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sabato 31 marzo 2018


Una doverosa rettifica
Manifesta 12: “Nulla a che fare con Cassata Drone”
di Antonio Mazzeo


 

A seguito della pubblicazione del mio articolo “La Cazzata Drone di Palermo Capitale della Cultura italiana”, l’Ufficio Stampa di Manifesta 12 ci ha indirizzato la seguente nota. “Teniamo a precisare che il progetto Cassata Drone di cui si fa riferimento nell’articolo da voi pubblicato, non fa in alcun modo parte del programma di Manifesta, non è infatti inserito tra i progetti collaterali selezionati, elencati qui: http://m12.manifesta.org/gli-eventi-collaterali-di-manifesta-12/?lang=it”.
Pubblichiamo la nota di rettifica-chiarimento, esprimendo il nostro sincero apprezzamento per il fatto che la demenziale iniziativa pro-droni di guerra, avviata ieri a Sigonella da una sedicente organizzazione “artistico-culturale” nulla abbia a che fare con il programma di Manifesta 12 che prenderà il via a Palermo il prossimo mese di giugno. Facciamo tuttavia presente che quanto da noi pubblicato è stato preso integralmente dai comunicati stampa emessi dagli organizzatori di “Cassata Drone” e che, in particolare, nella lettera inviata ai dirigenti scolastici della Provincia di Palermo per presentare il progetto (Oggetto: Workshop formativo “Cassata Drone, un segno nel paesaggio Siciliano contemporaneo”), si riporta che lo stesso è “un modulo formativo curato da Giovanni Rendina (curatore) e Gaetano Olmo Stuppia (art director), specificamente rivolto a giovani studenti del Comune di Palermo e della sua Provincia e che si configura come una mostra (16/08 – 20/09) ed evento collaterale dei più ampi eventi a Palermo e Provincia per il 2018: Palermo Città della Cultura Europea e Biennale Nomade di Arte Contemporanea Manifesta12 “Il Giardino Planetario. Coltivare la Coesistenza.” (http://m12.manifesta.org/manifesta-12-rivela-il-suo-progetto-curatoriale/) Cassata Drone e i suoi progetti territoriali sono supportati dall’associazione non-profit “Ars-Culture” con sede legale a Venezia e operativa sul territorio europeo”.
Anche a seguito dell’apprezzata nota di smentita di Manifesta 12, crediamo sia ancora più doveroso da parte delle istituzioni scolastiche palermitane il boicottaggio di un progetto che mistifica “cultura”, “patrimonio artistico” e “paesaggio”, legittimando il processo di trasformazione della Sicilia in terra “ideale” per l’uso dei droni di morte. Ringraziamo gli operatori di Manifesta 12 e ci auguriamo che l’appuntamento palermitano possa contribuire oltre alla difesa del reale patrimonio storico-artistico-culturale dell’Isola anche a denunciare concretamente i devastanti processi militari in atto.   

venerdì 30 marzo 2018


PALESTINA. CARRIARMATI E CECCHINI
di Patrizia Cecconi

La marcia per la terra

Il quarto esercito più potente del mondo, quello alle dipendenze del criminale ed osceno governo dello stato di Israele, senza un minino di pudore spara nel mucchio su bambini e ragazzini armati di pietre. La protervia di questa nazione è divenuta disgustosa agli occhi dei democratici di tutto il mondo. La solidarietà e la fraternità che abbiamo, e continuiamo ad avere, nei confronti del popolo ebraico  sterminato nei campi di sterminio, non deve farci dimenticare che questo stato oggi vigente e i suoi dirigenti governativi, non hanno nulla a che vedere con quelle vite. Questi di oggi ne hanno infangato il ricordo ed il sacrificio, perché si comportano con i palestinesi come i nazifascisti si sono comportati con i loro antenati. Ovviamente distinguiamo fra l’apparato statale governativo e i cittadini di Israele, ostaggi anch’essi di una politica di chiusura e di sangue e verso cui spesso si sono ribellati.

Macellai israeliani in divisa

Gaza. Oggi, 30 marzo, come ogni anno dal 1976, in Palestina si celebra la giornata della terra. Una celebrazione che commemora una delle tante stragi israeliane e al tempo stesso rivendica il diritto dei palestinesi alla propria terra ingiustamente e illegalmente confiscata. Vale a dire che rivendica il “diritto al ritorno” sancito, oltre che da un imperativo morale che lascia Israele totalmente indifferente, dalla Risoluzione Onu 194 che lascia Israele ugualmente indifferente. Che Israele sia indifferente alle numerose Risoluzioni Onu che lo riguardano senza che ciò comporti sanzioni utili a farlo entrare nell’alveo della legalità internazionale è fatto risaputo e addirittura rivendicato da questo Stato al di sopra delle leggi, e ciò permette ai suoi governanti di rilasciare dichiarazioni di natura criminale senza tema di sanzioni di alcun tipo. Quando alle dichiarazioni seguono i crimini la situazione non cambia, per una sorta di incantesimo giocato su interessi molteplici e parole magiche quali olocausto o sicurezza o antisemitismo, a Israele è tutto consentito o, nella migliore delle ipotesi, perdonato. Così come consentita è la sua minaccia di strage contro i manifestanti che oggi inizieranno la grande marcia pacifica che rivendica l’applicazione della Risoluzione 194, e così come l’eventuale annunciata strage sarà perdonata. I palestinesi conoscono a memoria e sulla pelle del loro martoriato popolo questo ignobile copione, e i giovani di Gaza che mentre scriviamo stanno iniziando la marcia pacifica e simbolica verso i confini dell’assedio sanno benissimo che molti di loro rischiano di non tornare a casa, ma ugualmente vanno. Non c’è davanti a loro Hamas, scelto da Israele come scusa evergreen per ogni attacco a Gaza, no, Hamas come le altre forze politiche, dai Fronti a Fatah, è semmai a lato e invita a partecipare, ma non è davanti o dietro questo movimento generalizzato di palestinesi, soprattutto giovani gazawi che non ce la fanno più a vivere, chiusi illegalmente e illegittimamente, in quella Striscia che potrebbe essere un paradiso e che Israele ha trasformato in una prigione dalla quale ormai sognano tutti di poter uscire. Uscire per assaggiare il diritto alla libertà e non per abbandonare la propria terra, questo è loro impedito dall’assediante che il diritto internazionale inutilmente e solo ritualmente condanna. La marcia sarà pacifica, o perlomeno nasce come tale e prevede anche momenti di folklore gioioso quali canti tradizionali e performance di dabqa e andrà avanti per sei settimane fino al giorno della Naqba, cioè la catastrofe che vide Israele autoproclamarsi Stato e uccidere o cacciare dalle proprie case centinaia di migliaia di Palestinesi non ebrei. 

I prodi guerrieri armati di tutto punto si preparano
alla caccia

Ma pacifica o meno, sappiamo che Israele alcuni giorni fa ha lanciato volantini dai suoi elicotteri minacciando i gazawi e intimando loro di non avvicinarsi a meno di 300 metri dal confine perché l’esercito avrebbe sparato. I 300 metri si sono poi trasformati in 1500 in una striscia di terra che in alcuni punti è larga solo 2 chilometri lanciando in tal modo un messaggio preciso: vi uccideremo comunque. Ieri Israele ha chiarito meglio le sue intenzioni rendendo pubblica la decisione di aver posizionato un centinaio di tiratori scelti lungo il confine. È facile intuire che queste provocazioni porteranno molti giovani esasperati a sfidare l’illegittima imposizione israeliana, ed è altrettanto facile intuire ciò che i media mainstream, solitamente ipnotizzati dalla narrazione israeliana, racconteranno al mondo nel caso in cui la strage annunciata si verifichi: parleranno di diritto di Israele a difendersi, fingendo di ignorare che l’unica difesa possibile è il rispetto del Diritto internazionale che Israele non ha mai rispettato. Carriarmati e cecchini uccideranno a piacere e senza processo, probabilmente Israele oggi “inaugurerà” i nuovi droni-lanciatori dall’alto di gas provocando altre vittime, ma non per questo Israele perderà il suo appellativo di Paese democratico e rispettoso dei diritti umani. I palestinesi seguiteranno a marciare e a morire indicando al mondo quel che il mondo ancora non è disposto a capire, ma loro seguiteranno con la tenacia di chi non ha da perdere che le proprie catene.

