto di Repubblica parlamentare derivano: la centralità dei consessi elettivi, la limitazione del ruolo del governo, il rifiuto del presidenzialismo. Tutti elementi distintivi che è necessario difendere ancor oggi.  La modifica del sistema elettorale in senso maggioritario, avvenuta nel 1993, l’esasperazione del concetto di personalizzazione della politica hanno messo in discussione questi principi fondativi. In particolare l’affermazione del concetto di personalizzazione della politica (fittiziamente contrabbandato anche nelle elettorali attraverso l’imposizione della designazione – con tanto di indicazione nella scheda – del “Capo della Coalizione” e adesso del “Capo della Forza Politica”).


A questo si è pericolosamente modificata la stessa natura della soggettività politica (già alterata dal mutamento profondo nei meccanismi di comunicazione) al punto da veder affermato il concetto di “partito Personale”.
In questo modo è venuta, via via affermandosi una trasformazione nel senso di una sostanziale riduzione nei margini di agibilità democratica, in nome del primato del liberismo economico, del taglio di un presunto eccesso di domanda sociale, di sostanziale riduzione nel rapporto tra politica e società, di affermazione di una “autonomia del politico” fondata su di una separatezza basata su veri e propri privilegi di casta. Al momento della costruzione della Costituzione Repubblicana si era affermato invece il passaggio dallo Stato liberale – borghese (quello cui oggi si tende a voler definitivamente tornare), che non interveniva nella direzione dell’economia e nella regolazione della società e stentava a riconoscere l’organizzazione dei partiti, allo Stato pluriclasse, allo Stato sociale che trovava un momento di realizzazione per quanto parziale e contraddittoria proprio nella tutela costituzionale assicurata ai diritti politici e sociali dei cittadini, visti come persone dotate di autonomia di fronte allo Stato e unite da vincoli di socialità e solidarietà. Su questo terreno dei principi fondamentali, del riconoscimento costituzionale dei diritti sociali, della funzione centrale dei partiti nella democrazia repubblicana si era determinata un sostanziale convergenza tra i grandi partiti di massa che erano stati protagonisti della Resistenza. Le espressioni del solidarismo, nelle diverse accezioni cristiana e marxista, rappresentarono il cemento più forte che contribuì a saldare l’intesa costituzionale fra i maggiori partiti e ne rappresentò la base comune per l’inserimento nel testo della Carta fondamentale delle norme a carattere programmatico e dei diritti sociali. Ma l’accordo tra i partiti di massa, realizzato appunto sui principi fondamentali e sulla centralità dei partiti nel nuovo sistema democratico, si rivelò molto più faticoso da conseguire quando si trattò di definire le forme di organizzazione dello Stato.


Calamandrei scrisse : “il problema dell’organizzazione dei poteri è quello delle forze che governano i meccanismi del potere non sono due problemi distinti: sono tutt’uno e solo un approccio che li affronti assieme appare storicamente corretto e utile”.
Questo approccio “corretto e utile” si affermò solo parzialmente e fu alla base dei ritardi, dei difetti, della sostanziale incompletezza nell’applicazione del dettato costituzionale, nel corso degli anni di tutto il dopoguerra fino alla crisi della “infinita transizione” di fine secolo che si protrae ancora oggi. Una infinita transizione che pare proprio aver virato di bordo verso l’idea di un vero e proprio ritorno all’indietro, a rapporti politici e sociali di stampo ottocentesco, sia pure mascherati dalle esigenze dell’apparire imposte da novità tecnologiche incentrate quasi esclusivamente sull’indirizzo del formare una “società dell’immagine” le cui espressioni di dominio sarebbero ormai affidate soltanto all’economia e alla tecnica.
“Società dell’immagine” governabile quindi soltanto da una sorta di neo-notabilato, un ceto nel quale l’intreccio dovrebbe realizzarsi tra “autonomia del politico” e “autonomia del tecnologico”: intreccio posto al di fuori da qualsiasi possibilità di intervento e controllo sociale. Con le elezioni ridotte a ratifica della “governabilità”.
La discussione alla Costituente sul tema dell’organizzazione dello Stato era stata avviata nel Marzo del 1947, quando al governo c’era ancora la coalizione tripartitica, e si concluse alla fine di quell’anno quando appariva definito, dopo il Piano Marshall e il Cominform, un sistema mondiale di tipo bipolare. La Costituzione Italiana, votata il 22 dicembre 1947 e promulgata il 1 gennaio 1948, vide la luce quando era già profondamente mutato il quadro politico e sociale su cui era stata fondata. Si verificò così il fenomeno cui si è già accennato poc’anzi: lo Stato nuovo, che doveva nascere dall’attuazione di quell’innovativo dettato costituzionale, fu bloccato dal prevalere dello scontro politico e sociale tra le forze che si erano unite nel progetto di costruire una democrazia sociale avanzata dentro un’adeguata cornice istituzionale, che avrebbe dovuto segnare una rottura con il precedente ordinamento statale. Così non avvenne, se non parzialmente e rimase la necessità di realizzare una effettiva corrispondenza tra le forme istituzionali del potere e forze e rapporti sociali: corrispondenza dalla quale realizzare un effettivo indirizzo politico.


Da quel varco sono passati, nel corso di questa lunga crisi politica e morale, i fautori di una sorta di “Grande Riforma” i cui termini negativi sono già stati ampiamente descritti .
”Grande riforma” di stampo presidenzialista che persiste nelle intenzioni di una sorta di “coalizione dominante” nonostante il risultato elettorale del referendum 2016 allorquando l’idea della verticalizzazione del potere si scontrò, perdendo, con l’orizzontalità della complessa dimensione sociale. L’idea presidenzialista intesa come accentramento della gestione del potere sta ancora nelle aspirazioni e nei disegni di settori consistenti dell’establishment e delle lobbie tecnocratiche: l’idea, cioè, dello Stato esclusivamente “amministratore”.
Dobbiamo riprendere, quale insegna di una battaglia democratica, quanto i partiti della sinistra espressero nella fase Costituente : l’idea, cioè, di una repubblica fondata sulle Camere (e quindi sulla rappresentanza politica) intese come suprema espressione della volontà popolare e non certo su di un governo espressione di “lobbies” più o meno occulte come ci è capitato di subire nel corso degli ultimi anni, vissuti sempre, sotto questo aspetto, “border line” rispetto alla legalità repubblicana. Una situazione che ha dato spazio prima alla cosiddetta antipolitica , poi addirittura della “inpolitica” ossia di assenza di politica testimoniata dal calo verticale della partecipazione, non soltanto elettorale. A settant’anni di distanza è ancora necessario continuare a battersi per la Repubblica del “Parlamento come specchio del Paese” contro la torbida idea della “Rinascita Nazionale” portata avanti dagli epigoni della P2 di Licio Gelli.



lunedì 18 dicembre 2017

MONARCHIA
di Franco Astengo

Torrna il Savojardo in spregio a qualunque doverosa informazione nei confronti della Nazione e di qualsivoglia dibattito pubblico; del silenzio di un capo di Stato che è divenuto l’ombra inutile di se stesso, e di un Partito democratico sempre più disgustosamente di destra (A.G.)



