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giovedì 29 marzo 2018


Eu prattomen, Diego
di Gabriele Scaramuzza

Ricordo di Diego Lanza e Mario Vegetti

Diego Lanza
Sono le parole con cui Mario Vegetti conclude il necrologio che ha firmato per Diego Lanza, “indimenticabile amico e compagno di sudi di una vita intera”, il 7 marzo, ma apparso sul Corriere della Sera l’8 marzo, il giorno successivo alla morte dell’amico, e pochi giorni prima che egli stesso, l’undici marzo, mancasse. Se ne sono andati a pochissimi giorni di distanza l’uno dall’altro: un destino comune dopo una vita di ricerche passata insieme, nello studio della cultura greca. “Eu prattomen, Diego” sono parole che colpiscono: testimoniano la coscienza di un lavoro ben fatto, di una vita compiuta, come non accade a molti. Possiamo ritenerle anche parole che Vegetti ha posto a epitaffio della propria vita. Certo sono la persona meno indicata a scrivere di Lanza e di Vegetti; loro men che meno si sarebbero aspettati che lo facessi. Ho ricordi tuttavia di entrambi che non mi si cancellano, ed è come un dovere verso me stesso scriverne. Non riguardano certo i loro studi, che vanno oltre ogni mia competenza; non posso che attingere alla mia memoria personale. Con Lanza non avevo da decenni alcun rapporto. L’ho conosciuto poco, a volte lo avvertivo lontano. Ho saputo, nell’anno di collegio passato insieme, che avevamo frequentato a Milano la stessa scuola media, la Cagnola, a tre anni di distanza ovviamente; avevamo avuto la stessa insegnante di lettere, senz’altro brava, anche se le nostre esperienze di essa divergevano.    
Mi è stato compagno di collegio per un anno, con Vegetti appunto, Rochat e altri. Il primo anno di università (provenendo dallo scientifico) mi ero iscritto a Scienze Politiche, ma dovevo anche preparare la maturità classica, dato che volevo passare poi a Filosofia. Lanza, e con maggior assiduità Lorenzo Deagatone, mi furono di aiuto nell’apprendimento del greco, che studiavo da autodidatta. Almeno questo devo loro dunque, ma non soltanto questo. Ho percepito presto l’ hostinato rigore (per ricorrere a un termine che Antonio Banfi ha fatto proprio) di Lanza, sul piano etico non meno che su quello degli studi; so della sua ampia cultura, non limitata alla sola antichità classica (ricordo una volta una sua opinione su Thomas Mann). La sua grande capacità di lavoro soprattutto in ambito grecista è nota; ma di quest’ultimo ambito non è da me -tanto meno dotato dei due amici- parlare. Mi sono rimaste tuttavia domande, per me significative, su di lui. Abitava dalle mie parti a Milano, solo col padre. Ho sentito dire che sua madre era russa, ed ebrea, presto morta non so come. La sua religiosità è stata la cosa che più mi ha interessato della sua personalità. Una volta mi disse del suo esser cattolico, sulle prime me ne stupii, tra i suoi compagni “laici” penso fosse l’unico; aggiunse però qualcosa che si è inciso nella mia memoria: l’esser cristiano contava per lui più dell’esser cattolico. Mi precisano però ora Sandro Mancini ed Elisa Romano che a loro risulta, da quando lo hanno conosciuto, che fosse tendente al protestantesimo e vicino ai valdesi.   
Trascorremmo insieme ad altri ghislieriani qualche tempo a Monaco, credo nel settembre del ‘63; ci portò anzi con la sua piccola auto lui stesso, ricordo l’autostrada del Brennero, stretti tra camion, la sua guida nervosa. Da Monaco facemmo una gita insieme di qualche giorno in Baviera, con Speroni (da tempo scomparso) e Malcovati; del tragitto ricordo solo Bamberg, oltre a una sosta in un paese in cui per la prima volta presi il Leberkäse (mi è rimasto impresso - stranamente, incongruamente, come spesso accade). A Milano ricordo solo che venne da me una volta con un nostro compagno inglese del Maximilianeum. In seguito lo incontrai di sfuggita negli uffici universitari di Pavia; da ultimo lo vidi solo da lontano al funerale d Dario Del Corno qui a San Nazaro. Sentii poi dire che non stava bene, come del resto Vegetti. Notizie dei suoi ultimi tempi li ho avuti da Elisa Romano: “Da anni Diego aveva continui problemi di salute, sia cardiologici sia polmonari, più volte era stato in ospedale; non so quale sia stata la causa della morte, ma la notizia, pur imprevista, non ci ha colto di sorpresa”.  

Mario Vegetti
Quanto a Vegetti, ne ho accennato in pagine autobiografiche che riguardano anche gli anni del Ghislieri nel mio Un’insostenibile voglia di vivere. Di questi anni riaffiorano almeno due ricordi che mi sono rimasti impressi: uno filosofico: il primo è la sua affermazione secondo cui la filosofia è già tutta in Platone, e che la sua storia non sia stata che una variazione sui temi da questi proposti (non gli do torto col senno di poi). Il secondo riguarda un episodio: ritorno in treno verso Milano con Vegetti, non ci si chiamava per nome. Autunno del 1959. Una stazione intermedia di un piccolo centro, Locate Triulzi, forse. Vegetti -molto impegnato a sinistra- mostra pietas, da socialismo romantico (intimamente lo apprezzo), per ragazzini magri, malvestiti, denutriti, che osserviamo dal finestrino del treno, fa risalire la loro magrezza a misere condizioni di vita. Non colsi nel suo atteggiamento qualcosa che mi potesse riguardare; forse semplicemente non seppi cogliere il suo modo di mostrarmi una vicinanza. Non rientravo, mi parve piuttosto allora, nei casi contemplati, non corrispondevo al modello “di umili condizioni” compatibile con la sua ideologia. Ma mi è rimasta la sensazione che semplicemente mi sbagliavo, e me ne dispiaccio.    
Avevamo appena dato un esame, il suo ultimo, uno dei primi per me: Filosofia del Diritto. Abbiamo preso qualcosa insieme in una trattoria, un caffè mi è stato offerto da lui, simpaticamente; è sembrato qualcosa si sciogliesse tra noi. Così una sua lezione a Padova, una cena coi colleghi; successivamente un accogliente incontro nel suo luogo di lavoro, il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Pavia (lì insegnò sempre, tranne un anno a Milano nel 1968-69), dove andai per un concorso. Ma poi di nuovo qualcosa si inceppò, per qualche tempo. In seguito vi furono incontri casuali a Levanto, dove andava abitualmente; faceva parte di un gruppo che includeva tra gli altri Lella Costa, Antonio Monestiroli (che ho conosciuto in quanto Preside di Architettura). Ci trovammo a un concerto palestinese a Vernazza, una sera lo trovai a Bonassola per una conferenza, a una terrazza sul mare. A Milano tante volte alla Casa della Cultura con Silvia Vegetti Finzi, una volta almeno alla Scala. La conclusione è un incontro liberatorio in anni recenti a Milano, davanti all’ingresso del Dipartimento di Filosofia: il sollievo di un epilogo fino ad allora solo sperato, e su un tono che non gli conoscevo. Di questo gli resto grato.