Domani sabato 31 marzo a Milano tutti in Piazza Cordusio per una protesta pubblica 
ore 15,30

La Cazzata Drone di Palermo
Capitale della Cultura italiana
di Antonio Mazzeo


Purtroppo non c'è mai limite all'imbecillità. Speriamo che almeno scuole 
ed artisti abbiano qualche conato di vomito e decidano di boicottare.



 Al via oggi dalla base di Sigonella il progetto "Cassata Drone", evento che "animerà il mese di aprile la scena artistica siciliana" in vista della kermesse "Palermo Capitale Italiana della Cultura" e “Manifesta 2018”, la biennale d'arte contemporanea internazionale che prenderà il via nel capoluogo regionale a metà giugno. Un sedicente "evento artistico-culturale", quello di Cassata-drone che secondo i promotori "nasce da uno studio della città e riprende, nel titolo volutamente provocatorio, l’idea della cassata e del drone con l’obiettivo di lavorare su contrasti, sbordature e ossimori che convivono nella terra siciliana, attraverso i linguaggi dell’arte contemporanea".
"Il progetto si articola in residenze, incontri, mostre e dibattiti, aventi come fine quello di offrire al pubblico una visione estetica e artistica di Palermo attraverso due nuclei tematici: la cassata, simbolo della tradizione gastronomica isolana, e il drone, l’aereo militare a pilotaggio remoto di cui i cieli e le terre siciliane sono la base ideale", spiegano gli organizzatori. "La cassata siciliana incarna l’humour, la storia e le dominazioni siciliane “zuccherando” metaforicamente la parola “drone”, ossia “ronzone”, un tempo fuco senza pungiglione e oggi minacciosa macchina militare. Il nostro progetto assimila le forme e l’estetica della cassata, simbolo indiscusso della Sicilia, a quelle del drone, simbolo a sua volta della presenza militare della Nato sull’Isola. In particolare, siamo interessati alla forma dell’oggetto drone, al suo modo di funzionare e di creare un’economia nel paesaggio siciliano che è completamente aliena ai cittadini”.
Il senso di avviare il progetto dalla grande base di guerra siciliana, oggi capitale mondiale degli aerei senza pilota (non solo sotto il controllo Nato, ma anche di Stati Uniti, UE-Frontex e Italia), è spiegato ancora dagli organizzatori. "Il tema indagato è l’interazione con le forme della base militare di Sigonella e il suo impatto antropizzante sul territorio in riferimento alla storia dell’architettura e ai miti siciliani".
Si prevedono perfino workshop "formativi" nelle scuole medie inferiori della provincia di Palermo. “Cassata Drone, un segno nel paesaggio siciliano contemporaneo”, con attività della durata di una settimana "da svolgersi per due ore al giorno oppure di tre giorni per quattro ore al giorno". Tra i temi del seminario "Il drone militare come nuova forma inserita nel territorio siciliano: a cosa serve e come è impiegato ai fini della sicurezza? Ragioniamo su pregi e difetti di questa macchina". Sì appunto, "pregi e difetti". I pregi di uccidere da lontano, fuori da ogni controllo; i difetti di scambiare, non poche volte, bambini, donne e anziani per feroci "terroristi".


Sempre secondo gli organizzatori, “Cassata drone” si configura “come una mostra (16/8 - 20/9) ed evento collaterale dei più ampi eventi a Palermo e Provincia per il 2018: Palermo Città della Cultura Europea e Biennale Nomade di Arte Contemporanea Manifesta12  -Il Giardino Planetario. Coltivare la Coesistenza”.
Se così fosse, si tratterebbe di un fatto di una gravità inaudita. Il soffocante processo di dronizzazione della Sicilia e i devastanti effetti geostrategici, socio-ambientali, giuridici ed economici della trasformazione dell’Isola in piattaforma-poligono dei velivoli senza pilota, sono stati documentati da intellettuali, giuristi, giornalisti e soprattutto dalle numerose realtà che si sono opposte in questi anni alla realizzazione a Niscemi del terminale terrestre del MUOS, il sistema di telecomunicazioni della Marina USA che tra i suoi compiti ha proprio quello di guidare le operazioni di guerra dei droni in tutti gli scacchieri internazionali. Per questo è assolutamente doveroso e necessario che gli organizzatori degli eventi internazionali previsti a Palermo nei prossimi mesi si dissocino immediatamente da “Cassata droni”; invitiamo altresì tutte le scuole del palermitano a boicottare i workshop pseudo-informativi previsti o già organizzati nell’ambito di questo mistificante progetto “artistico-culturale”.  

giovedì 29 marzo 2018


Eu prattomen, Diego
di Gabriele Scaramuzza

Ricordo di Diego Lanza e Mario Vegetti

Diego Lanza
Sono le parole con cui Mario Vegetti conclude il necrologio che ha firmato per Diego Lanza, “indimenticabile amico e compagno di sudi di una vita intera”, il 7 marzo, ma apparso sul Corriere della Sera l’8 marzo, il giorno successivo alla morte dell’amico, e pochi giorni prima che egli stesso, l’undici marzo, mancasse. Se ne sono andati a pochissimi giorni di distanza l’uno dall’altro: un destino comune dopo una vita di ricerche passata insieme, nello studio della cultura greca. “Eu prattomen, Diego” sono parole che colpiscono: testimoniano la coscienza di un lavoro ben fatto, di una vita compiuta, come non accade a molti. Possiamo ritenerle anche parole che Vegetti ha posto a epitaffio della propria vita. Certo sono la persona meno indicata a scrivere di Lanza e di Vegetti; loro men che meno si sarebbero aspettati che lo facessi. Ho ricordi tuttavia di entrambi che non mi si cancellano, ed è come un dovere verso me stesso scriverne. Non riguardano certo i loro studi, che vanno oltre ogni mia competenza; non posso che attingere alla mia memoria personale. Con Lanza non avevo da decenni alcun rapporto. L’ho conosciuto poco, a volte lo avvertivo lontano. Ho saputo, nell’anno di collegio passato insieme, che avevamo frequentato a Milano la stessa scuola media, la Cagnola, a tre anni di distanza ovviamente; avevamo avuto la stessa insegnante di lettere, senz’altro brava, anche se le nostre esperienze di essa divergevano.    
Mi è stato compagno di collegio per un anno, con Vegetti appunto, Rochat e altri. Il primo anno di università (provenendo dallo scientifico) mi ero iscritto a Scienze Politiche, ma dovevo anche preparare la maturità classica, dato che volevo passare poi a Filosofia. Lanza, e con maggior assiduità Lorenzo Deagatone, mi furono di aiuto nell’apprendimento del greco, che studiavo da autodidatta. Almeno questo devo loro dunque, ma non soltanto questo. Ho percepito presto l’ hostinato rigore (per ricorrere a un termine che Antonio Banfi ha fatto proprio) di Lanza, sul piano etico non meno che su quello degli studi; so della sua ampia cultura, non limitata alla sola antichità classica (ricordo una volta una sua opinione su Thomas Mann). La sua grande capacità di lavoro soprattutto in ambito grecista è nota; ma di quest’ultimo ambito non è da me -tanto meno dotato dei due amici- parlare. Mi sono rimaste tuttavia domande, per me significative, su di lui. Abitava dalle mie parti a Milano, solo col padre. Ho sentito dire che sua madre era russa, ed ebrea, presto morta non so come. La sua religiosità è stata la cosa che più mi ha interessato della sua personalità. Una volta mi disse del suo esser cattolico, sulle prime me ne stupii, tra i suoi compagni “laici” penso fosse l’unico; aggiunse però qualcosa che si è inciso nella mia memoria: l’esser cristiano contava per lui più dell’esser cattolico. Mi precisano però ora Sandro Mancini ed Elisa Romano che a loro risulta, da quando lo hanno conosciuto, che fosse tendente al protestantesimo e vicino ai valdesi.   
Trascorremmo insieme ad altri ghislieriani qualche tempo a Monaco, credo nel settembre del ‘63; ci portò anzi con la sua piccola auto lui stesso, ricordo l’autostrada del Brennero, stretti tra camion, la sua guida nervosa. Da Monaco facemmo una gita insieme di qualche giorno in Baviera, con Speroni (da tempo scomparso) e Malcovati; del tragitto ricordo solo Bamberg, oltre a una sosta in un paese in cui per la prima volta presi il Leberkäse (mi è rimasto impresso - stranamente, incongruamente, come spesso accade). A Milano ricordo solo che venne da me una volta con un nostro compagno inglese del Maximilianeum. In seguito lo incontrai di sfuggita negli uffici universitari di Pavia; da ultimo lo vidi solo da lontano al funerale d Dario Del Corno qui a San Nazaro. Sentii poi dire che non stava bene, come del resto Vegetti. Notizie dei suoi ultimi tempi li ho avuti da Elisa Romano: “Da anni Diego aveva continui problemi di salute, sia cardiologici sia polmonari, più volte era stato in ospedale; non so quale sia stata la causa della morte, ma la notizia, pur imprevista, non ci ha colto di sorpresa”.  

