Teatro
LA MEDEA AL
MASCHILE DI RONCONI
di Leonardo Filaseta
Luca Ronconi |
Dal 13 al 29/3 è andato
in scena al Teatro Strehler la ripresa della Medea di Euripide con la regia di Ronconi, dopo 22 anni dalla
prima. L’azione, in uno scenario essenziale, si svolge a Corinto, dove Giasone,
Medea e i due figli, hanno preso dimora. Giasone rifiuta la barbara Medea e
sposa la figlia del re Creonte, pensando alla successione. Il re ordina
l’esilio a Medea. La quale si mostra rassegnata con Giasone, anzi invierà doni
alla regina: una corona e un peplo. Un’insidia mortale: la regina
nell’indossarli perisce. Il padre stramazza su di lei. Giasone va a cercare i
propri figli e li trova uccisi dalla spietata Medea per vendetta.
La
più complessa delle tragedie di Euripide nel progetto ronconiano di affidare Medea
a un uomo è una visione geniale, dirompente. Viene calata in Franco Branciaroli
come l’attore più adatto, direi unico, per capacità mimetiche, gesto glaciale e
voce quasi siderale. Si sono fusi il talento raziocinante di Ronconi che
viviseziona con crudele asciuttezza la materia incandescente con la pacata,
straniata, impassibile, a tratti sorniona attitudine di Branciaroli.
Si
è nella linea del teatro brechtiano dello straniamento condotto al parossismo col
timbro asettico quasi metallico di Branciaroli: si guarda e racconta, disincantato
e lucido, la vicenda che oltrepassa i millenni. È
come se stesse aprendo il libro del processo umano dalla preistoria che continua
e si proietta nel futuro con squadernamento naturale, asettico. È il gioco delle parti cosmico: il male è
dell’essere umano – femminile e maschile – e la forza trascinante è in quel che
c’è di virile in Medea virago. Sì, ci vuole determinatezza, cuore inaridito e
crudeltà da guerrieri per esprimere al di là del tempo con trasparente
evidenza, e quasi con naturalezza, la strage.
Infatti
noi spettatori, non siamo agganciati emotivamente ma pensosi e riflessivi di
fronte alla dimensione filosofica, metafisica della fabula. Sic necesse est.
Ci
accora e ci attanaglia a tratti quando Branciaroli-Medea è lacerato da dubbi amletici,
volendo districare l’oscura matassa dei timori diventati incubi. Inutile dire
che lo stralunato e strabiliante Branciaroli divora la scena con la sua
capacità camaleontica. Quando non c’è lui il tono cala. Chi può stare di fronte
a un gigante che si appiomba nell’uditorio con L’asseveratezza di chi cerca
l’assoluto, il vero? Impersona il mito con la possanza di chi per decenni con
ogni cellula ha ricercato e “fissato con sguardi furenti, come di leonessa fresca di parto”. Di chi
ha affilato lo sguardo allucinato verso
l’infinito arrancare dell’uomo in ogni tempo, di sempre.
Franco Branciaroli |
Tutti
in abiti borghesi d’oggi, tranne Branciaroli ingabbiato in una tunica-corazza
medievale che lo blocca simbolicamente: la statua del dolore? Creonte di
Antonio Zanoletti e Giasone di Antonio Veneroso con la loro recitazione
realistica risultano fiacchi. “All’implacata e orgogliosa” Medea si adegua la
nutrice di Elena Polic Greco che con pathos materno, placante, “invoca/Temi che
i voti consacra, e Zeus che dai mortali/ qual custode dei giuramenti è
onorato”. Gran merito al coro che con cadenza risonante e vigorosa compassione
s’intona con Medea: con equilibrata aura d’alta espressività. Altisonante si
rivolge agli dèi: “O Zeus, o terra, o luce/qual gemito modula/la misera
sposa?..., /perché deponga il tristo furore”. E plana dolente, con mano generosa:
“Almeno non manchi agli amici la mia sollecitudine”, esprimendo l’eterno
dolore: “Nessuno con la poesia e con l’armonia/trovò come placare nefasti
affanni, onde nelle dimore/casi terribili si abbattono e morti”.
Grave
arriva la fine con aura biblica: Branciaroli-Medea, piegata avanza verso di
noi, conducendo i due bimbi insanguinati, piegato a compassione, come un Gesù
Cristo nel calvario...
Tutti
meditabondi su tale sempiterno mito: un po’ turbati, ma viepiù ammantati
dall’aura d’interrogativi filosofici e incanalati dal rituale sacrale ad
accettare l’umile pena di vivere: piccoli e in cammino. Scocca l’effetto quando
ci rendiamo conto di aver partecipato a un raro rito di due grandi del teatro
che – tutto vero, anche se crudele- ci ha squarciato l’intimo e… noi non siamo
più come prima.