Non è questione dell’utilizzo di un volo militare o di altri aspetti di mera opportunità: il rientro delle salme dei rappresentanti di casa Savoja in Italia (cui seguirà l’inevitabile polemica riguardante la traslazione al Pantheon: tanto per aggiungere confusione a confusione) costituisce un ulteriore passaggio della “damnatio memorie” in atto rispetto ai valori costitutivi della democrazia repubblicana e della storia del nostro Paese.
Qualcuno oggi ha elencato i tre punti sui quali casa Savoja e in particolare Vittorio Emanuele III si sono resi protagonisti del disastro del fascismo, della guerra, delle leggi razziali: non aver tolto l’incarico a Mussolini dopo il delitto Matteotti; aver provocato l’8 settembre; aver firmato le leggi razziali. A voler essere precisi ci sarebbe da aggiungere l’aver fatto entrare in guerra l’Italia il 24 maggio 1915 senza un voto del Parlamento (650.000 morti e un milione di feriti); il comportamento lungo tutto il ventennio di dittatura in piena regola (si sta tentando di contestare anche il concetto stesso di fascismo come regime dittatoriale); l’ingresso nella seconda guerra mondiale; l’aver consentito la modifica dello Statuto in punti essenziali come quello dell’elevazione di un organo di partito (il Gran Consiglio) a organo costituzionale e l’abolizione della Camera dei deputati. Anche così però si sono soltanto precisati alcuni aspetti senza toccare il dato di fondo: ben oltre la “pietas” da esercitarsi nella normalità di questi casi, il punto è quello dell’ennesimo sfregio che viene inferto alla storia della democrazia repubblicana e alla memoria della fase decisiva di costruzione della nostra democrazia.
Nella formalità non è avvenuto nulla in violazione della Costituzione.
Invece nella profondità dell’espressione dei valori comuni che hanno costruito la Repubblica siamo davanti ad un’insopportabile sottrazione di identità della nostra memoria storica.
PREMIO NOBEL AL MOVIMENTO INTERNAZIONALE
CHE DA ANNI SI BATTE PER L’ABOLIZIONE DELLE ARMI NUCLEARI
di Beatrice Fihn


Beatrice Fihn

domenica 10 dicembre 2017, ICAN ha ricevuto il Premio Nobel per la pace per il suo lavoro, volto a raggiungere un trattato di proibizione delle armi nucleari. Beatrice Fihn, direttore esecutivo del network, ha esposto metà della conferenza del Nobel.

Vostre maestà, membri del Comitato Nobel norvegese, stimati ospiti,
oggi è un grande onore accettare il Premio Nobel per la Pace 2017 a nome delle migliaia di persone ispiratrici che hanno preso parte alla Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari (ICAN). Insieme abbiamo portato la democrazia al disarmo e stiamo ridando forma alla legge internazionale. Più di tutti ringraziamo umilmente il Comitato Nobel Norvegese per aver riconosciuto il nostro lavoro e aver dato impulso alla nostra cruciale causa. Vogliamo dare riconoscimento a coloro che hanno donato così generosamente a questa campagna il loro tempo e le loro energie. Vogliamo ringraziare i coraggiosi ministri degli esteri, i diplomatici, la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa, i funzionari delle Nazioni Unite, gli accademici e gli esperti con i quali abbiamo collaborato per avanzare nel nostro obiettivo comune. E ringraziamo tutti coloro che si impegnano per debellare dal mondo questa terribile minaccia. In dozzine di luoghi intorno al mondo – dentro silos con missili sepolti nella nostra terra, su sottomarini che navigano attraverso i nostri oceani, e a bordo di aerei che volano in alto nei nostri cieli – si trovano 15.000 oggetti di distruzione dell’umanità. Forse è l’enormità di questo fatto, forse è l’inimmaginabile scala delle conseguenze, che porta molti semplicemente ad accettare questa truce realtà, a continuare con le proprie vite quotidiane senza pensare ai folli strumenti che ci circondano.


Perché è follia permettere a noi stessi di essere governati da queste armi. Molti dei critici di questo movimento insinuano che siamo noi quelli irrazionali, gli idealisti senza criterio di realtà. Quegli stati dotati di armi nucleari non molleranno mai le loro armi.
Ma noi rappresentiamo la sola scelta razionale. Rappresentiamo quelli che rifiutano di accettare le armi nucleari come ospiti fissi del nostro mondo, quelli che rifiutano di tenere il proprio destino legato a poche righe di un codice di lancio. La nostra è la sola realtà possibile. L’alternativa è impensabile. La storia delle armi nucleari avrà una fine, e dipende da noi quale sarà questa fine. Sarà la fine delle armi nucleari, o sarà la nostra fine? Una di queste cose accadrà. L’unica via di azione razionale è quella di smettere di vivere nella condizione per cui la nostra distruzione reciproca dipende da un mero capriccio impulsivo.
Oggi io voglio parlare di tre cose: paura, libertà e futuro. Per ammissione di coloro stessi che le posseggono, la reale utilità delle armi nucleari sta nella loro abilità nel provocare paura. Quando fanno riferimento al loro effetto “deterrente”, i sostenitori delle armi nucleari celebrano la paura come arma di guerra. Si gonfiano il petto dichiarandosi pronti a sterminare, in un lampo, innumerevoli migliaia di vite umane.