Mario Vegetti
Quanto a Vegetti, ne ho accennato in pagine autobiografiche che riguardano anche gli anni del Ghislieri nel mio Un’insostenibile voglia di vivere. Di questi anni riaffiorano almeno due ricordi che mi sono rimasti impressi: uno filosofico: il primo è la sua affermazione secondo cui la filosofia è già tutta in Platone, e che la sua storia non sia stata che una variazione sui temi da questi proposti (non gli do torto col senno di poi). Il secondo riguarda un episodio: ritorno in treno verso Milano con Vegetti, non ci si chiamava per nome. Autunno del 1959. Una stazione intermedia di un piccolo centro, Locate Triulzi, forse. Vegetti -molto impegnato a sinistra- mostra pietas, da socialismo romantico (intimamente lo apprezzo), per ragazzini magri, malvestiti, denutriti, che osserviamo dal finestrino del treno, fa risalire la loro magrezza a misere condizioni di vita. Non colsi nel suo atteggiamento qualcosa che mi potesse riguardare; forse semplicemente non seppi cogliere il suo modo di mostrarmi una vicinanza. Non rientravo, mi parve piuttosto allora, nei casi contemplati, non corrispondevo al modello “di umili condizioni” compatibile con la sua ideologia. Ma mi è rimasta la sensazione che semplicemente mi sbagliavo, e me ne dispiaccio.    
Avevamo appena dato un esame, il suo ultimo, uno dei primi per me: Filosofia del Diritto. Abbiamo preso qualcosa insieme in una trattoria, un caffè mi è stato offerto da lui, simpaticamente; è sembrato qualcosa si sciogliesse tra noi. Così una sua lezione a Padova, una cena coi colleghi; successivamente un accogliente incontro nel suo luogo di lavoro, il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pavia (lì insegnò sempre, tranne un anno a Milano nel 1968-69), dove andai per un concorso. Ma poi di nuovo qualcosa si inceppò, per qualche tempo. In seguito vi furono incontri casuali a Levanto, dove andava abitualmente; faceva parte di un gruppo che includeva tra gli altri Lella Costa, Antonio Monestiroli (che ho conosciuto in quanto Preside di Architettura). Ci trovammo a un concerto palestinese a Vernazza, una sera lo trovai a Bonassola per una conferenza, a una terrazza sul mare. A Milano tante volte alla Casa della Cultura con Silvia Vegetti Finzi, una volta almeno alla Scala. La conclusione è un incontro liberatorio in anni recenti a Milano, davanti all’ingresso del Dipartimento di Filosofia: il sollievo di un epilogo fino ad allora solo sperato, e su un tono che non gli conoscevo. Di questo gli resto grato.

Libri
L’ultima notte di Achille
di Mila Fiorentini

La copertina del libro

Un modo diverso di raccontare l’epica, rendendola lirica intima, mondo di uomini tormentati, lacerati tra il destino e la ricerca della propria vocazione interiore senza dimenticare i sentimenti. Un testo colto, una scrittura preziosa eppure divulgativa, anche se estremamente densa che richiede una lettura ponderata che si sofferma sulle parole, con un modo moderno di raccontare il mondo degli dei e degli eroi e attualizzarlo. Sicuramente l’aspetto che più colpisce è il sentimento della paura, del timore non tanto verso la morte quanto in rapporto alla perdita degli altri, come si nota nel sentimento di Achille verso l’amico Patroclo, che racconta tra l’altro molto bene la complicità al maschile nell’amicizia che ha una lunga tradizione nel mondo greco, o della sposa sia di Achille si di Ettore, Andromaca; e della tenerezza tra madre e figlio, nel caso fra Teti e il protagonista del libro, che al di là dei loro status, resta un sentimento intimo ed esclusivo.
L’autrice, Giuseppina Norcia, siracusana, classe 1973, è grecista e divulgatrice culturale ed ha lavorato per oltre dieci anni per l’Inda, Istituto Nazionale del Dramma Antico, con diversi contributi sul tema del mito. In questo caso il mito viene storicizzato e per questo reso credibile: Achille è uomo quanto eroe, uomo nell’animo; eroe nel ruolo. Il suo destino è scelto e combattuto ad un tempo  e a mio parere l’autrice fonde la categoria del destino greco con quello del karma della filosofia buddista, rendendo la complessità dell’animo umano, che è un ritagliarsi sullo sfondo di situazioni non scelte ma in qualche modo volute anche inconsciamente. Achille è infatti l’uomo che non riesce a fare a meno della gloria, l’immortalità umana, terrestre, eppure non nasconde le proprie titubanze in quel rinviare la scelta, nella sospensione dell’attesa.
Originale il punto di vista, quello di Thanatos, che è falciatrice uguagliatrice tra gli uomini, che dialoga con i personaggi e si racconta a sua volta quasi a sottolineare come la morte sia intrecciata profondamente alla vita.
(L’ultima notte di Achille, Giuseppina Norcia, Castelvecchi Edizioni, 2018) presenta nelle prime pagine i personaggi del libro, tra cui Thanatos appunto, voce narrante, dai molti volti e nomi e lo spirito con il quale la scrittrice legge il mito, quello dei sentimenti e dell’intimità, attraverso gli occhi della morte. Infatti scrive, ma è Thanatos che parla, “soffrono persino gli immortali, se vi stanno troppo vicini (a voi umani, ndr); rischiano di ammalarsi dei vostri sentimenti, della nostalgia di sopravvivervi, come tua madre. Teti non è poi così diversa dalle donne a cui ho portato via i figli…”
Le nozze di Teti e Peleo sembrano nozze umane, che suscitano invidie e gelosie, e gli sposi proprio per il figlio che condividono si separeranno nell’unione, sebbene il loro sia o comunque sia stato un grande amore, proprio come accade nel mondo della quotidianità da sempre. È struggente e con qualche tratto inquietante la figura di questa mater dolorosa che la Norcia ci regala come una categoria universale e allo stesso tempo una madre di tutti i giorni, che non riesce a salvare il figlio malgrado l’amore e lo accompagna in qualche modo nel destino, pur avendo cercato di proteggerlo in tutti i modi, ma l’incompletezza resta la condanna di Achille. Nella condanna del destino Giuseppina Norcia ci rivela come in fondo ogni uomo possa scegliere e anche Achille potrebbe rinunciare a compiere la propria “missione” e tornarsene a casa, ma nessuno può sottrarsi alla propria natura -“quel bisogno di esibire vittorie e trofei perennemente contraddetto dalla tenerezza che esplodeva nella vita più segreta…”- dove la differenza è fatta solo dalla consapevolezza. Come nel caso di Agamennone che sacrifica Ifigenia perché non sempre si può salvare quello che più si ama.
La vicenda si concentra sull’ultima notte a Troia ancora sotto assedio. Dall’accampamento greco voci che si consumano nell’attesa della fine. Achille ascolta Thanatos che gli svela il senso della sua vita accompagnandolo alla fine, rievocando la sua storia dalle nozze di sua madre, alla simbiosi con lei, all’educazione e la cura da parte di Chirone, centauro medico- che ci occupa dell’ustione della caviglia dell’eroe procurata involontariamente dalla madre nel tentativo di trasformarlo e renderlo immortale, metafora degli affetti e della complessità dell’amore- per seguirlo nel travestimento in abiti femminili, quasi un paradosso per un eroe finché il tempo di uscire allo scoperto non sia quello “giusto”, il kairòs. La conclusione di questa vicenda epica sommessa e sussurrata è nell’eternità, la parola che chiude il libro e ci invita a una riflessione. Nel momento in cui Thanatos si impossessa di Achille, gli toglie la vita e gli regala appunto l’eternità

