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giovedì 22 marzo 2018


LIBRI
O IL DISARMO O LA CATASTROFE
di Angelo Gaccione

Il libro di Manlio Dinucci dovrebbe stare sui banchi di tutte le scuole, ma soprattutto nelle mani dei decisori politici e istituzionali, di chi si accinge a governare il Paese, e di quanti, addetti all’informazione e impegnati nell’ambito della cultura, svolgono il ruolo fondamentale della conoscenza.

Manlio Dinucci

A fine lettura di queste trecento pagine del libro di Manlio Dinucci Guerra nucleare. Il giorno prima, sottotitolo ammonitorio e sconfortante: Da Hiroshima a oggi: chi e come ci porta alla catastrofe (Zambon editore, 2017) le domande sono sempre le stesse. Com’è possibile che dopo due tremende guerre mondiali l’umanità non abbia imparato nulla?  Com’è possibile che non ci si renda conto che con l’esistenza delle armi nucleari siamo entrati in un’altra era? Un’era in cui è divenuta tragicamente concreta la possibilità di cancellare l’intero genere umano, annientare ogni forma di vita animale e vegetale, azzerare la linea temporale della storia. La quantità e qualità di armi accumulate, la potenza distruttiva di cui le hanno dotate la scienza e la tecnologia al servizio della morte, è divenuta così spaventosamente abnorme, che non c’è altro spazio per il pensiero di questo nostro tempo, se non per quello che pone al centro della sua meditazione, l’assioma ultimativo con cui il filosofo Bertrand Russell e il fisico Albert Einstein ammonivano il mondo: O l’umanità distruggerà gli armamenti o gli armamenti distruggeranno l’umanità. Che cosa deve accadere ancora? Quante devono diventare sullo scacchiere mondiale le guerre guerreggiate perché se ne prenda atto? E il numero degli Stati nucleari quanti devono diventare? A che numero devono arrivare gli ordigni nucleari custoditi negli hangar delle basi militari italiane, perché le piazze trabocchino di uomini e donne indignati? Fino a che punto deve essere messa sotto i piedi la nostra Costituzione nata dal sacrificio della Resistenza, prima che la rivolta morale si diriga in massa davanti a Palazzo Chigi, al Parlamento, al Quirinale, per ricordare che in nessun punto di quella Carta costata sangue, è scritto che la nostra patria debba ospitare sul suo territorio bombe nucleari, missili, armi di distruzione di massa? Che nessun soldato italiano debba andare a uccidere e morire fuori dalla sua nazione e che è fatto divieto di aggredire qual si voglia Paese in maniera unilaterale, come da anni stanno facendo i governi di questa che indegnamente definiamo democrazia? A partire dall’Unità d’Italia, non c’è stato una sola aggressione nei confronti del nostro Paese; in compenso siamo stati sempre noi ad aggredire, e quando il fascismo è morto i costituenti hanno  saggiamente deciso che l’Italia avrebbe dovuto risolvere le controversie internazionali in modo pacifico e senza più guerre. Avrebbero dovuto avere più coraggio e disarmare unilateralmente, impiegando le risorse della “difesa” per le spese sociali, ora che Hiroshima e Nagasaki avevano mostrato che nessuna difesa sarebbe stata più possibile, se per difesa intendiamo l’incolumità delle popolazioni civili, della salvaguardia del patrimonio industriale, degli ospedali, delle scuole, dei beni architettonici, delle abitazioni, e così via. 

La copertina del libro

Quella occasione, ahimè si è persa. Ora tuttavia è un altro tempo: è il tempo di “un mondo al bivio”, come ci allerta Dinucci col suo terribile e documentato libro. Il tempo di un possibile inverno nucleare, del club dei paesi nucleari divenuto più ampio, delle “valigette nucleari” di Russia e Usa che fanno la spola con i loro presidenti da un capo all’altro del mondo, degli incidenti che vengono nascosti all’opinione pubblica, dell’inquinamento radioattivo, della continua rincorsa verso l’arma totale per il primo colpo con l’illusione idiota di farla franca, del tentativo di militarizzare lo spazio, dei sommergibili sempre in movimento, di alleanze che si disfano e si ricompongono pericolosamente, di destabilizzazioni di intere aree, di escalation sempre più irresponsabili e provocatorie, di nano-tecnologie, armi laser ed elettromagnetiche, di robot e di droni, il cui controllo diviene vieppiù aleatorio, di commercio di sostanze chimiche e batteriologiche, di spionaggio ossessivo, di affidamento della sicurezza a computer sofisticati ma non per questo invulnerabili e sicuri. Allora di fronte a tutto questo, alla possibilità di cancellazione totale della vita e dell’intero creato, come sottolinea il papa, a questo cambiamento epocale che tende verso la catastrofe ultimativa, è necessario un mutamento radicale del nostro pensiero e del nostro agire, come ci esortano le pagine del libro di Dinucci, perché la lancetta dei minuti si sta avvicinando pericolosamente al buio della mezzanotte nucleare. Alcune cose possiamo farle subito noi italiani per alleggerire il clima delle tensioni internazionali. Noi non siamo il Costarica, siamo la quinta potenza economica del mondo, e un nostro possibile disarmo avrebbe un impatto straordinariamente positivo in ogni dove. Il prossimo governo che si insedierà, potrebbe intraprendere alcune misure minime, ma foriere di sviluppi magnifici. Potrebbe creare quel Ministero per la ricerca della Pace al posto di quello della Difesa che non è stato possibile avviare all’indomani della formulazione della Carta Costituzionale, e fare dell’Italia il luogo aperto al mondo per redimere crisi e controversie, ospitando in una città simbolo come Assisi, delegazioni e diplomazie interessate. Potrebbe spostare il 50% del personale militare in un corpo preposto alla cura e al controllo del territorio (incendi dolosi del patrimonio forestale, rifiuti tossici, discariche abusive, cura del suolo, controllo dei corsi d’acqua, abusivismo edilizio). Sospendere l’acquisto dei cacciabombardieri destinando i miliardi di euro alla riorganizzazione efficiente di questa struttura di cui ho accennato più sopra, avviare l’uscita dalla Nato e rimuovere gli ordigni nucleari dalle nostre basi, ripristinando in tal modo il dettato costituzionale violato. Va da sé che la nostra Repubblica non dovrebbe più impiegare i 70 milioni di euro al giorno che stiamo spendendo per la difesa, ma razionalizzarne l’impiego fra spese socio-sanitarie, dell’istruzione, e supporto a quelle imprese che dovranno convertire la loro produzione bellica in settori economici più dinamici e in ricerche negli ambiti che coniugano valore sociale e possibilità espansive. Su questa buona strada il Paese istituzionale e i corpi sociali, dovrebbero proseguire il cammino fino alla completa estinzione dell’apparato militare, valorizzandone competenze e tecnologie per irrobustire i ranghi della Protezione Civile e farne un efficace baluardo di pronto intervento e di cura, per il fragile assetto idrogeologico del nostro bellissimo e martoriato Paese.