Il Premio Nobel William Faulkner, accettando il suo premio nel 1950, disse: “Rimane solo la questione di quando mi faranno saltare in aria”. Ma da allora, questa paura universale ha lasciato il posto a qualcosa di ancora più pericoloso: la negazione. Andata è la paura dell’Armageddon in un istante, andato è l’equilibrio tra due blocchi che è stato utilizzato come giustificazione per la deterrenza, andati sono i rifugi dalle piogge radioattive. Ma una cosa rimane: le migliaia e migliaia di testate nucleari che ci hanno riempiti di questa paura.
Il rischio per l’ uso delle armi nucleari è oggi anche maggiore che alla fine della guerra fredda. Ma a differenza della guerra fredda, oggi ci troviamo di fronte a molti più stati dotati di armi nucleari, a terroristi e a guerre cibernetiche. Tutto questo ci rende meno sicuri.
Imparare a vivere con la cieca accettazione di queste armi è stato il nostro grande errore seguente. La paura è razionale. La minaccia è reale. Abbiamo evitato la guerra nucleare non grazie a una prudente leadership, ma per pura fortuna. Prima o poi, se non agiamo, la nostra fortuna si esaurirà. Un momento di panico o di disattenzione, un commento frainteso o un ego ferito, potrebbero facilmente condurci all’inevitabile distruzione di intere città. Un’escalation militare calcolata potrebbe portare all’assassinio indiscriminato di massa di civili. Se si utilizzasse solo una piccola parte delle armi nucleari odierne, fumo e fuliggine delle tempeste di fuoco si depositerebbero in alto nell’ atmosfera – raffreddando, oscurando e prosciugando la superficie terrestre per oltre un decennio. Eliminerebbero le colture alimentari, mettendo a rischio per fame miliardi di persone. Eppure continuiamo a vivere nella negazione di questa minaccia esistenziale. Ma Faulkner nel suo discorso al Nobel ha anche lanciato una sfida a coloro che sono venuti dopo di lui. Solo in quanto voce dell’ umanità, ha detto, possiamo sconfiggere la paura, possiamo aiutare l’umanità a resistere. Il compito di ICAN è di essere quella voce. La voce dell’umanità e delle leggi umanitarie; far sentire la propria voce per conto dei civili. Dare voce a quella prospettiva umanitaria è il modo in cui creeremo la fine della paura, la fine della negazione. E in definitiva, la fine delle armi nucleari. Questo mi porta al secondo punto: la libertà.


Come hanno affermato su questo palco, nel 1985, i Medici Internazionali per la Prevenzione della guerra nucleare, la prima organizzazione in assoluto contro le armi nucleari a vincere questo premio: “Noi medici dichiariamo l’indignazione del tenere in ostaggio il mondo intero. Protestiamo per l’oscenità morale in base alla quale ognuno di noi è continuamente minacciato dall’estinzione”. Queste parole suonano ancora vere oggi,  nel 2017.
Dobbiamo rivendicare la libertà di non vivere la nostra vita come ostaggi dell’imminente annientamento. Gli uomini – non le donne! – hanno creato le armi nucleari per controllare altri, ma invece siamo noi ad essere controllati da queste. Ci hanno fatto false promesse: che rendendo così impensabili le conseguenze dell’uso di queste armi, qualsiasi conflitto sarebbe risultato inattuabile; che ci avrebbe liberati dalla guerra. Ma, lungi dall’impedire la guerra, queste armi ci hanno portato più volte sull’orlo del conflitto durante tutta la guerra fredda. E in questo secolo, queste armi continuano ad avvicinarci alla guerra e al conflitto. In Iraq, Iran, Kashmir, Corea del Nord. La loro esistenza spinge altri a unirsi alla corsa nucleare. Non ci tengono al sicuro, causano conflitti. Come lo stesso premio Nobel per la pace, Martin Luther King Jr, le ha definite da questo palco nel 1964, queste armi sono “sia genocide che suicide”.
Sono la pistola del folle puntata permanentemente alla nostra tempia. Queste armi avrebbero dovuto tenerci liberi, ma ci negano le nostre libertà. È un affronto alla democrazia essere governati da queste armi. Ma sono solo armi. Sono solo strumenti. Così come sono state create dal contesto geopolitico, possono essere distrutte altrettanto facilmente collocandole in un contesto umanitario.


Questo è il compito che ICAN si è prefissata – e il terzo punto di cui vorrei parlare, il futuro. Oggi ho l’onore di condividere questo palco con Setsuko Thurlow, che ha scelto come proposito della sua vita quello di portare il testimone dell’orrore della guerra nucleare. Lei e gli hibakusha all’inizio della storia erano lì, e la nostra sfida collettiva è di assicurarci che siano testimoni anche della sua fine. Loro rivivono quel doloroso passato, ancora e ancora, perché noi possiamo creare un futuro migliore. Ci sono centinaia di organizzazioni che insieme, come ICAN, stanno compiendo grandi passi avanti verso quel futuro. Ci sono migliaia di instancabili attivisti che ogni giorno, in tutto il mondo, lavorano per raccogliere questa sfida. Ci sono milioni di persone in tutto il mondo che si sono alzate in piedi, spalla a spalla con quegli attivisti, per mostrare ad altre centinaia di milioni che un futuro diverso è davvero possibile. Chi afferma che quel futuro non è possibile deve togliersi dal cammino di coloro che lo rendono una realtà. Come culmine di questo sforzo popolare, attraverso l’azione della gente comune, quest’anno l’ipotetico è avanzato verso il reale con 122 nazioni che hanno negoziato e concluso un trattato ONU per proibire queste armi di distruzione di massa. Il Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari rappresenta il sentiero da seguire in un momento di grande crisi globale. È una luce in un periodo di buio. E,  più ancora, ci dà una scelta. Una scelta tra due finali: la fine delle armi nucleari o la nostra fine. Non è ingenuo credere nella prima possibilità. Non è irrazionale pensare che gli stati nucleari possano disarmarsi. Non è idealistico credere nella vita che supera la paura e la distruzione; è una necessità. Siamo tutti di fronte a questa scelta. E faccio appello a tutte le nazioni perché aderiscano al Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari.