Milano. 
GALLERIA LORENZO VATALARO |
MOBILI disegnati da Jacopo Gardella


La locandina dell'invito


Galleria Lorenzo Vatalaro
Piazza San Simpliciano 7, Milano
Inaugurazione
mercoledì 4 Aprile ore 18
La Mostra prosegue
5-13 Aprile 2018 e 3-26 Maggio 2018
Orari | 10.30-12.30 e 15.30-19.30

La Galleria Lorenzo Vatalaro di Milano presenta tra Aprile e Maggio 2018 la personale MOBILI disegnati da Jacopo Gardella, una inedita collezione di tre poltrone disegnate e progettate dall’architetto milanese.
Pensate e ideate soprattutto per il riposo e la lettura, le poltrone EDO, ERO e ECO si distinguono per le loro forme, a cui non si può aggiungere né togliere niente se non si vuole che ne venga dispersa la intrinseca armonia. Sono opere che esprimono “una particolare attenzione alla lezione che il passato ci trasmette”. Gli elementi che compongono le poltrone evidenziano la predilezione del progettista per i materiali naturali: EDO e ECO hanno una struttura in legno di noce nazionale, ERO una struttura in legno laccato nero opaco con elementi in paglia di Vienna.

Jacopo Gardella nasce a Milano nel 1935 e si laurea in architettura presso il Politecnico di Milano nel 1960. Dopo un primo periodo di pratica professionale presso lo studio del padre, l’architetto Ignazio Gardella, esegue progetti firmati in proprio e commissionati sia da Enti Pubblici che da clienti privati.
Ha collaborato a lungo con diversi periodici, "l'Europeo", "I Meridiani", "Hinterland”, con il quotidiano "la Repubblica” e con la "Radio Svizzera di Lugano”.
Attualmente scrive per due periodici on-line "Arcipelago-Milano" e "Odissea".
Ha svolto attività di docente assunto a contratto nelle Facoltà di Architettura delle città di Pescara-Chieti, di Milano-Politecnico, di Torino, di Venezia, di Camerino-Ascoli Piceno, di Milano-Bovisa. È stato consigliere di Italia Nostra ed ha partecipato alle attività di diverse altre associazioni impegnate in difesa del paesaggio e del patrimonio monumentale italiano. Vive e lavora a Milano.
Contatti
La Galleria Lorenzo Vatalaro di Milano è tradizionalmente specializzata nell’antiquariato; di recente si è rivolta all’arte contemporanea, alle arti applicate e al design.
Galleria Lorenzo Vatalaro
piazza San Simpliciano 7 - 20121 Milano
+39 335 8385509 | +39 02 8052189
info@gallerialorenzovatalaro.it

mercoledì 28 marzo 2018


Per chi crede alla Pasqua 
e per chi non crede


Jacopo Pontormo "Deposizione"

Firenze. Questa mattina la Cappella Capponi di Santa Felicita, chiesa del Brunelleschi di Firenze, è stata inaugurata nella nuova veste con il restauro de La Deposizione del Pontormo, capolavoro del Manierismo, la cui bellezza struggente racconta il dolore di una madre che perde un figlio perché si dona per gli altri, eternandosi in un messaggio di fratellanza e amore. E’ una storia ordinaria, forse per alcuni di follia, una storia di amicizia con il mondo, anche se per molti non appartiene alla storia sacra. Ci racconta che la vita nasce da una rinuncia, del fiore che si apre e appassisce perché il frutto maturi e può bastare solo un respiro trattenuto o un momento di silenzio per far posto alla voce dell'altro. C’è una maternità, che è anche paternità, della Pasqua, universale per cui un figlio, la vita, sono comunque per sempre e nessuna lingua può trovare le parole per dire del lutto di un genitore. Un’altra suggestione si diffonde dall’oro della cornice e dai colori preziosi delle stoffe della tela, la capacità dell’arte di farsi linguaggio universale e dell’armonia che la bellezza ci regala, oltre ogni credo. Un sorriso e una lacrima che possono consolarci e farci sentire parte di un'umanità unica.
Un augurio per tutti di rinascita, in una primavera che non arriva, ma che può germogliare dentro.
[Ilaria Guidantoni]


L’ITALIA A HOLLYWOOD
Museo Salvatore Ferragamo,
Palazzo Spini Feroni, Firenze
25 maggio 2018 - 10 marzo 2019
A cura di: Giuliana Muscio, Stefania Ricci


La locandina della mostra

Una famiglia di Italiani sulla banchina di un porto qualsiasi, in attesa di imbarcarsi per l'America: il grande dipinto di Raffaello Gambogi apre la mostra L'Italia a Hollywood, in programma dal 25 maggio 2018 al 10 marzo 2019 al Museo Salvatore Ferragamo a Firenze.
In quelle figure infatti, emblema di decine di migliaia di emigrati, può ben vedersi rappresentato Salvatore Ferragamo stesso, che nel 1915 lascia il paese natio per raggiungere i fratelli in Nordamerica dove, a Santa Barbara, apre il primo negozio di riparazioni di scarpe su misura distinguendosi presto come shoemaker e shoedesigner - così viene definito dalla stampa americana - che sulla scia della nascente industria cinematografica si trasferisce a Hollywood eternandosi nel mito che oggi conosciamo.
Attraverso le memorie autobiografiche di Ferragamo, la cui voce accompagna i visitatori lungo tutto il percorso espositivo grazie a una registrazione audio originale, la mostra vuole indagare il fenomeno migratorio italiano in California nelle prime decadi del Novecento, soffermandosi in particolare sul ruolo ricoperto dagli italiani e sull'influenza esercitata dall'arte e dalla cultura del Belpaese nello sviluppo del cinema muto americano, in un confronto-scontro con quella che era invece la percezione che degli immigrati propugnava la cultura Wasp del tempo.
In un allestimento curato da Maurizio Balò che rievoca gli studios americani dei Roaring Twenties, il percorso si snoda tra le sale focalizzando l'attenzione sul mondo dell'arte, dell'artigianato e dello spettacolo, aree di interesse privilegiate della creatività di Ferragamo. Dopo una prima sala che inquadra il complesso del fenomeno migratorio tracciando, attraverso fotografie e filmati, una mappa degli italiani in California, l'attenzione si concentra dunque sugli influssi artistici della cultura italiana in America. La mostra si avvale di prestiti prestigiosi, provenienti da musei e collezioni pubbliche e private, sia italiane sia americane, e di carattere composito: da costumi di scena a locandine, da opere pittoriche di artisti quali Federico Zandomeneghi, Ettore Tito e Hugo Ballin alle sculture di Arturo Martini, Paolo Troubetzokoy, Eugenio Pellini e Amleto Cataldi, passando ovviamente per documenti fotografici e filmati d'epoca.
Ma l'influenza dello stile italiano oscilla continuamente tra realtà e finzione: accanto all'Italianate Style, libera interpretazione dello stile rinascimentale, e al meno noto Mediterranean Style, che si rifà invece ai modelli più modesti rappresentati dalle architetture vernacolari dei centri minori, riscontrabili nella progettazione degli spazi urbani e in tante abitazioni private dell'epoca, il clima di revival del cosiddetto "neorinascimento" hollywodiano si incontra anche nelle pellicole, come testimoniato qui dalla presenza di dipinti e sculture posti in dialogo con le sequenze dei film che ne contengono citazioni esplicite, nel tentativo di emulazione di un popolo che nel cinema riusciva a mettere in scena la propria stessa esistenza.
Una video installazione sulla Panama-Pacific International Exhibition di San Francisco del 1915 mostra come l'influenza dello stile italiano permei la maggior parte dei padiglioni americani, e non è dunque un caso se ad aggiudicarsi la vittoria fu proprio la Cittadella Italiana progettata da Marco Piacentini, progetto che convince e affascina nella sua intenzione di ricreare non un semplice edificio, ma l'atmosfera stessa di una città italiana. Completano il richiamo all'esposizione alcune opere come Baci di sole di Plinio Nomellini, dalla Galleria d'Arte Moderna Paolo e Adele Giannoni di Novara, e Nudo di donna (Susanna) di Giuseppe Graziosi, dalla Galleria d'Arte Moderna Ricci Oddi di Piacenza, esposte nella mostra curata da Ernesto Nathan proprio in occasione dell'Expo del 1915.
Ma non sono solo l'esempio del cinema muto italiano, che dominava assieme a quello francese il panorama internazionale, la musica, l'artigianalità e le ambientazioni suggestive a influenzare la nascente industria cinematografica americana: l'Italia fornisce infatti anche potenziali divi, emigrati o di seconda generazione, che conquistano il palcoscenico d'America con la propria fantasia rapida e vivace, con la scioltezza naturale dei movimenti e la capacità di stare sulla scena, come scrive Gianni Puccini nel 1937. Tra questi alcuni si impongono in maniera privilegiata, come Lina Cavalieri, presente in mostra attraverso 40 dei 300 celebri ritratti che di lei fece su piatti di ceramica Pietro Fornasetti.
Altro aspetto cardine è la riflessione sulla contemporaneità proposta dalla mostra, che riportando in scena l'essenza del passato la proietta fino ai giorni nostri: il giovane fotografo Manfredo Gioacchini ha infatti catturato con il proprio obiettivo la realtà attuale, realizzando un progetto in 14 ritratti in bianco e nero che immortalano gli italiani che, pur diversissimi per età, esperienze e professioni, lavorano oggi per l'industria hollywoodiana mantenendo vivo, grazie alla propria arte e artigianalità, il filo di una tradizione che, oggi come un secolo fa, contribuisce al successo dell'industria cinematografica più importante al mondo.
A lui si affianca Yuri Ancarani, autore italiano presente con una video installazione su otto schermi che mostra brevi clip girate a Zuma Beach, scene di quotidianità rielaborate in un racconto visivo fatto di piccole storie tra le quali si innesta un riferimento a Il pianeta delle scimmie (1968) di Franklin J. Schaffner, che su quella spiaggia ambienta la scena finale.
Trattasi dunque di un'artigianalità che, oggi come allora, si pone come la sintesi tra l'arte passata e il mondo moderno della produzione e del consumo: la mostra non può che chiudersi con un'esposizione di scarpe realizzate per il cinema americano da Ferragamo, un tributo all'uomo e all'artista che, per aver creduto e realizzato l'abbraccio tra arte e industria, tra economia e cultura, rimane tuttora la figura più contemporanea: quella di un uomo che ha saputo interpretare il mutamento, adattandolo, e non adattandosi, alla propria visione del mondo.


MILANO.
CHIESA DI SAN MARCO
Via San Marco n. 2
Mercoledì 18 aprile 2018 ore 21 marzo
“Messa di Requiem” di Giuseppe Verdi
Orchestra dell’Associazione Mozart Italia

La locandina del concerto


VERBANIA.
BRACIGLIANO A VILLA OLIMPIA
Sabato 31 marzo 2018

La locandina dell'incontro




MILANO.
PASOLINI ALLA FABBRICA DEL VAPORE
Dal 4 al 19 aprile 2018

La locandina della mostra




GOVERNO/NON GOVERNO
di Franco Astengo



Premesso che al momento attuale appare del tutto azzardato pronunciare vaticini circa la formazione del nuovo Governo (e ricordato anche, un po’ per celia e un po’ per non morire che: “il governo qualunque esso sia è sempre il comitato d’affari della borghesia”) vale la pena sottolineare almeno tre punti che sembrano caratterizzare la situazione politica nel dopo-voto del 4 marzo 2108:
1) Le forze politiche si trovano nell’impasse dell’aver costruito una campagna elettorale come se si fosse votato con una formula maggioritaria e non con un proporzionale per i 2/3. L’assenza di alcuna proposta sul piano degli schieramenti politici nel dopo – voto adesso pesa, in un quadro di promesse elettoralistiche che (come si era ben rilevato alla vigilia) risultano non solo incompatibili fra loro ma impossibili da soddisfare anche solo parzialmente. Una “logica del maggioritario” che emerge dalla richiesta del partito di maggioranza relativa che con il solo 32% pretenderebbe di esercitare una funzione egemonica nella formazione dell’esecutivo;
2) Non esiste più lo schema centrodestra/centrosinistra. Chi si è richiamato al centrosinistra alla fine si è trovato del tutto marginalizzato: il PD se n’è guardato bene reclamando per sé il “voto utile” ma senza indicare alcuna prospettiva di schieramento futuro. Ed era evidente anche lo spostamento d’asse che si stava verificando in quello che per mera convenzione è stato definito centrodestra(dal punto di vista dei contenuti espressi la definizione “centro” appare ormai del tutto superflua), ma che aveva mutato completamente pelle rispetto alla tradizione accumulata nei venticinque anni correnti dal’94 a oggi (difatti il richiamo a quella data, pure tentato dallo stesso Berlusconi, non ha funzionato e hanno fatto una brutta fine anche gli epigoni del centrismo e dell’appoggio ai governi Renzi -Gentiloni). Il fatto è che (lo ribadiamo) non c’è più il bipolarismo solo assetto del sistema, utile per definire due schieramenti nell’alternanza. Alternanza che dunque non è più verificabile come opzione possibile. Nella sparizione del bipolarismo si avverte anche un certo declino del meccanismo della personalizzazione;
3) Sarà comunque difficile uscire, nella prospettiva della costruzione di una maggioranza di governo, dallo schema impostato per l’elezione dei Presidenti delle Camere, tanto più che c’è chi rivendica il ritorno a una presunta “centralità del Parlamento”. Nello smarrimento generale della memoria è il caso di ricordare che la “centralità del Parlamento” (formula togliattiana: “Parlamento come specchio del paese”) può essere attuata soltanto attraverso l’adozione di una formula elettorale proporzionale ,tale da consentire l’espressione istituzionale delle più importanti espressioni politico-culturali presenti nel Paese e senza l’invenzione di coalizioni posticce utili soltanto a conseguire il primato in collegi uninominali “first-past-the-post”. L’esistenza dei collegi uninominali a fianco delle liste plurinominali (pasticcio attuato per poter disporre ancora una volta di un parlamento di “nominati”), in quest’occasione, ha rappresentato un vero e proprio monumento all’incultura politica di chi ha redatto il dispositivo. Al più, tornando al tema del governo futuribile, lo schema usato per eleggere i presidenti d’Aula potrà essere variato nel senso di qualche reciprocità d’astensione (il richiamo al 1976 è d’obbligo, anche se le proporzioni del tripolarismo in quel frangente erano molto diverse tra le forze più consistenti e vigeva ancora la “conventio ad excludendum”). Ma quello dell’estate di quarantadue anni fa (si votò il 20 giugno) e del governo Andreotti, monocolore della “non sfiducia” potrebbe rappresentare un richiamo storico in una qualche misura plausibile. Infine, tornando all’attualità, non sono da escludere scissioni o riallineamenti, sempre all’ordine del giorno in tutto l’arco dello schieramento politico quando il tema è quello del governo e gli equilibri precari e delicati.