Stati Uniti, scegliete la libertà piuttosto che la paura.
Russia, scegliete il disarmo piuttosto che la distruzione.
Gran Bretagna, scegliete la regola della legge piuttosto che l’oppressione.
Francia, scegliete i diritti umani piuttosto che il terrore.
Cina, scegliete la ragione piuttosto che l’irrazionalità.
India, scegliete il senso piuttosto che il nonsenso.
Pakistan, scegliete la logica piuttosto che l’Armageddon.
Israele, scegliete il senso comune piuttosto che l’annientamento.
Corea del Nord, scegliete la saggezza piuttosto che la rovina.
Alle nazioni che credono di essere al riparo sotto l’ombrello delle armi nucleari, sarete complici della vostra stessa distruzione e della distruzione di altri in vostro nome?
A tutte le nazioni: scegliete la fine delle armi nucleari piuttosto che la nostra fine!
Questa è la scelta che il Trattato di Proibizione delle armi nucleari rappresenta. Unitevi a questo Trattato. Noi cittadini viviamo sotto l’ombrello delle menzogne. Queste armi non ci tengono al sicuro, stanno contaminando la nostra terra e la nostra acqua, avvelenando i nostri corpi e tenendo in ostaggio il nostro diritto alla vita. A tutti i cittadini del mondo: state con noi e chiedete ai vostri governi di schierarsi con l’umanità e di firmare questo trattato. Non ci fermeremo fino a quando tutti gli Stati non avranno aderito, dalla parte della ragione.



Oggi nessuna nazione si vanta di essere uno Stato dotato di armi chimiche. Nessuna nazione sostiene che sia accettabile, in circostanze estreme, usare il gas nervino Sarin. Nessuna nazione proclama il diritto di scatenare sul suo nemico la peste o la polio. Questo perché sono state stabilite norme internazionali, le percezioni sono cambiate. E ora, alla fine, abbiamo un’inequivocabile norma contro le armi nucleari. Enormi passi avanti non cominciano mai con un accordo universale. Con ogni nuovo firmatario e con il passare degli anni, questa nuova realtà prenderà piede. Questa è la via da seguire. C’è un solo modo per impedire l’uso di armi nucleari: proibirle ed eliminarle. Le armi nucleari, come le armi chimiche, le armi biologiche, le munizioni a grappolo e le mine antiuomo, ora sono illegali. La loro esistenza è immorale. La loro abolizione è nelle nostre mani. La fine è inevitabile. Ma questa fine sarà la fine delle armi nucleari o la nostra fine? Dobbiamo sceglierne una. Siamo un movimento per la razionalità. Per la democrazia. Per la libertà dalla paura. Siamo attivisti di 468 organizzazioni che lavorano per salvaguardare il futuro, e rappresentiamo la maggioranza morale: i miliardi di persone che scelgono la vita anziché la morte, che insieme vedranno la fine delle armi nucleari. Grazie.
[Traduzione dall’inglese di Matilde Mirabella]



COLLETTE, SOLIDARIETA’ OPERAIA, MUTUALISMO,
LOTTA DI CLASSE
di Franco Astengo

La sopravvissuta piccola parte di lavoratrici e lavoratori occupati nella residua industria savonese, falcidiata negli ultimi decenni dalla tragedia delle dismissioni e dei fallimenti più o meno “perfetti”, ha vissuto nella scorsa settimana episodi che possono ben essere definiti d’altri tempi: le maestranze di Mondomarine hanno occupato il cantiere, quelle della Piaggio hanno invaso la Città con un combattivo corteo. A questo quadro che può essere ben definito come “di lotta” si è aggiunto lo sciopero dei lavoratori portuali, categoria considerata un tempo quale nerbo vitale della classe operaia savonese.
Il pensiero è così tornato, per un attimo, agli anni’50, all’ILVA dai 3.500 donne e uomini impiegati nella siderurgia, alla lotta da essi sviluppata tra il ’49 e il ’55 per difendere (vanamente) l’integrità dell’impianto o alla Scarpa e Magnano, anche in questo caso tra gli anni’50 e l’inizio dei ’60 e a tante altre occasioni di tante e tante altre aziende e opifici, Balbontin, Fialette, ACNA di Cengio in eterna lotta tra ambiente e lavoro. Fino alla forma estrema dello sciopero della fame organizzato dagli operai della Fornicoke a metà degli anni’80. La Città, nel verificarsi di quei drammatici eventi di lotta, fornì sempre il massimo di solidarietà da parte di tutti i suoi ceti sociali; furono trascorsi Natali in Fabbrica, organizzate tante occasioni per alleviare – sia pure parzialmente – i grandi disagi che toccavano alle famiglie in una Savona effettivamente “operaia” che oggi, come ci è capitato tante volte di scrivere, ha perduto la propria identità senza ritrovarne una minimamente alternativa.
Non è questo però il punto dell’intervento.


Torniamo ai giorni dell’occupazione dei cantieri di Mondomarine: una crisi dovuta una squallida storia di speculazione intrecciata addirittura – solo casualmente almeno in apparenza – alla lotta di potere per la presidenza del Monte dei Paschi di Siena.
Ebbene in quei giorni (mentre si scrive questo testo sembra sia stato raggiunto un accordo sindacale per un “affitto” di 6 mesi attraverso il quale si spera di allontanare, almeno provvisoriamente, lo spettro della chiusura) stante appunto l’occupazione il giovane consigliere comunale di Rifondazione Comunista propose di effettuare una “colletta cittadina” per sostenere materialmente l’impegno dei lavoratori e le difficoltà che ne sarebbero derivate per la vita quotidiana delle loro famiglie. Forse inconsapevolmente il giovane consigliere comunale proponeva , in sostanza, un vero e proprio “ritorno all’indietro”, com’ è purtroppo ormai nello spirito del tempo. Non si tratta, infatti, di ritornare ai già più volte citati anni’50 del XX secolo ma addirittura ancora più all’indietro , alla fase cioè del passaggio dall’associazionismo mutualistico interclassista alla scoperta della lotta di classe.
Non si tratta, da parte nostra, della ricerca di una capziosa distinzione tra un periodo e l’altro, ma piuttosto di una non semplice definizione della natura dello scontro sociale oggi come allora. Il tentativo, da parte nostra, è quello di recuperare indispensabili spezzoni di memoria della lotta del movimento operaio proprio per cercare di comprendere il punto di arretramento fin qui verificatosi nel corso dell’ultimo periodo.


La differenza con l’estesa solidarietà sociale che si dimostrava allora da parte delle categorie economiche, i commercianti (alle famiglie dei lavoratori in lotta era aperto il famoso “libretto”, nei negozi di generi alimentari: un conto aperto che poi sarebbe stato saldato al momento del rientro al lavoro), i semplici cittadini nel periodo degli anni’50, consisteva nella presenza alla direzione del movimento di lotta di un sindacato che si muoveva nel solco della concezione più alta della dimensione di classe.
È l’idea della dimensione di classe che oggi si è smarrito avendo il sindacato ormai perduto completamente questo filo rosso (salvo che nei sindacati di base alcuni dei quali però appaiono in difetto sul terreno della confederalità nascendo come “sindacati di categoria”) fin dall’epoca, almeno, della cosiddetta “concertazione”.
Torniamo allora alle origini, proprio allo scopo di recuperare la memoria.


Come si verificò il passaggio dal mutualismo alla resistenza e, di conseguenza, alla lotta di classe? Il passaggio dal mutualismo alla resistenza fu lungo e difficile, avvenne attraverso tappe intermedie, simboleggiato dal sorgere della società di “miglioramento”, ma più in generale attraverso una trasformazione interna delle prime associazioni operaie, che presero col tempo ad affiancarsi al mutualismo anche il miglioramento e la resistenza. Dopo l’abolizione delle corporazioni la Società di Mutuo Soccorso rappresentarono la prima forma dell’associazionismo operaio anche se non si poteva scorgere in esse un embrione dell’organizzazione di classe. In quel tipo di società scriveva Gnocchi Viani (“Il Partito Operaio Italiano 1882 – 1885”) “l’operaio non è che un infermo da sussidiare, un invalido da pensionare, un cadavere da trasportare al cimitero; tutt’al più un testatore che lascia un piccolo sussidio agli orfani e alle vedove. Non vi figura mai come persona  (uomo o donna) che vive e lavora, come persona che ha facoltà e forze da sviluppare, bisogni da soddisfare, diritti da rivendicare, come persona che insomma ha la dignità umana da tenere alta”. Non stiamo forse ritornando a quell’epoca?


Questa la domanda che ci si deve porre oggi, e sulla quale il movimento sindacale esistente dovrebbe riflettere attentamente : viviamo in tempi di precariato e di sfruttamento imperante a tutti i livelli nel mondo del lavoro (dai lavori più umili, come quelli assegnati ai migranti o a quelli “fintamente” manageriali: precariato e sfruttamento rappresentano il segno comune da riconoscere), di finanziarizzazione imperante, di utilizzo dell’innovazione tecnologica per sostituire arbitrariamente il lavoro vivo, di dilazione infinita e arbitraria nel pensionamento di lavoratrici e lavoratori anziani, di sottrazione concrete di diritti e di annullamento dello stato sociale. Stiamo di nuovo davvero all’epoca in cui scriveva Gnocchi Viani, o forse è il caso di intrecciare ancora l’idea della dignità del lavoro con la dimensione, drammaticamente concreta nell’attualità, della lotta di classe.



venerdì 15 dicembre 2017

SETSUKO THURLOW PREMIO NOBEL PER LA PACE
Discorso di ricezione del Premio Nobel per la Pace letto da Setsuko Thurlow,
sopravvissuta il 6 agosto 1945, quando era una bambina tredicenne,
alla bomba di Hiroshima.

Setsuko Thurlow

Vostra Maestà, illustri membri del Comitato Nobel norvegese, miei colleghi attivisti, qui e in tutto il mondo, signore e signori,
è un grande privilegio accettare questo premio, insieme a Beatrice, a nome di tutte le persone straordinarie che formano il movimento Ican. Ognuno di voi mi dà la grandissima speranza che possiamo - e lo faremo - porre fine all'era delle armi nucleari.
Parlo come membro della famiglia degli hibakusha - quelli di noi che, per una miracolosa casualità, sono sopravvissuti ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. Da oltre settant'anni lavoriamo per la totale abolizione delle armi nucleari.
Ci siamo alzati solidalmente con coloro che sono stati danneggiati dalla produzione e dalla sperimentazione di queste orribili armi in tutto il mondo. Persone provenienti da luoghi con nomi a lungo dimenticati, come Moruroa, Ekker, Semipalatinsk, Maralinga, Bikini. Persone le cui terre e i cui mari sono stati irradiati, i cui corpi sono stati usati per esperimenti, le cui culture sono state per sempre sconvolte. Non ci siamo accontentati di essere vittime. Ci siamo rifiutati di aspettare un'istantanea fine ardente o il lento avvelenamento del nostro mondo. Ci siamo rifiutati di sederci pigramente nel terrore perché le cosiddette grandi potenze ci hanno portato al passato crepuscolo nucleare e sconsideratamente vicini alla mezzanotte nucleare. Ci siamo alzati. Abbiamo condiviso le nostre storie di sopravvissuti. Abbiamo detto: l'umanità e le armi nucleari non possono coesistere. Oggi, voglio che voi sentiate in questa sala la presenza di tutti coloro che sono morti a Hiroshima e a Nagasaki. Voglio che voi sentiate, sopra e attorno a noi, una grande nuvola di un quarto di milione di anime. Ogni persona aveva un nome. Ogni persona era amata da qualcuno. Facciamo in modo che la loro morte non sia stata vana. Avevo solo 13 anni quando gli Stati Uniti hanno lanciato la prima bomba atomica sulla mia città, Hiroshima. Ricordo ancora vividamente quella mattina. Alle 8:15 ho visto un accecante flash bianco-bluastro dalla finestra. Ricordo di avere avuto la sensazione di galleggiare nell'aria. Mentre riacquistavo coscienza nel silenzio e nelle tenebre, mi sono ritrovata immobilizzata dalle macerie dell'edificio crollato. Ho cominciato a sentire le deboli grida dei miei compagni di classe: "Mamma, aiutami. Dio, aiutami".