ANNULLARE I DERIVATI SI PUÒ
di Marco Bersani*

Marco Bersani

Una sentenza della Commissione Europea permette a singoli cittadini, imprese ed enti pubblici di chiudere tutti i contratti, stipulati tra il 2005 e il 2008, di mutuo, prestiti e derivati, che avevano, nel contratto, un tasso variabile legato all'Euribor, riconoscendo agli stessi il diritto al risarcimento.
La sentenza (http://ec.europa.eu/competition/antitrust/cases/dec_docs/39914/39914_8021_6.pdf) è il “caso AT 39914” del 3 dicembre 2013, pubblicata dalla Commissione Europea solo a fine 2016 (!), ma ormai interamente operativa e attivabile da qualsiasi soggetto coinvolto.
La sentenza si basa su due elementi:
a) il primo è relativo all'indeterminatezza del tasso quando il parametro di riferimento preso è l'Euribor (un tasso inteso a riflettere il costo dei prestiti interbancari in euro); in questo caso, rileva la sentenza, i parametri atti ad individuare il tasso variabile sono scarsamente intelligibili, poiché nella clausola è prevista una serie di rinvii concatenati a valori anche di valute estere in astratto recuperabili, ma tali da non rendere immediatamente reperibili e via via verificabili i dati.
L'incertezza della clausola di determinazione degli interessi in un contratto di mutuo determina la nullità della clausola stessa (art. 117 T.U.B.);
b) il secondo è relativo all'intesa restrittiva della concorrenza, operata da un cartello tra le principali banche europee, con lo scopo di manipolare, a proprio vantaggio, il corso dell'Euribor; vicenda che si è chiusa con la condanna di 4 tra le più note banche europee (Barclays, Deutsche Bank, Royal Bank of Scotland e Société Générale) al pagamento di una multa pari a 1,7 mld ed il conseguente diritto tangibile al risarcimento dell'utente finale per indeterminatezza e manipolazione del tasso.
La sentenza riguarda il 100% dei contratti di mutuo ipotecario e fondiario a tasso variabile, ma riguarda anche il 100% dei contratti derivati sul tasso (interest rate swap= IRS), in quanto atti il cui tasso di riferimento è nel 100% dei casi l’Euribor, stipulati da famiglie, imprese ed enti locali italiani con banche commerciali, sia italiane che estere operanti in Italia.
Gli enti locali italiani possono in sostanza ora ottenere il risarcimento integrale di tutti gli interessi e flussi negativi su derivati che si sono visti addebitare relativamente a tali contratti nel periodo che va dal 2005 al 2008. La Sentenza, essendo stata emessa dalla Commissione Europea, ha potere vincolante sul Giudice competente nazionale, che, pertanto, è chiamato ad uniformarsi, diversamente sanzionabile a seguito di apposita istanza al Presidente del Tribunale competente, al Consiglio/organismo della Magistratura nazionale o alla Corte di Giustizia UE.
Alcune riflessioni sono decisamente necessarie.
Va innanzitutto sottolineata la subalternità della Commissione Europea allo strapotere del sistema bancario che, se pur condannato, ottiene la non pubblicazione di una sentenza a proprio sfavore per oltre 3 anni (!).
Ma altrettanto severamente va giudicata la condotta degli enti locali che, a distanza di oltre 4 anni dalla sentenza e di oltre 1 anno dalla sua pubblicazione, non hanno ancora agito di conseguenza, tutelando la propria funzione pubblica e sociale, le comunità territoriali amministrate e la ricchezza collettiva prodotta.
Gli anni 2005-2008 costituiscono il periodo di massima dimensione della stipula di contratti derivati da parte degli Enti Locali, il cui apice è stato raggiunto nel 2007 con 796 enti interessati e 1.331 contratti sottoscritti dal valore nozionale iniziale di 37,042 miliardi di euro.
Fu proprio l'espansione senza controllo dei derivati a far decidere nel 2008 (art. 62, D.Lgs. n. 112/2008) la sospensione temporanea all'attività in derivati di regioni ed enti locali (poi divenuta definitiva con la Legge di stabilità 2014). Siamo dunque di fronte a una massiccia e criminale sottrazione di ricchezza alle comunità locali, operata dalle banche con la complicità, ingenua o consapevole, degli amministratori.
Ora nessuno potrà più dire “Io non lo sapevo”.
Per questo i movimenti in lotta per i diritti sociali e per la riappropriazione dei beni comuni e i comitati per l'audit sul debito locale devono immediatamente aprire un conflitto dentro ogni territorio e città rivendicando:
a) la pubblicizzazione di tutti i contratti derivati e di tutti i mutui sottoscritti nel periodo 2005-2008;
b) l'annullamento dei medesimi contratti derivati, con conseguente risarcimento collettivo degli interessi negativi pagati;
c) la revisione al ribasso dei tassi d'interesse su tutti i mutui contratti nel periodo sopra indicato, con conseguente risarcimento della quota sovrastimata pagata;
d) la sospensione del pagamento degli interessi su tutti i mutui e i derivati, fino alla definizione di quanto sopra indicato;
e) la pressante richiesta all'ANCI di farsi carico dell'iter legale per il riconoscimento di quanto dovuto.
Come si vede, i soldi ci sono. Sono solo finiti nelle mani sbagliate e si tratta di riappropriarsene collettivamente.
[*Attac Italia]