Poi, improvvisamente, ho sentito delle mani toccarmi la spalla sinistra, e un uomo dire: "Non arrenderti! Continua a spingere! Sto cercando di liberarti. Vedi la luce che passa attraverso quell'apertura? Muoviti in quella direzione il più velocemente possibile". Appena sono strisciata fuori, le rovine hanno preso fuoco. La maggior parte dei miei compagni di classe sono morti bruciati vivi in quell'edificio. Ho visto tutto intorno a me una devastazione assoluta, inimmaginabile.
Processioni di figure spettrali che si trascinavano. Persone grottescamente ferite, sanguinanti, bruciate, annerite e gonfie. Pezzi dei loro corpi erano mancanti. Carne e pelle penzolavano dalle loro ossa. Alcuni avevano in mano i propri bulbi oculari. Qualcuno con il ventre esploso, aperto, con gli intestini che fuoriuscivano. Il disgustoso puzzo di carne umana bruciata riempiva l'aria. Così, con una bomba la mia amata città è stata cancellata. La maggior parte dei suoi abitanti erano civili che sono stati inceneriti, vaporizzati, carbonizzati - tra questi, membri della mia famiglia e 351 miei compagni di scuola.
Nelle settimane, nei mesi e negli anni successivi molte altre migliaia di persone sarebbero morte, spesso in modi arbitrari e misteriosi, a causa degli effetti a posteriori delle radiazioni. Ancora oggi le radiazioni uccidono i sopravvissuti.


Ogni volta che ricordo Hiroshima, la prima immagine che mi viene in mente è quella del mio nipotino di quattro anni, Eiji - il suo piccolo corpo trasformato in un irriconoscibile pezzo di carne fusa. Ha continuato a chiedere acqua con un filo di voce finché la morte non lo ha liberato dall'agonia. Per me, è diventato la rappresentazione di tutti i bambini innocenti del mondo, minacciati come sono, proprio in questo momento, dalle armi nucleari. Ogni secondo di ogni giorno, le armi nucleari mettono in pericolo tutti coloro che amiamo e tutto ciò che ci sta a cuore. Non dobbiamo più continuare a tollerare questa follia.
Attraverso la nostra agonia e alla lotta per la pura sopravvivenza - e per ricostruire la nostra vita dalle ceneri - noi hibakusha ci siamo convinti di dover mettere in guardia il mondo da queste armi apocalittiche. Ancora e ancora, abbiamo condiviso le nostre testimonianze.
Ma alcuni tuttavia rifiutavano di vedere Hiroshima e Nagasaki come delle atrocità - come crimini di guerra. Hanno accettato la propaganda secondo cui si trattava di "bombe buone" che avevano posto fine a una "guerra giusta". È stato questo mito che ha portato alla disastrosa corsa agli armamenti nucleari, una corsa che continua ancora oggi.
Nove nazioni minacciano ancora di incenerire intere città, di distruggere la vita sulla terra, di rendere il nostro bel mondo inabitabile per le generazioni future. Lo sviluppo delle armi nucleari non significa l'elevazione di un paese alla grandezza, ma la sua discesa alle profondità più oscure della depravazione. Queste armi non sono un male necessario; sono il male ultimo.
Il sette luglio di quest'anno sono stata travolta dalla gioia, quando la stragrande maggioranza delle nazioni del mondo ha votato a favore dell'adozione del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. Dopo essere stata testimone del peggio dell'umanità, quel giorno sono stata testimone del suo meglio. Noi hibakusha abbiamo aspettato il bando per settantadue anni. Che questo sia l'inizio della fine delle armi nucleari.

Setsuko Thurlow

Ogni leader responsabile firmerà questo trattato. E la storia giudicherà duramente coloro che lo respingeranno. Le loro astratte teorie non devono più mascherare la realtà genocida delle loro pratiche. Il "deterrente" non deve più essere considerato altro che un deterrente al disarmo. Non vivremo più sotto una nuvola di paura a forma di fungo.
Ai funzionari delle nazioni dotate di armi nucleari - e ai loro complici sotto il cosiddetto "ombrello nucleare" - dico questo: ascoltate la nostra testimonianza. Date retta al nostro avvertimento. E sappiate che le vostre azioni sono importanti. Ognuno di voi è parte integrante di un sistema di violenza che mette in pericolo il genere umano. Facciamo in modo di stare tutti all'erta sulla banalità del male.
A ogni presidente e primo ministro di ogni nazione del mondo, vi imploro: aderite a questo trattato; eliminate per sempre la minaccia dell'annientamento nucleare.
Quando ero una ragazzina di 13 anni, intrappolata nelle macerie, ho continuato a spingere. Ho continuato a muovermi verso la luce. E sono sopravvissuta. Ora la nostra luce è il trattato di divieto. A tutti in questa sala e a tutti quelli che nel mondo stanno ascoltando, ripeto quelle parole che ho sentito rivolgermi nelle rovine di Hiroshima: "Non mollate! Continuare a spingere! Vedete la luce? Muovetevi verso di essa".
Stasera, mentre marciamo per le strade di Oslo con le torce accese, seguiamoci l'un l'altro fuori dalla notte buia del terrore nucleare. Non importa quali ostacoli dobbiamo affrontare, continueremo a muoverci e continueremo a spingere e a condividere questa luce con altri. Questa è la nostra passione e il nostro impegno affinché il nostro prezioso unico mondo sopravviva.
[Traduzione dall'inglese di Matilde Mirabella]
LA RIVOLUZIONE ALGERINA
di Franco Astengo


“Il Manifesto” del 14 dicembre 2017 ospita un articolo di Neelam Srivastava nel quale si recensisce il volume La rivoluzione algerina e la liberazione dell’Africa, pubblicato da “Ombre Corte” a cura di Gabriele Proglio, tradotto dal francese da lui stesso e Antonella Mauri.
Il volume raccoglie una serie di scritti politici inediti di Frantz Fanon, che costituiscono una sezione di un testo più ampio di inediti dell’autore martinicano già uscito nel 2015 con La Découverte, Intitolato Ecrits sur l’aliénation et la liberté edito da Jean Khalfa e Robert Young.
L’opera pubblicata restituisce la dimensione del celebre autore de I dannati della Terra immerso nel vivo della lotta per l’indipendenza algerina: gli scritti raccolti in quest’occasione sono articoli non firmati che Fanon scrisse per l’organo del Fronte di Liberazione Nazionale Algerino “El moudjahid” e quindi destinati a diffondere la linea ufficiale dell’FLN a livello internazionale. Lungi dall’essere pezzi d’autore questi testi rivoluzionari si celano dunque dietro all’anonimato richiesto dal lavoro editoriale e si può ben immaginare come fossero, alla fine, frutto di intense discussioni motivate – come scrive Proglio nell’introduzione – dall’esigenza e dall’urgenza di rendere comprensibili e diffondibili la posizioni ufficiali del Fronte sui vari movimenti nazionali e internazionali.

Questo intervento però non è stato scritto per aggiungere un qualcosa alla recensione pubblicata da “Il Manifesto”: piuttosto si intende restituire un’idea del clima dell’epoca.
Di quanto, cioè, l’intero processo di decolonizzazione dell’Africa e la lotta per la liberazione dell’Algeria avessero influito nella costruzione di un’idea diversa dell’internazionalismo, rispetto a quanto si era sviluppato da questo punto di vista negli anni più duri della contrapposizione tra i blocchi. Può essere ancora utile ricordare come un’intera generazione leggesse con grande partecipazione la “Jeune Afrique” e le cronache dei quotidiani dedicate alla lotta di liberazione algerina. Quanto entusiasmo si raccogliesse nell’assistere al cinema al capolavoro di Gillo Pontecorvo La battaglia d’Algeri. Una cultura nuova ci appariva all’orizzonte e per un periodo ce ne facemmo pervadere intensamente.
Nel dopoguerra si avviò un processo di decolonizzazione che si estese dall'Asia all'Africa, dove nel 1960 ben sedici stati ottennero l'indipendenza, in alcune occasioni fu indolore, in altri casi costò numerose vittime.

Nel 1939, allo scoppio della guerra, ben un terzo della popolazione mondiale era sottomesso alle potenze coloniali e solo tre stati in Africa e tre in Asia erano indipendenti. La politica adottata nel governare questi paesi da parte delle grandi nazioni, era di tipo assolutistico con l'unico intento di depredare le terre di queste povere popolazioni senza riconoscere loro nessun diritto. Nell'Africa del nord e nel Medio Oriente, nel 1944, nasce la Lega araba, il cui obiettivo primario era l'indipendenza. In Algeria la lotta per l'indipendenza comportò le maggiori difficoltà, sia perché la Francia, memore dell'esperienza in Vietnam, adottò metodi di lotta anti - guerriglia più "efficaci", ricorrendo a rastrellamenti, trasferimenti di intere popolazioni e sistemi repressivi che non esclusero la tortura; sia perché il Fronte di liberazione nazionale non esitò a ricorrere a metodi cruenti di guerriglia urbana e al terrorismo. Nel resto dell'Africa la conquista dell'indipendenza è avvenuta più tardi e senza apparenti traumi immediati: circa quaranta stati lo ottennero tra il 1957 e il 1967; le regioni soggette al Portogallo vi giunsero dopo il 1974 in seguito alla "rivoluzione dei garofani" che ristabilì in quel paese la democrazia. 



Ma nell'Africa nera, a causa dell'assenza di una lingua e di una religione comune, il dominio occidentale era risultato più devastante che altrove, perché aveva esasperato le lotte tribali e aveva creato stati non corrispondenti alle realtà etniche e sociali. La fragilità delle istituzioni sorte dopo l'indipendenza e la corruzione dei governanti hanno perpetuato forme neocoloniali di subordinazione e sfruttamento che sono tuttora causa di guerra e miseria. Caso a sé è la decolonizzazione dei "regimi bianchi" in Rhodesia e Sudafrica, dove la politica antirazziale dell'Onu ha lentamente impegnato i bianchi a riconoscere i diritti civili alle popolazioni 'nere'. Artefice della lotta politica in Sudafrica fu l'African National Congress, il cui leader, Nelson Mandela, agli inizi degli anni novanta è stato eletto presidente dello stato. Questo il riassunto cronologico di quel processo storico di cui i giovani d’oggi dovrebbero possedere gli elementi di riflessione sufficienti per considerarne la fondamentale importanza, proprio nel momento in cui dall’Africa arrivano segnali di tragedie incombenti delle quali, in Occidente, viviamo soltanto riscontri marginali come quello relativo al flusso dei migranti. All’epoca in cui Fanon scrive i suoi testi per conto dell’FLN algerino quella vicenda epocale contribuì a rimettere in moto un movimento che prese coscienza della necessità di un internazionalismo di tipo nuovo: ciò avvenne anche e soprattutto “contro” le posizioni della sinistra europea, in particolare di quella francese, che non sostenne la causa dell’FLN ma piuttosto difese il diritto coloniale della Francia sul territorio algerino perché – scrive Fanon - “perché di sinistra e antifascisti a casa loro, alcuni francesi si ritengono in diritto di guidare gli altri popoli, di dare lezione di democrazia anche a colpi di bombe” (un fenomeno quest’ultimo dell’esportazione della democrazia a bordo dei carri armati che abbiamo visto ripetersi nei decenni più recenti).


In altre situazioni, meno coinvolte direttamente rispetto a quella francese, non si uscì, da parte della sinistra ufficiale, dalla gabbia del considerare il processo allora in corso in Africa (e in Asia) all’interno del quadro dato dalle relazioni internazionali poggiate sulla “guerra fredda” e quindi strumentalmente utili per una delle due parti che proclamava per sé la vocazione antimperialista, ancorché nel momento specifico fosse stata avviata una prima fase di cosiddetta “distensione”.
Si considerava, invece, da parte di chi sosteneva nella sinistra una posizione diversa come la “Rivoluzione Africana” fosse da intendersi come anti – imperialista al di là della provenienza dal punto di vista dei blocchi della logica imperialista e colonialista.
Alo stesso modo fu intesa la guerra del Viet Nam e lo schierarsi dalla parte dei vietcong e ancora così fu intesa la tensione antifascista rispetto ai colpi di stato militari che, in quel periodo, portarono a dittature di stampo fascista prima in Grecia (1967), poi in Cile (1973) e il prosieguo della lotta anti-franchista e antisalazarista.