LINGUE MADRI. L.M. VOLANTE
IN DIALOGO CON  MARCO SCALABRINO


Marco Scalabrino


Marco Scalabrino, nato nel 1952 a Trapani, scrittore e poeta, lo studio del dialetto siciliano, la poesia siciliana, traduttore in Siciliano e in Italiano di autori stranieri contemporanei, la saggistica, ne fanno il continuatore della più alta tradizione della cultura siciliana.
Marco Scalabrino, infatti, traduce in siciliano autori tra cui Catullo, Bukowski, Masters, Russell, Szymborska. “La traduzione, oggi, nel dialetto siciliano non è né risulta, una ‘insania’: rappresenta bensì un tentativo riuscito di porre in risalto “la bellezza, la dovizia, la duttilità del  dialetto siciliano, nonché, pure nella sua millenaria storia, la straordinaria modernità, l’innegabile capacità di confrontarsi tuttora a testa alta, in tutta dignità, armoni, magnificenza, con ogni altra lingua, cultura, civiltà del mondo”. Questo anche perché, come giustamente afferma Marco Scalabrino, “ciascuno di noi cammina sulle ossa di chi lo ha preceduto”.
Il Siciliano, con la poesia alla corte di Federico II, è stato determinante per la nascita della poesia italiana; il Siciliano è stato altresì strumento letterario di poesia e di prosa: nella seconda metà del sec. XV diede vita alle Ottave o Canzuni, nel sec. XVIII a un autentico poeta come Giovanni Meli e nel XIX secolo a Nino Martoglio, ad Alessio Di Giovanni, al Premio Nobel Luigi Pirandello.
“Il Siciliano è differente dall’Italiano standard in modo abbastanza sufficiente per essere considerato una lingua separata; è inoltre una lingua ancora molto utilizzata e si può parlare di parlanti bilingui in Siciliano e in Italiano standard.” (Centro Ethnologue di Dallas).
Si avvicendano nel tempo il greco-siculo, il latino-siculo, l’arabo-siculo, il franco-siculo, l’ispano-siculo, ma sostanzialmente sempre una lingua, una sola: il Siciliano.
“Quali sono dunque le origini del Siciliano?” Lucio Apuleio, scrittore siciliano del II secolo d.C., asseriva che i Siciliani parlavano tre lingue: il Greco, il Punico e il Latino. Ma da allora, e fino al XIX secolo, ne sono passati di “ospiti”!
Il “sentire siciliano”: ci soccorre daccapo Salvatore Camilleri, “esprimersi con forme, con spirito, con immagini profondamente siciliani e non già con scialbe traduzioni dall’Italiano”, significa “liberarsi dal preconcetto che il dialetto debba solamente rivolgersi alle piccole cose, al folclore, al ricordo”, giacché “il dialetto può esprimere tutte le complesse realtà: la storia, la filosofia, la sociologia, tutte le scienze, non in quanto tali ma come patrimonio culturale che chi scrive consuma nell’atto della creazione.”
Ai lettori non resta che assaporare “A tu per tu”  dallo stesso Marco Scalabrino.
[Laura Margherita Volante]



1. Se mai fossi tenuto a parlare di me stesso non potrei iniziare se non a partire dalla mia terra, dalle mie radici, dalla mia lingua; e come meglio se non per voce dei poeti (di taluni di loro ovviamente) che la mia Sicilia da sempre hanno celebrato; Giovanni Meli magari o, chissà, qualche passo della migliore tradizione popolare siciliana o, perché no?, il testo di un autore dialettale calato nella nostra contemporaneità. Esempi probabilmente che, agli occhi del lettore, finirebbero col risultare slegati, ben differenti fra loro per collocazione temporale, per scansione metrica, per taglio contenutistico; ma che, nella loro complementarietà, potrebbero tuttavia assurgere a campione emblematico della composita realtà siciliana.
Da questa schematica prolusione credo traspaia già la principale combinazione a fondamento dei miei interessi culturali: la Sicilia nella sua interezza di natura, storia, arte, cultura, folklore, costume e, nello specifico, il dialetto siciliano e la poesia in dialetto.  
Non stiamo qui a tergiversare e glissiamo, quindi, sulla vexata quaestio lingua o dialetto; ma, a onore del vero, non possiamo né vogliamo sottacere circa lo stato attuale nel quale versa il dialetto siciliano. Esso difatti, secondo uno studio recente dell’autorevole Unesco, è una lingua che rischia di scomparire entro la fine del corrente secolo. Un tempo lingua molto utilizzata – tant’è, affermava il Centro Ethnologue di Dallas, che si poteva parlare di parlanti bilingui –, esso è oggi un idioma che giorno dopo giorno va perdendo i pezzi, che paga un prezzo salatissimo alla scienza, alla tecnologia, alle contaminazioni. Nel volgere del Novecento e in questo inizio del terzo Millennio, in Sicilia si sono alternate le civiltà rurale-artigianale e quella finanziaria-industriale, entrambe a loro volta soppiantate dalla civiltà mediatica-globale. L’uomo per conseguenza cambia (nella quotidianità, nello stile, nella tensione ideale) e la lingua (che l’uno e l’altro, il mondo e l’uomo, è chiamata a rappresentare) deve fare di continuo i conti col proprio ultra-millenario spendersi, col fronte magmatico dei “tempi moderni”, con l’arrembante tecnicizzazione e inglesizzazione. È d’uopo perciò, ne va della stessa sua sopravvivenza, che si attrezzi, si espanda, si adegui.
E allora?, mi si potrebbe ragionevolmente obiettare. Allora, è presto detto, non sono stato io a scegliere il dialetto; è stato lui che ha scelto me! La prima lingua che ho ascoltato, la prima lingua che ho imparato, la prima lingua con la quale ho interloquito con i miei simili è stata la parlata siciliana della mia città; la lingua d’‘a minna (la lingua del seno materno), come l’appellò il nostro illustre poeta ramacchese Vito Tartaro. È stato un atto naturale; nessuna strategia, nessuna forzatura è stata praticata. L’italiano l’ho appreso dopo, a scuola; l’italiano si è sovrapposto al dialetto, si è imposto sul dialetto, si è sostituito al dialetto. Per lunghi anni è stato così. Poi (d’un tratto?) il dialetto, evidentemente mai del tutto piegato, mai del tutto sconfitto, mai del tutto sbaragliato ma solamente sopito, ingabbiato, proscritto, s’è presa la sua rivincita! S’è scrollato di dosso decenni di abbandono, di negazione, di rifiuto e, in tutta la sua bellezza, dovizia, duttilità, nel rigoglio delle sue nobili radici greche, latine, arabe, si è fatto, si è elevato, si è eletto, prepotentemente, a lingua della mia poesia. Mi viene in proposito da considerare che sono in buona sostanza bilingue, ho adeguata competenza in entrambi i registri linguistici; perché mai, arrendendomi peraltro a una devastante sudditanza culturale in voga, dovrei rinunciare a uno di loro, a quello per giunta che più mi appartiene, a quello al quale più appartengo? D’altronde, sappiamo bene, la bontà di ciò che si dice/scrive non insiste per assioma sullo specifico codice di comunicazione che si adopera quanto sulla qualità intrinseca del pensiero che esso esprime e sulla forma che tale pensiero assume.
Si situa in quest’ambito, entrando nel merito del nostro incontro, la poesia dialettale. In ciò peraltro confortato dall’assunto di Giovanni Vaccarella: “La poesia dialettale oggi è poesia di cose e non di parole, è poesia universale e non regionalistica, è poesia di consistenza e non di evanescenza”. Oltretutto – rileva con acume Antonio Corsaro – “i dialettali non sono mai stati estranei alle vicende della cultura nazionale, anche se disuguale è il loro piano di risonanza”.
Quanto a me, fatti salvi forme e contenuti circa i quali va affidata “ai posteri l’ardua sentenza”, scrivo in siciliano perché il mio sentire è siciliano, i miei pensieri nascono in siciliano, il mio animo è profondamente, convintamente siciliano.
2. Il linguaggio da me schierato può (talora) profilarsi, nel suono e nel senso, di primo acchito poco comprensibile. Ciò perché, nel mio impari cimento con l’atto della creazione, sono andato a ricercare nelle vastissime plaghe del dialetto le parole, le locuzioni nominali, verbali, aggettivali, giusto quelle e non altre, che potessero al meglio rendere i concetti e i frangenti che esso andava a veicolare, che potessero costruire una sintassi di immagini atte a ri-creare non solo il senso ma anche il “tono” del mio pensiero. Ebbene, riguardo a ciò, probabilmente, esso pare esorbitare quello comunemente spacciato nella esangue e frettolosa prassi quotidiana. Una precisazione nondimeno, al fine di evitare di incorrere in facili equivoci e di scongiurare erronee impressioni che potrebbero derivarne e a beneficio soprattutto di coloro non iniziati alle finezze linguistiche, è doverosa. In effetti io non pratico e non adopero parole rare o desuete, arcaiche o dismesse; tutti i miei termini sono frutto di una lunga, assidua, entusiasta frequentazione del dialetto, di ieri e di oggi, dell’occidente e dell’oriente dell’Isola, degli studi dei testi di quei poeti, letterati, cultori che nel tempo, nei secoli ormai, al nostro dialetto hanno votato le loro esistenze. E pertanto, essi sono termini tutti del dialetto siciliano; termini, come poc’anzi detto, che al meglio realizzano il mio pensiero.