E’ proprio questo il punto che s’intendeva ricordare nell’occasione, quello di intendere la “Rivoluzione Africana” e lo sviluppo del movimento anticoloniale come espressione di un nuovo tipo d’internazionalismo che metteva assieme quello proletario con quello della liberazione dei popoli. Si trovavano già, fin dagli ultimi anni ’50, prodromi importanti di quello che sarebbe stato il ’68 a livello internazionale (ne scrive Fabrizio Floris, proprio in calce all’articolo fin qui citato) raccontando anche la storia dei sessantottini italiani che si recarono in Africa per portare il loro impegno allo sviluppo di una diversa prospettiva di politica e di vita. In seguito le repliche della storia sono state durissime e stanno drammaticamente sotto i nostri occhi: ma rileggere quelle pagine e ricordare quella stagione ha ancora un senso non soltanto per la storia del ciò che è stato.
MILANO. LA GALLERIA VITTORIO EMANUELE
di Jacopo Gardella*


Quando si nomina la Galleria Vittorio Emanuele, progettata nell’anno 1865 dall’architetto Giuseppe Mengoni, tutti i milanesi la vedono come un percorso ricco di negozi, di ristoranti, di librerie; le immaginano come un ambiente animato, pieno di gente in frenetico movimento o ferma in tranquilla conversazione; la conoscono come un luogo frequentato per tutta la durata del giorno fino a tarda notte e attraversato da persone di tutte le età e da turisti di tutti i paesi.
Ciò tuttavia è vero ma non basta: il volto commerciale e sociale della Galleria è incontestabile ma non esaurisce l’intero suo valore. Vi è un altro aspetto meno immediatamente percepito e meno apprezzato eppure altrettanto importante e rimarchevole; ed è l’aspetto architettonico. La Galleria è un vero monumento di ingegneria edilizia, un capolavoro di carpenteria metallica, un esempio straordinario di struttura in ferro. La gente attraversa la Galleria ma raramente alza gli occhi per vedere la copertura in vetro che sta in alto; guarda le vetrine ma non osserva la elegante struttura trasparente che si eleva al di sopra. Al centro della Galleria nel punto di incontro dei suoi quattro bracci si innalza una ampia cupola vetrata la cui base è formata da un grande anello orizzontale sostenuto dai quattro archi che immettono nei quattro bracci disposti a croce. Tutta la struttura è semplice ed elegante, maestosa e leggera. 



L’esempio della carpenteria in ferro innalzata centocinquanta anni fa con grande maestria e profonda sapienza costruttiva avrebbe dovuto servire da insegnamento a chi recentemente ha progettato il caotico e confuso percorso metallico sovrapposto ai padiglioni della nuova Fiera di Rho.


Avrebbe anche dovuto servire da esempio a chi ha immaginato il modernissimo stadio olimpico di Pechino simile – come è stato notato – ad un gigantesco ed aggrovigliato nido di uccelli. Con questo edifico si è percorso a ritroso il plurisecolare e faticoso processo di emancipazione compiuto dalla specie umana: in un attimo si è retrocessi dalla intelligente creazione dell’uomo alla spontanea costruzione dei volatili. La limpida e secolare architettura concepita dalla nostra Ragione degenera, si avvilisce e si abbassa ad imitare il provvisorio rifugio generato dall’istinto animale.


Gli accurati dettagli costruttivi riscontrati nella Galleria non si limitano soltanto al suo interno ma compaiono anche all’esterno. Pochi passanti si accorgono della ingegnosa soluzione studiata dal progettista per risolvere il difficile innesto diagonale tra due assi urbanistici basilari: l’asse della Galleria che congiunge Piazza del Duomo con Piazza della Scala e l’asse di Piazza della Scala che congiunge Piazza Marino con la facciata del Teatro Lirico. I due assi non sono perpendicolari ma inclinati di 45°. Chi dal centro di Piazza della Scala guarda di fronte a sé il grande arco trionfale da cui inizia la Galleria, vede di scorcio sul fondo dell’arco due archi minori, simmetrici, arretrati e convergenti tra loro ad angolo retto. 


Di questi due archi uno introduce direttamente nella Galleria l’altro rimane chiuso e privo di sbocco. La chiusura tuttavia è risolta non con una piatta ed ottusa parete verticale ma con la elegante forma architettonica di una  nicchia semicircolare: dettaglio di geniale abilità compositiva per effetto del quale scompare la dissimmetria delle prospettive che si aprono dietro ai due archi minori.
                                                                  *** 
Gli accorgimenti progettuali riscontrati nella Galleria si estendono anche ai dintorni e diventano schemi di studiate ed attente composizioni urbanistiche: risultato di una pianificazione urbana ancora capace di imporsi precise regole compositive e di dare ordine e chiarezza agli spazi della città.
L’arco trionfale di uscita dalla Galleria verso il Duomo inquadra sul lato opposto della Piazza i due volumi uguali e simmetrici dell’Arengario e più lontano esattamente in mezzo a loro mette a fuoco il grattacielo di Piazza Diaz: una composizione sicuramente accademica e poco originale ma pur sempre composizione pensata e progettata con serietà.
L’arco trionfale di uscita della Galleria verso Piazza della Scala inquadra il monumento a Leonardo da Vinci; questo è pensato come punto di fuga e come meta prospettica che conclude il percorso proveniente da Piazza del Duomo.
In entrambi i casi si è pensato di collegare la Galleria con gli immediati dintorni cercando una sua stretta relazione con la città circostante.
                                                                                       ***
Dagli accorgimento sopra descritti si ricava una lezione di impegno e di serietà che gli ultimi complessi edilizi sorti a Milano hanno del tutto dimenticato. A City Life sul terreno liberatosi della Vecchia Fiera ed in mezzo agli stravaganti grattacieli costruiti di recente si riesce forse a leggere un comprensibile disegno di città? A Porta Garibaldi, di fronte alla Stazione ferroviaria e nella casuale e gratuita accozzaglia di giganteschi volumi vetrati, si indovina forse un piano urbanistico razionale e meditato? In Piazza Gae Aulenti, simile ad una gelida e asettica piattaforma spaziale, si percepisce forse la calda ed accogliente atmosfera delle nostre piazze tradizionali?
                                                                                      ***
Il centocinquantenario della monumentale e dignitosa Galleria dovrebbe indurci a meditare sulla progressiva e preoccupante decadenza della nostra architettura e della nostra urbanistica.
[*Architetto e urbanista]