3. Siffatto dialetto perciò, e ci accostiamo così al secondo risvolto del mio lavoro, la traduzione, non teme tenzone. Ci potremmo inoltrare nell’argomento, se ne avessimo tempo e spazio, mediante taluni adattamenti desunti dal mio lavoro del 2014 Na farfalla mi vasau lu nasu, silloge alla quale comunque vi rimando.
La traduzione di poesia è un’operazione delicata e complessa, che implica problemi teorici e pratici non sempre di facile soluzione. “Un concetto, assevera Attila József, è lo stesso sia per un filosofo cinese che per uno ungherese o inglese. Chiunque può esporlo con le proprie parole. Il concetto quindi, in quanto spiritualità, è dell’umanità intera. Ogni filosofia infatti è traducibile in ogni lingua, perché importante è che vi sia concordanza concettuale, non verbale e se in una lingua non vi fosse una parola specifica per un concetto, noi possiamo sempre parafrasarlo ed esprimerlo, ciò nonostante, perfettamente”.
Ho affrontato l’attività di traduzione dopo accurati studi e dopo avere fatto miei parecchi degli assunti che nel tempo ho appreso. Luca Guerneri rilevò che “il confronto con l’altra lingua diventa spesso un braccio di ferro con la propria”; Alba Olmi che “si tratta di una trasposizione di testi, non di parole o frasi, da una cultura all’altra e che è l’opera stessa da tradurre a suggerirci i percorsi”; Paul Ricoeur che “il traduttore forza la propria lingua a rivestirsi di estraneità e la lingua straniera a lasciarsi de-portare nella sua lingua materna perché non solo i campi semantici non si sovrappongono, ma le sintassi non sono equivalenti, l’andamento delle frasi non veicola le stesse eredità culturali”. Tradurre poesia è dunque (per me) impresa nella quale, per quanto impegnativo, è gratificante e perentorio riuscire. Ciò perché la traduzione, questo genere letterario a sé, è per forza di cose re-invenzione in certa misura del testo originale, è un passe-partout che ci introduce a un inusitato trip letterario, è uno star-gate che ci spalanca l’altrui universo. Un universo composito, intriso di fantasia e parimenti radicato nella attualità, crudo e allucinante e altresì tenero e sognante, un universo che se per taluni caratteri rinveniamo sotto casa per taluni altri ci svela spaccati, scene, luoghi esoterici, misteriosi, mitici: la poesia di ogni latitudine, di ogni lingua, di ogni vocazione. Gli esiti non lascino trasparire il lungo studio e il grande amore che sono stati necessari, i vantaggi e gli svantaggi connaturati al passaggio da una lingua all’altra, l’iniziativa personale richiesta al traduttore e induca anzi il lettore alla considerazione che le poesie sembrano essere state concepite, nel nostro caso, in siciliano.
La mia attività di traduzione coincide con un’opera di promozione scaturita da una consapevole assunzione di responsabilità nell’implicito giudizio positivo di poeti senza limiti geografico-temporali e linguistici. Autori che si collocano dalla classicità, Orazio e Catullo, ai nostri giorni, taluni addirittura viventi: Peter Thabit Jones, Iacyr A. Freitas e Jacques Thiers; autori di disparate regioni dell’Europa e delle Americhe: Peter Russell, George Bacovia, Nat Scammacca, Horacio Castillo; alcuni planetariamente noti: Charles Bukowski, Edgar Lee Masters, Wislawa Szymborska, fianco a fianco ad altri scarsamente conosciuti o pressoché sconosciuti in Italia: Duncan Glen, Paul Snoek, Robert Garioch e Hugh Mac Diarmid. Tutti autori nondimeno di spessore, di valore, che trovano, tramite il mio devoto tributo, una piccola ribalta, un’angusta finestra mediante la quale affacciarsi ed entrare a far parte della cultura siciliana. Le mie traduzioni, preferisco però che le si appellino adattamenti, si propongono di restituire l’inconfutabile nobiltà, la straordinaria contemporaneità pur nella millenaria storia, l’innegabile capacità del dialetto siciliano di confrontarsi tuttora a testa alta, in tutta dignità, armonia, compiutezza, con ogni altra lingua, cultura, civiltà del nostro pianeta. Oltretutto, “Tradurre poesia, attestò Eugenio Montale, è uno dei possibili modi di fare poesia”.
4. Direi adesso di porre un argine al viaggio fra le “cose” di mia pertinenza e di concludere col solo menzionare uno dei miei volumi di saggi, datato 2013, dal titolo Parleremo dell’arte che è più buona degli uomini; la saggistica difatti costituisce la terza e ulteriore branca del mio lavoro. Come è successo che vi sia approdato? Cresceva spontaneamente dentro me, man mano che andavo scoprendo, man mano che andavo leggendo, man mano che andavo studiando quei poeti (una buona fetta dei quali figurano in quel volume), una irrefrenabile curiosità, una sana voglia di saperne di più, un reale interesse all’approfondimento. Fu così che una traccia dopo l’altra, uno studio dopo l’altro, un anno dopo l’altro un bel giorno mi sono ritrovato in libreria una ragguardevole, in quantità e in qualità, mole di documentazione, acquisita dalle più svariate fonti: le riviste, le frequentazioni letterarie, le biblioteche; materiali che nel tempo, singolarmente, videro luce qua e là su periodici nazionali di settore. “Perché, mi venne un bel dì suggerito, non ne rivedi alcuni nell’ottica di una raccolta unitaria da pubblicare?” In verità non vi avevo mai pensato anche perché, trattandosi perlopiù di autori di fine Ottocento e della prima metà Novecento e per giunta in dialetto siciliano, non credevo potessero appassionare tanti oltre che gli addetti ai lavori. Raccogliendo ciò malgrado la sfida, allestii la raccolta, mutuando un passo dalla corrispondenza fra Alessio Di Giovanni e Silvio Cucinotta la denominai Parleremo dell’arte che è più buona degli uomini e, per una fortunatissima congiuntura, la proposi alquanto titubante a un illuminato editore lombardo il quale, senza indugio alcuno, piacevolmente stupendomi, accettò di pubblicarla.
Chiudo questa essenziale chiacchierata, facendo un rapido accenno ai progetti ai quali attendo in questo momento. Sto curando, presso una associazione culturale della mia città, una rassegna denominata “Galleria Letteraria” che si protrarrà fino a tutta la primavera; di recentissima pubblicazione a New York la mia traduzione in siciliano della raccolta di poesie, The Divine Kiss, dell’autrice anglo-statunitense Carolyn Mary Kleefed; nel corso di questo 2018 conto di pubblicare, sempre a New York, una selezione trilingue (siciliano, italiano e inglese) dei miei testi.